mercoledì 24 dicembre 2014

Alle donne che non si arrendono

Ho scoperto Maysoon Zayid grazie a un magnifico post di Annamaria Testa.

Maysoon Zayid soffre di paralisi cerebrale fin dalla nascita e nonostante la malattia ha imparato a camminare, ha frequentato la Public School, ha ottenuto una borsa di studio all'Università Statale dell'Arizona, ha iniziato a lavorare come comparsa in una soap opera... Oggi è la prima cabarettista del mondo arabo.
In uno dei suoi più famosi monologhi dice di se ho 99 problemi e la paralisi cerebrale è solo uno di quelli... Sono palestinese, musulmana, donna, disabile e vivo nel New Jersey…” J.
Sono diverse le donne straordinarie che ho scoperto (o riscoperto) ultimamente nei modi in cui oramai si scoprono molte cose: un blog, un link, un clic di troppo, un viaggio, Facebook, Pinterest, un libro o un colpo di fortuna. Ognuna di loro mi ha fornito spunti di riflessione e di approfondimento.
Sono scrittrici, filosofe, giornaliste, blogger, cabarettiste, eroine della resistenza, donne “qualunque”...
Una è mia madre.
Nel 2012 è entrata in sala operatoria alle 13.30 di un mite mercoledì di primavera per un intervento ordinario, benché non proprio di routine, per la rimozione di ernie cervicali. Doveva essere tutto finito per il tè del pomeriggio, è uscita dalla sala operatoria per essere trasferita in terapia intensiva poco prima di mezzanotte.
Alcune complicazioni avevano reso necessaria una tracheotomia, una cannula in gola le impediva di parlare, tubi e fili ovunque la immobilizzavano, si sarebbe nutrita nei giorni successivi solo attraverso un sondino nel naso, ma appena sveglia dall'anestesia chiese ai medici increduli di aiutarla a mettersi seduta con le gambe fuori dal letto.
A nulla valsero i dinieghi, le raccomandazioni, gli inviti alla cautela per il pericolo di movimenti che potevano staccare i collegamenti dei macchinari. La vidi aggrapparsi al braccio del chirurgo con parole silenti e definitive finché le permise di sedersi sul letto con le gambe penzoloni. Un sorriso le illuminò il viso tumefatto e compresi allora che era il suo modo di dirmi che stava lottando e che non si sarebbe arresa.
Elucubrando in questi giorni sul post di natale, gli auguri, le foto (ho scaricato alcune immagini splendide di alberi di natale e tavole allestite che terrò per il prossimo annoJ) mi sono chiesta se l’ augurio che avevo in testa per l’ anno che verrà non rischiasse di andare fuori tema.
Anche se così fosse, il mio augurio è precisamente questo: di non arrendersi alla stanchezza, alla noia, al conformismo, all’ordinario, alla discriminazione, al pregiudizio, alla violenza, all’infelicità, all’incertezza, alla sopraffazione, alla prepotenza, alla malattia.
E pazienza se andiamo fuori dal seminatoJ.
Budapest - Mercatini di Natale
Merry Christmas and Happy New Year!

Follow my blog with Bloglovin

sabato 13 dicembre 2014

Delle case effimere

In questo periodo, ancor più che in altri, la mia frenesia di trasformazione tocca l’apice.

Sono di quelle persone che cambierebbero il colore delle pareti, la disposizione delle stanze, i sanitari del bagno un giorno si e l’altro pure, con somma preoccupazione dei membri conservatori della famiglia, soprattutto quando l’incipit “ho avuto un’idea” è lasciato cadere con nonchalance al primo sorso di caffè della mattina, con la vista ancora annebbiata e non tutte le facoltà attive. E l’idea è di trasformare la finestra della cucina nell’ingresso del Bow window e poco importa se non abbiamo un bovindo...


In questo periodo il mondo si addobba di luci fluorescenti, festoni colorati, decorazioni glitterate. È un mondo temporaneo ed effimero e proprio per questo nelle corde di chi, come me, rifugge dalla malìa del duraturo. All’indomani, si smonta l’albero, si impacchettano luci e addobbi e siamo già proiettati verso i bulbi primaverili.
Maisons Ephémères, un po’ come i famosi jardins di Laurent–Perrier.
Una casa effimera vive di piante riorganizzate ad ogni inizio di stagione, di librerie riallestite al ritorno da ogni viaggio, di una nuova mensola dove poggiare un tablet e qualche piantina grassa, di un quadro senza collocazione, di un espositore con cartoline sempre diverse, di una lavagna con un disegno provvisorio…
Non è (solo) cambiare le tende, i tappeti, i cuscini del divano o sostituire una lampada, non è allestire una mise en place o un “angolo emozionale”. Una casa effimera è creatività e approfondimento, è ispirazione e ricerca, qualche volta, raramente, è perfezione.
Provvisoria, s’intendeJ




Foto via Blood&Champagne

Follow my blog with Bloglovin

lunedì 8 dicembre 2014

The perfect reading nook

La scorsa settimana, armata di una lunga lista di libri, mi avvio gioiosa alla Feltrinelli sull’Appia pur con qualche remora di riuscire a trovare tutto quello che andavo cercando. Alle brutte, mi dico, ci sono diversi negozi di scarpe in zonaJ.



Dribblando già dall’ingresso la faccia di Fabio Volo accatastata ovunque, mi avvio verso il reparto per ragazzi alla ricerca di un regalo per una bimba di quattro anni. Non mi capita spesso di acquistare libri per l’infanzia per cui mi ero un minimo documentata (Una piccola selezione di libri per bambine e bambini contro gli stereotipi. Principesse che vogliono uccidere draghi, extraterrestri asessuati, ovetti curiosi e bambole agognate per pargolanza libera di scegliere) ma più passavo in rassegna Peppa Pig e principesse varie più mi sembrava di non venirne a capo. Le letture per bambini e bambine che non degradino nello stereotipo assoluto non dimorano evidentemente da Feltrinelli.
Indecisa tra una solitaria e scombinata Principessa ribelle e le altre (che ipotizzo “normali”) agghindate con tutù, ghirlande, ballerine glitterate e diademi su lunghi capelli fluenti, che mi veniva voglia di ritagliare la faccia di Fabio Volo e attaccarla sugli abiti rosa svolazzanti in copertina, opto infine per Il bambino che inventò lo zero. E speriamo bene…
Mentre mi avvicino al banco informazioni con il resto della mia lista scopro, con un fremito di repulsione, Simenon sullo stesso scaffale di Bisotti. Ecco, il cerchio si chiude, si comincia con le Principesse e si finisce con Bisotti. C’è da rimpiangere il Cicciobello nero.

Alla mia richiesta di informazioni, una cortese addetta, senza neanche cercare nel database, commenta che il libro che sto cercando è vecchio. Dice proprio così: ma è vecchio? Avesse detto scaduto sarei stata meno perplessa. Trattengo un rispostaccia ma non garantisco sul linguaggio non verbale. Digita il titolo. Bè, aggiunge, non  è troppo vecchio, è uscito nel 2012, ma non ce l’abbiamo, se vuole possiamo ordinarlo.
Senza troppa convinzione provo con il secondo titolo ma dopo una breve consultazione esclama inorridita: è del 2007! Mi rendo conto che un libro pubblicato nel 2007 può considerarsi perversione letteraria e sto per battere in ritirata quando aggiunge: questo proprio non lo troverà mai. Dice proprio cosi: mai. Categorica.
Il giorno dopo li ordino senza alcuna difficoltà su Internet, arriveranno in tempo per aggiungersi ai regali sotto l’albero o all’angolo lettura. The perfect reading nook, come dicono quelli che ci capiscono, guardate questo di Camilla e lasciatevi ispirare.
Buona letturaJ



Follow my blog with Bloglovin

sabato 29 novembre 2014

Piccoli spazi, grandi manovre

Chi non si è trovato invischiato, almeno una volta, in ristrutturazioni, traslochi e simili?

E quanti di voi possono dire di aver ricevuto il materiale ordinato senza ritardi e disguidi? Rullate i piedi, come gli ospiti in studio del ruggito del coniglio, in caso affermativo.
Ricordo ancora perfettamente, benché sia passato qualche anno, le lunghe attese di un frigorifero che non arrivava, scrutando la strada dal balcone mentre scorrevano le ore, si accendevano le luci dei lampioni e l’operatore del call center continuava a dire “sono partiti, stanno arrivando, dovrebbero essere in zona, tra 10 minuti sono sul posto…”.
Memore dell’esperienza, prima di confermare l’ordine d’acquisto del nuovo divano, mi sono assicurata (con prove testimoniali e telefonate registrate) che la consegna avvenisse con le modalità concordate e, soprattutto, che le misure fossero compatibili con quelle delle porte da cui doveva entrare (“signora non si preoccupi, glielo portiamo smontato”). Ma quanto può essere smontabile un qualunque oggetto non Ikea?
Così dopo aver passato in rassegna, con un brivido di apprensione e facendo gli opportuni scongiuri, tutte le parti rimovibili dall'ingresso al salotto (porte, termosifoni etc.) mi metto l’anima in pace e aspetto...Con mia sorpresa e in anticipo, poco tempo dopo mi comunicano che sono pronti per la consegna (vedi a volte il pregiudizio…).
Il fatidico giorno mi piazzo sul solito balcone alle 14.30 del pomeriggio e, più o meno quattro ore dopo dopo e un discreto numero di telefonate al reparto “magazzino e spedizioni” (“sono partiti, dovrebbero essere in zona” ecc.) arriva il furgone con il prezioso carico e si ferma nell'unico posto disponibile di tutta la strada, il parcheggio per disabili.
Ora, chi abita in un appartamento al secondo piano senza ascensore in una zona popolata di una grande città, e non in una villetta indipendente con giardino, non dovrebbe comprare mobili di nessun genere, tanto meno un divano.
I trasportatori sono in tre e quello che sembrerebbe essere il responsabile fa una veloce ricognizione, lamentandosi subito delle esigue dimensioni del cancello pedonale, al che chiedo, ma non è smontato? ricevendo in cambio un’occhiataccia che diceva chiaramente “la prossima volta vada da Ikea”…
Gli altri due sollevano alcuni pacchi (le chaise longue estraibili, ipotizzo) e arrancano con il pesante fardello su per le scale fino alla porta di casa, esaminando con una certa preoccupazione le dimensioni di quest’ultima ma, prima che possano formulare qualunque obiezione, li informo carinamente che bisogna far uscire il vecchio divano per poter far entrare l’altro… Il capo nel frattempo ha spostato il furgone dal parcheggio per disabili al passo carrabile e mentre arriva trafelato e si affaccia dal balcone per tenere sotto controllo il mezzo in divieto di sosta, sentenzia: non entrerà mai.
Optando per una strategia non belligerante ignoro la fosca previsione e preparo un caffè.
Riprendono le operazioni di scarico.
La “struttura” restante supera indenne il cancello pedonale e va ad incastrarsi nel primo pianerottolo, con uno dei trasportatori incuneato tra l’enorme pacco e il muro, mentre il secondo solleva il divano con una mano e con l’altra tiene ferma la lampada a sospensione (la scelta dell’illuminazione nelle scale è stata dettata più dall'estetica che dal valore pratico, ma onestamente non si poteva utilizzare una plafoniera nei punti in cui il soffitto disegna un arco!). Definitivamente intrappolati, in equilibrio precario, impossibilitati a salire e a scendere, i due tastano il divano alla ricerca di altre parti smontabili finché, finalmente, riescono a sfilare i cuscini dello schienale e riprendono faticosamente la salita.
La scena si ripete quasi identica per ognuno dei pianerottoli, l’ingombrante fardello supera infine incredibilmente la porta d’ingresso e scivola dal corridoio al salotto che neanche la testimonial delle Dietorelle. Quando si dice… J

Follow my blog with Bloglovin

venerdì 21 novembre 2014

Il Divano? Questione di metodo

L’acquisto di un nuovo divano è una scelta che richiede, superata una certa soglia di prezzo, un processo di acquisto un po’ più articolato rispetto ad aggiungere un servizio da 18 di calici panciuti, e un infusore per il tè, nel carrello di Ikea.

Ma abbiamo veramente bisogno di un nuovo divano?
La domanda è meno peregrina di quello che può sembrare e indagare il vero, intimo bisogno da soddisfare e non quello che il marketing globale ci impone è solo questione di metodo.

Assodato dunque dopo serio e intimo raccoglimento, che il vecchio Ektorp ha fatto il suo tempo e che un nuovo divano è assolutamente necessario per la vostra e altrui felicità domestica, se siete nella situazione della sottoscritta, alle prese con due rappresentanti del genere maschile che considerano il divano un’appendice delle proprie articolazioni da cui riescono a far volare pigiami appallottolati fino al letto della cameretta, con un perfetto tiro a canestro, superando due porte disallineate e un pezzo di corridoio, mentre simulano una folla che applaude entusiasta; se alla vostra proposta di essere dinamici il sedicenne dinoccolato semi sdraiato risponde, con un colpo di vero genio e senza staccare occhi e dita dalla Play, noi siamo divanici….; se neanche lanciare gridolini entusiasti per quel gran fico di Garcia, durante una partita della Roma, mentre attraversate il salotto per stendere il bucato in balcone, scompone gli abitanti di Ektorp concentrati sulla tenuta del terreno di gioco in caso di pioggia … allora il vostro divano è il centro di un mondo che va preservato e un nuovo divano non solo è necessario, è indispensabile. 
Superata così brillantemente la fase della decisione d’acquisto con annesse motivazioni, il passo successivo è scegliere il modello.

Pure se avete già chiaro quello che ci vuole per la vostra casa, conviene sempre fare un minimo di analisi, stilare i requisiti (rosso-linee pulite-chaise longue-piedini-sfoderabile-stile West elm) e definire un budget.

Si passa quindi alla fase di ricerca di mercato con coinvolgimento di amici e parenti, approfittando magari di una Fiera del Mobile per mandarli in avanscoperta, muniti dell’immancabile lista di requisiti e di un numero imprecisato di foto di modelli “stilosi” scovati su Pinterest ma assolutamente introvabili nel nostro paese.
Se poi vi rendete conto che una (sola) Fiera del Mobile (benché con un buon livello di offerta) non ce la può fare a soddisfare TUTTI i vostri requisiti (rosso-linee pulite-chaise longue-piedini-sfoderabile-stile West elm) restano sempre gli altri 15.000 metri quadri di esposizione a cui vi rimanda la hostess dopo avervi inutilmente mostrato l’intero stand del produttore e anche quello della concorrenza.

Se infine davanti ai vostri occhi-laser, continuano a sfilare uno dopo l’altro divani di ogni foggia e colore e voi continuate a scuotere la testa con cipiglio da blogger navigata e giusto quel filo di puzza sotto il naso per i 10 lettori fissi (parenti stretti compresi), riprendete la lista dei requisiti e chiedetevi: perché i piedini? E se la risposta è “per spolverare sotto il divano” eliminate immediatamente il requisito al grido di “esci da questo corpo sorella!” e portatevi a casa un nuovo divano rosso-non sfoderabile-senza piedini-doppia chaise longue estraibile e libreria incorporata!! :-)

Inspiration mood - RED...



Inspiration mood - RED

P.S. Portatevi a casa è un’affermazione impegnativa, sulla consegna...nel prossimo post! Stay tuned:-)

Follow my blog with Bloglovin

domenica 16 novembre 2014

Chi spolvera?

La superficie di qualunque "cosa", sia essa un oggetto o un luogo, è intaccata dal tempo, riposa nel tempo. Viene corrosa, sporcata, impolverata in ogni istante.
Sono la sua caducità e la sua fragilità che la fanno vivere nel trascorrere delle ore, dei giorni, degli anni.


Roberto Peregalli, I luoghi e la polvere

Avete mai pensato a chi influenza veramente le scelte di arredamento? Gli Interior Designer direte voi, i blogger direte voi, le riviste di arredamento, i media, Pinterest!
Invece no. È la polvere.
Non mi ero mai soffermata troppo sul problema finché mia sorella, con cipiglio perentorio dichiarò un giorno: a casa tua ci sono troppi quadri!
Incerta se tanta indignazione riguardasse una sua qualche preferenza verso uno stile minimalista-talebano o ne facesse una questione di gusto espositivo (l’Ultima cena, ci era sembrata perfetta nel tinello, avevamo anche posizionato un faretto sul frigo per illuminarla dal basso, forse era la riproduzione di Giuditta e Oloferne a infastidirla...) provai ad indagare meglio il suo pensiero, certa di trovarvi prima o poi una profondità che al momento facevo fatica a cogliere.
Poi aggiunse “a casa mia non ci saranno quadri, né piante, né tappeti… perché fanno polvere”.
La polvere...
Ognuno di noi ha un metodo più o meno sperimentato e infallibile, spesso tramandato da generazioni di guerriere armate di piumino e panno elettrostatico, per contrastarne l’invadenza. Tempo fa, in una nota trasmissione televisiva pomeridiana si è avanzata l’ipotesi che con lo stendino del bucato in casa si producesse meno polvere e per tutto l’inverno abbiamo steso la biancheria in salotto ma, a onor del vero, senza risultati apprezzabili…
Così, dopo attenta riflessione e svariati approfondimenti sul tema (provate a cercare su Google “spolverare”…) abbiamo individuato poche semplici precauzioni che raccomandiamo a chi vuole sconfiggere per sempre l’odiato nemico:
·         tenete sempre le finestre sigillate in qualunque condizione atmosferica, compresi i mesi estivi, anche se avete casa ad Arzachena
·         acquistate rigorosamente mobili muniti di ante e scordatevi lo stile “open” tipo libreria Billi di Ikea
·         se proprio volete distrarvi dal pensiero di quadri, tappeti o librerie a vista occupatevi del bagno, magari sostituendo il vecchio lavandino con un enorme tino di cristallo (fatto fare su misura da un maestro vetraio) con rubinetto a cascata, così alle brutte, se insieme alla polvere ci finisce dentro un seme di mangrovia l’effetto giungla è assicurato.


Per me, che le macchie di dentifricio sul vetro del lavandino disgusterebbero più di qualunque pulviscolo e che alla parola “polvere” associo “azzurro” e non acari, prevedo di continuare con tappeti, quadri, piante e suppellettili varie, anche perché, nella suddivisione domestica dei compiti, la voce “spolverare” non è nella mia lista… ;-)





Follow my blog with Bloglovin

sabato 8 novembre 2014

New York: il grigio per i vivi, il verde per i morti

Fra cento anni uno studioso della preistoria web forse radunerà queste pagine e ci dirà con esattezza chi eravamo e cosa diavolo stavamo facendo da queste parti. Noi nel frattempo riposeremo in qualche posto meno affascinante di Highgate.
Massimo Mantellini, La vista da qui 

Nell’autunno del 2011 ero a New York con il mio compagno, tappa conclusiva di un viaggio “on the road” che aveva toccato diversi stati (California, Utah, Arizona, Nevada).

Approdare nella grande mela dopo settimane di Highway senza fine e paesaggi sconfinati (dalle valli glaciali dello Yosemite all’azzurra sinuosità delle coste pacifiche del Big Sur, passando per le aperture sterminate del Grand Canyon e l’accecante inafferrabilità della Death Valley…) ci ha causato qualche attimo di smarrimento (quell’ansia sottile e misconosciuta di uscire di casa e farsi massa, tutt’uno con quel microcosmo dinamico, mosso da un ritmo invisibile e convulso. Nasceva la folla...[i]) ben presto mitigato dal riconoscere la metropoli di tanti libri, film, spot pubblicitari, serie televisive... (tutti hanno visto new York senza averci mai messo piede...[ii]).

Una mattina presto, passeggiando per Manhattan, ci siamo imbattuti in quel piccolo strano gioiello che sembra richiamare, proprio all'imbocco di Wall Street, i limiti umani di fronte all'apparente onnipotenza del denaro, Trinity Church, un'oasi di pace nel caos del Financial District, reso ancora più indimenticabile dal minuscolo cimitero storico che lo circonda.

A New York il grigio è per i vivi, il verde per i mortifu la considerazione del mio compagno. Solo i pensieri nati camminando hanno valore, scriveva Nietzsche, ma anche senza scomodare i padri della filosofia, mi sembrò una riflessione di illuminante profondità…

Continuammo la passeggiata ma non potevo fare a meno di ripensare al cimitero della Trinity Church, a quanto fosse diverso dai moderni loculi multipiano dove il grigio-calcestruzzo abbonda e il verde è relegato in modeste aiuole, confuse e poco curate.



Non c’è più spazio nelle metropoli. E non c’è più tempo, perché il tempo è denaro.

Non c’è più spazio per panchine all’ombra dei cipressi e non c’è più tempo per passeggiare fino alla tomba del proprio congiunto per sfiorarne la superficie e il ricordo.

E allora eccoci qui, stipati, anche da vivi, in scatole di cemento livido dove non c’è più posto neanche per il ricordo della vita dopo la morte.





[i] Roberta Scorranese, Dalle tele di Camille Pissarro ai racconti di Edgar Allan Poe. Il fascino sottile e inquietante della moltitudine moderna
[ii] Corrado Augias, I segreti di New York

Follow my blog with Bloglovin

sabato 1 novembre 2014

Scuola, casa, orde di uccelli assassini

Non potevamo parlare di case nel cinema senza accennare a un edificio che da solo ne rappresenta l’essenza stessa, la scuola di Bodega Bay (Gli Uccelli, 1963).

Hitchcock era tanto fantasioso nelle storie e nelle trovate visive, quanto rigoroso nella topografia e verosimiglianza dei luoghi. Abbiamo potuto verificare di persona che le missioni spagnole di San Francisco de La donna che visse due volte esistono e sono collocate proprio lì dove il film le racconta. Il tragitto dal pub alla casa di Covent Garden in Frenzy è esattamente quello e dura tanto quanto la scena del film lo fa durare.
E Bodega Bay, piccola cittadina della costa californiana inspiegabilmente attaccata da stormi di uccelli feroci e spietati esiste davvero.
Si trova a qualche decina di chilometri a nord di San Francisco, ed è realmente un piccolo paese chiuso in una piccola baia e un punto di passaggio di un gran numero di specie di uccelli. E poco più all’interno, nell’ancora più piccolo villaggio di Bodega, esiste ancora una piccola casa su un rialzo del terreno, vicino ad una chiesetta.
Ora è una casa, molti anni fa era una scuola

Follow my blog with Bloglovin

domenica 26 ottobre 2014

Appendice: Wim Wenders e l’archicinema

La prima immagine che affiora alla mente pensando al connubio cinema+architettura è quella di Gary Cooper nei panni dell’architetto Howard Roark, ispirato a Frank Lloyd Wright, che nel film La fonte meravigliosa fa saltare in aria un suo edificio perché non realizzato come voleva. Era il 1949. Dopo questa data l'architettura è stata per lo più ignorata dai registi.”

Potevo finire qui la lettura dell’inutile articolo di Geoffrey Macnab dell’Independent da cui è tratto l’inciso ma provo, per completezza, ad arrivare in fondo.
Confermo la prima impressione, articolo superfluo e  inattendibile su Le Cattedrali della Cultura (in questi giorni al Milano Design Film Festival) e Wim Wenders, curatore della serie, che a sua volta sembra non trovare di meglio che affermare che “il cinema usa gli edifici come sfondi non come personaggi.”
Il cinema usa gli edifici come sfondi e non come personaggi?
Ci vengono in mente, di getto e in ordine sparso: la villa di Kane in Quarto Potere di Orson Welles e la casa ispirata a Wright nel finale di Intrigo internazionale di Hitchcock, il palazzo e cortile di La finestra sul cortile, (e anche un Hitch più vecchio, la casa maniero di Rebecca la prima moglie, protagonista assoluta della storia), e poi Psycho, Amityville Horror, Poltergeist… E l'albergo di Shining di Kubrick, La casa dalle finestre che ridono e Il nascondiglio di Pupi Avati, la villa del bambino urlante di Profondo Rosso, il condominio romano dell'era fascista di Una giornata particolare o La Terrazza di Ettore Scola. E ancora La camera verde di Truffaut…
E se non bastassero questi esempi, le Kontaminazioni e gli approfondimenti di questo blog  per confutare l’argomento, stay tuned, abbiamo ancora qualcosa da raccontarvi nei prossimi postJ.

Follow my blog with Bloglovin

venerdì 24 ottobre 2014

La casa dell’assassino. Sir Alfred a Covent Garden

In uno degli ultimi ruggiti della sua strabiliante carriera di regista, nel 1972, Hitchcock tornò nella sua Londra e piazzò la cinepresa nel bel mezzo di Covent Garden, quando era ancora il principale mercato di frutta e verdura della capitale inglese.

Il mercato sarebbe stato smantellato di lì a pochi anni, e in molti considerano Frenzy non solo uno dei tanti capolavori del maestro del brivido (Hitch ci precipita stavolta in un vortice di violenza e sesso, facendoci seguire un antipatico innocente che si dibatte come una mosca nella tela di un ragno intessuta da un simpatico assassino psicopatico che strangola giovani donne) ma anche uno straordinario documentario sul quartiere prima della sua definitiva trasformazione.
Ciò che interessa noi però, è che anche qui Hitch utilizza una casa in modo del tutto particolare. E’ la casa dell’assassino (che ci fa conoscere dopo dieci minuti di film). E’ proprio di fronte a Covent Garden (dove l’assassino lavora). E diventa il luogo dove viene commesso uno degli omicidi.
Ed è proprio la casa, e solo quella, che il regista decide di farci vedere mentre accade l’orrido e l’irreparabile. Segue per le scale assassino e vittima fino al primo piano della tipica casa londinese (assai simile a quella di Baker Street, per intenderci), ce li fa vedere mentre entrano in casa, e poi indietreggia, scende le scale e se ne va in retromarcia verso l’uscita mentre cala il silenzio. E continua, esce dal portone e a quel punto irrompono i rumori della strada e del mercato, si vede la gente che cammina, passeggia, lavora. Continua ad allontanarsi e ormai vediamo anche la finestra del primo piano, dietro la quale sappiamo che si sta consumando un orrore. Ma non vediamo e non sentiamo nulla se non i rumori della strada, che coprono e copriranno anche le urla della sfortunata vittima, se mai riuscirà ad urlare. La scena è magnifica, carrellata all’indietro di assoluto virtuosismo e rigore espressivo senza pari.

La casa è sempre lì, ripulita e restaurata, ma ben riconoscibile.

P.S. Essendo il mercato di Covent Garden il centro fisico del film, tutta la narrazione segue il cibo. Frutta, verdura, patate (in una scena memorabile), pub, immangiabili manicaretti da Nouvelle Cuisine cucinati dalla moglie del commissario, gustosi panini col prosciutto in autogrill frequentati dai camionisti.
Con sfumature meno autentiche ma altrettanto festose il cibo a Covent Garden continua ad essere oggi protagonista con i suoi negozi di delicatessen, le sue caffetterie, Tea House o Luxury chocolates… Per turisti appassionati di ghiottonerie e, of course, di cinemaJ.


Follow my blog with Bloglovin

venerdì 17 ottobre 2014

Hopper, Hitchcock, James Dean e il gotico Americano

Nel 1960 Alfred Hitchcock mette in piedi, con pochi soldi e la sua troupe televisiva, un film in bianco e nero destinato a cambiare per sempre l’idea di thriller e di horror.

Da lì in poi Psycho, il piccolo gioiello con Antony Perkins e Janet Leight, avrebbe riscritto le coordinate narrative e visive di qualunque storia avesse aspirato ad emozionare gli spettatori con la tensione e la paura.

Fra le mille invenzioni del genio londinese, ci fu anche quella di identificare la casa sulla collinetta con la presenza-assenza della terribile madre di Norman Bates. Lei non si sarebbe vista, il suo medium sarebbe stato in tutto e per tutto la casa, incombente, minacciosa, misteriosa ed inquietante nelle forme e nei chiaroscuri. Per ottenere un personaggio con una personalità degna del ruolo, Hitch si affidò ad uno stile architettonico ancora in voga all'epoca e che aveva avuto grande diffusione nei decenni precenti.

Si tratta del cosiddetto gotico americano, o californiano, mai davvero codificato come tale e più spesso indicato come "secondo impero americano", le cui forme avevano avuto grande fortuna in ville e villini della west coast.
Oltre all’architettura Hitch, da grande esperto del “visibile” quale era, ha sempre tenuto d’occhio l’arte e le sue tendenze (non dimentichiamo che scritturò direttamente Salvator Dalì per le scenografie del sogno/incubo in “Io ti salverò” del 1945) traendo ispirazione, nel caso di Psycho, dall’opera di un pittore americano di primissimo ordine, Edward Hopper, mai davvero inserito in nessuna corrente se non quella personalissima del proprio stile, che almeno vent’anni prima aveva ritratto proprio la casa perfetta per Hitch.

L’aveva messa vicino ad una ferrovia (“The House on the railway”), scorciandola leggermente dal basso in modo da renderla incombente e inquietante quel tanto che bastava. La luce, i tagli di ombre, tutto già nel quadro di Hopper concorreva a dare a quella casa non solo dignità di personaggio (era infatti, altrettanto originalmente, unico e solitario soggetto del quadro) ma anche personalità forte e multipla. E fu così che il grande regista inglese ottenne anche l’effetto di mostrare al mondo, riprodotta in tre dimensioni e animata da un sinistro soffio vitale, la casa dipinta tanti anni prima dal grande pittore americano.

Hopper, House by the Railroad -  Hitchcock, Psyco

In appendice, vi suggeriamo di cercare altre influenze della apparentemente semplice e innocente casa dipinta da Hopper. Quella di Psycho è la più celebre ma ad esempio, nel guardare la famosissima immagine di James Dean ne “il Gigante” del 1956, giustamente concentrati sul giovane attore maledetto nel suo momento di massima gloria, pochi forse hanno davvero mai notato la casa sullo sfondo…

Hopper, House by the Railroad -  Hitchcock, Psyco - Stevens, The Giant

Follow my blog with Bloglovin

domenica 12 ottobre 2014

Case nel cinema

Il cinema, come arte visiva e narrativa, non ha mai potuto prescindere dalle case, dai giardini, dagli ambienti indispensabili a far muovere personaggi e far vivere storie.

Più raro è che una casa, o parte di essa, diventi personaggio al pari degli altri, quando non addirittura protagonista assoluto. Non più solo indispensabile scenografia quindi, ma elemento visivo e narrativo di primo piano. Qualcuno lo ha fatto, qualcuno ci è riuscito. 

A partire dal più grande, Sir Alfred. Ne abbiamo già parlato qui, qui e qui

Ma non è finita, state connessi:-).

Case nel cinema, Alfred Hitchcock


Follow my blog with Bloglovin

martedì 7 ottobre 2014

Umanità schizofrenica?

Mi è capitato ultimamente di assistere ad un servizio televisivo sulla inesorabile scomparsa dei vecchi quartieri di Shangai, i cosiddetti shikumen, con l’avanzare dei New District e dell’aspirazione ad uno stile di vita moderno e “occidentale”.

La maggior parte di questi storici sobborghi sovraffollati con le loro casette in mattoni grigi, stipiti in pietra, porte sempre aperte sui cortiletti interni con spazi e servizi condivisi, in cui viveva solo qualche decennio fa più dell’80% della popolazione urbana, sembrano infatti destinati ad essere rasi al suolo e sostituiti dagli altissimi grattacieli espressione e testimonianza dello sviluppo economico cinese, fatto salvo quei pochi scampati alla distruzione e trasformati in quartieri di tendenza con gallerie d’arte, bar e ristoranti.
Man mano che il servizio presentava il nuovo modello del vivere urbano individualista e appartato di Shangai, riflettevo che invece la vecchia Europa riscopre (periodicamente) le Comuni del passato, pur nella moderna accezione di quartiere iper-ecologico e alternative-chic.
L’ultimo esempio è quello di Berlino, città laboratorio di tendenza, che sta progettando su iniziativa dei tre ex imprenditori trasgressivi della notte berlinese inventori e gestori del mitico Bar 25, un nuovo quartiere diverso da ogni altro, a Holzmarkt sulle rive della Sprea.
Il quartiere avrà case a più piani ma in legno e super ecologiche, da affittare per non più di tre anni. Non saranno ammesse lavatrici, tutti useranno lavanderie comuni, anche i frigoriferi avranno solo un uso collettivo. Uno spazio sul tetto delle abitazioni servirà ad allevare i pesci i cui escrementi verranno utilizzati per la concimazione di spazi verdi e le coltivazioni di verdure fai da te, gli abitanti saranno tenuti a partecipare attivamente alla vita di quartiere, compresa la manutenzione del verde pubblico.
Non entro nel merito, lascio ad altre voci più autorevoli di questo blog le considerazioni antropologiche sull’argomento, anche perché devo confessare che tutte le volte che qualcuno dice di  volersi trasferire in campagna, a contatto con la natura, coltivando la terra per il proprio sostentamento ecc. ecc. non posso fare a meno di pensare a Maria Antonietta e al suo Domaine de la ReineJ.


Follow my blog with Bloglovin