di Alessandro Borgogno
“Andiamo Watson, il gioco è cominciato!”
È una frase iconica, uno di quei colpi di genio che i grandi scrittori inanellano nei loro scritti e che rendono ancora più immortali le loro creazioni.
È la frase che Sherlock Holmes dice spesso al suo amico fidato quando si inizia la caccia al colpevole di qualche nuovo e inspiegabile delitto. Ed è in quel “è cominciato” che risiede il genio. Improvvisamente, talvolta senza che ce ne siamo ancora resi conto, ci dice che non stiamo vivendo una prefazione, un preludio, una preparazione. Ci dice che la corsa è già iniziata, siamo già in partita e probabilmente siamo già alla rincorsa, dobbiamo recuperare con l’astuzia, l’ingegno, la rapidità di pensiero e di azione per raggiungere un colpevole che già sta sfuggendo. Raggiungerlo, superarlo, fermarlo e consegnarlo alla giustizia. È una frase che in mezza riga ci precipita nel vivo di un’avventura che non ci lascerà più il fiato fino alla sua conclusione, spesso spettacolare, a volte imprevedibile e a volte grottesca, mai banale e scontata.
È la frase che Sherlock Holmes dice spesso al suo amico fidato quando si inizia la caccia al colpevole di qualche nuovo e inspiegabile delitto. Ed è in quel “è cominciato” che risiede il genio. Improvvisamente, talvolta senza che ce ne siamo ancora resi conto, ci dice che non stiamo vivendo una prefazione, un preludio, una preparazione. Ci dice che la corsa è già iniziata, siamo già in partita e probabilmente siamo già alla rincorsa, dobbiamo recuperare con l’astuzia, l’ingegno, la rapidità di pensiero e di azione per raggiungere un colpevole che già sta sfuggendo. Raggiungerlo, superarlo, fermarlo e consegnarlo alla giustizia. È una frase che in mezza riga ci precipita nel vivo di un’avventura che non ci lascerà più il fiato fino alla sua conclusione, spesso spettacolare, a volte imprevedibile e a volte grottesca, mai banale e scontata.
La frase, giustamente e inevitabilmente, non ce la risparmia neanche Luana Petrucci nella sua messa in scena, per il laboratorio teatrale ragazzi “Carpe Diem – Teatro e altre arti”, di una ennesima e inedita avventura (per gli appassionati, un “apocrifo”, e d’autore) del grande detective dilettante di Londra.
Sabato 18 e domenica 19 maggio, al teatro Grassi di Marino, abbiamo potuto seguire “Sherlock Holmes e il caso dell’ape tatuata”, un lavoro di Luana e dei suoi fenomenali ragazzi che ha riportato sul palcoscenico le gesta, i tic, le manie, le geniali intuizioni e la grande lotta al crimine del più grande investigatore della storia della letteratura.
Ne scrivo necessariamente una recensione di parte, non solo perché conosciamo Luana e i suoi ragazzi e li seguiamo ormai da anni sempre con maggiore piacere e soddisfazione, ma anche perché in questo caso la scrittrice e regista mi ha anche voluto coinvolgere fin dal concepimento del copione - approfittando della mia passione quasi patologica per l’opera di Conan Doyle - per consigli, indicazioni, suggestioni, e poi per la mia parallela passione fotografica, tanto da utilizzare proprio le mie foto (scattate a Londra al 221b di Baker Street, dove la fenomenale casa-museo di Sherlock materializza la fantasia letteraria in una realtà ormai indistinguibile dalla finzione; e alle cascate Reichenbach in Svizzera, teatro di uno dei più epici scontri della storia della letteratura poliziesca) per trovarvi atmosfere e indicazioni per la bellissima scenografia realizzata da Sara Botti e Sauro D'Annibali e illuminata e “sonorizzata” di volta in volta dall'oscuro ma preziosissimo lavoro di Franco Schettini e farle diventare scenografie esse stesse, proiettate sullo sfondo del palcoscenico a ricreare e richiamare gli ambienti nei quali si muovono i molti personaggi della storia. Un’emozione nell'emozione che ancora una volta Luana è riuscita a regalarmi.
Non sarò obiettivo quindi, ma anche a volerlo essere sarebbe impossibile non ammirare il lavoro appassionato e rispettosissimo di tutta la compagnia nel curare ogni minimo particolare della scena o del carattere dei personaggi, nel dare loro nuova linfa e caratteristiche originali senza mai tradire i prototipi, nel districarsi in una trama complessa e contorta imponendo sempre agli spettatori la giusta attenzione, e mantenendo per tutta la durata un ritmo costantemente “andante mosso”, alternando con ammirevole equilibrio le risate, il dramma, l’azione, la riflessione, il grottesco e il tragico.
Per chi come il sottoscritto conosce a memoria tutto il “canone” holmesiano e anche diverse sue “derivazioni”, ritrovare ad ogni angolo citazioni (quella in testa all'articolo è solo una delle più celebri), reinterpretazioni originali dei suoi casi più famosi o dei suoi personaggi più celebri, reinvenzioni ad incastro di alcuni fra gli elementi estratti con arguzia dalle sue storiche avventure, è stato davvero un piacere continuo.
Occorre però, e con piacere, spendere qualche parola per i formidabili ragazzi che Luana mette sul palcoscenico ogni volta di fronte a prove sempre più ardite e che ogni volta le affrontano e le superano con uno spirito e una determinazione non da semplici allievi, ma da veri attori maturi e consapevoli.
Partiamo naturalmente da Sherlock, impersonato dal giovanissimo Matteo Cippitelli che ne riproduce brillantemente tutte le manie e le nevrosi. Imperdibili le sue espressioni di noia o di insofferenza quando qualcuno dice o fa delle cose che lui considera perdite di tempo (come disperarsi per la morte del proprio marito:-)). Francesco De Fabiani nei panni del fido dottor Watson contrappunta di continuo, a volte anche solo con una presenza apparentemente silenziosa (ma sempre spettacolarmente espressiva) l’ingombrante protagonismo del detective, regalandoci scenette di coppia a volte davvero esilaranti, come la lotta furibonda con la pistola dove uno tenta di sparare, e l’altro cerca di impedirglielo, alla noiosa e saccente esperta di api (Edith Cragwell), interpretata da una bravissima e giustamente inquietante Benedetta Bulgarini, lanciata in una prolissa spiegazione scientifica in stile SuperQuark (con puntuale colonna sonora sulla quarta corda).
Imponente, ironico e minaccioso al punto giusto, Gioele Testa incarna un azzeccato professor Moriarty, il nemico giurato di Sherlock, il “Napoleone del crimine”, dotandolo di un trasformismo e di una presenza scenica che restano impresse. Con lui, complici sotto svariate mentite spoglie, una scoppiettante Flavia Lepizzera (ormai una delle presenze più costanti e significative nella compagnia) che dà vita alla presunta moglie della prima vittima (Olivia West) per poi rivelarsi astuta e pericolosa antagonista del Nostro e poi finire infine vittima essa stessa del grande criminale, in alcune delle scene più drammatiche e al tempo stesso divertenti, e una brillante e luminosa Ludovica Gosti nei panni dell’ambivalente giornalista Kitty Riley, anche lei manovrata dal malvagio Professore.
Nel via vai rutilante di personaggi che ruotano intorno alla vicenda e invadono di continuo il mitico appartamento di Baker Street, l’impeccabile Sofia Porfiri, una perfetta signora Hudson, entra ed esce, spolvera e serve il tè, e soprattutto critica, commenta e bacchetta l’ingestibile detective come forse solo a lei, fin dai racconti originali di Conan Doyle, è permesso fare. E con lei partecipano al carosello Moira Ulisse alias Mary Morstan, una convincente futura signora Watson che cerca in ogni momento di riportare i due coinquilini agli aspetti più umani e quotidiani della vita e dei rapporti fra le persone; Sofia Patrignanelli che nei panni di Betty Lamotte materializza una seconda (stavolta autentica) fidanzata della vittima che contribuisce in modo determinante a rendere ancora più ingarbugliata la matassa da svolgere; Sofia Padoan che interpreta il medico legale Molly Hopper, delicata e gentile a dispetto della sua professione, determinante nell'analizzare i dettagli dei cadaveri e animata da un rapporto di amicizia e “quasi” affetto del tutto particolare con l’intrattabile Sherlock; Sarah Simeoni che nel ruolo di Sybil, enigmatico personaggio che sa e vede molte cose ma le dice sempre in modo obliquo tanto da necessitare sempre di interpretazione, apre la storia entrando in scena cantando “Scarborough fair” e regalando subito a tutta la storia la sua atmosfera ambigua e piena di ombre; e poi i tre simpaticissimi “irregolari di Baker Street”, Wiggins, Tom e Tam, rispettivamente Lisa Bertinaria, Pietro D’Annibali e Amira Degli Esposti, sguinzagliati per le vie di Londra a cercare indizi fra la spazzatura, personaggi degni delle migliori comiche britanniche (che infatti Luana fa muovere sulle note di una delle classiche melodie usate nei vecchi film di Chaplin, mostrando ancora una volta il suo sconfinato e giustificatissimo amore per il grande Charlie, altro nome illustre del nutrito elenco di geni inglesi del cinema e della letteratura).
Una parola in più per la piccolissima Lisa, che nei panni di Wiggins prende su di se anche il compito di raccontare in appositi intermezzi i rimandi e i collegamenti principali con l’opera originale di Conan Doyle, dando vita a quegli aspetti didattici e di diffusione delle conoscenze a cui Luana non rinuncia mai in ogni suo lavoro.
Infine, una menzione quasi “d’onore” per due delle “veterane” del gruppo (e parlare di veterane per delle ragazze davvero giovanissime fa sempre un po’ sorridere) che ormai sono davvero una sola cosa con la loro autrice e regista e ne rappresentano spesso le complici più consapevoli e consolidate; Claudia Moroni, con la consueta e dominante presenza scenica, si cala nei panni del personaggio forse più originale, una Hannah Doyle (che omaggia col suo cognome il creatore di tutto questo universo), mai esistita nei romanzi ma che racchiude brillantemente in un unico carattere l’ufficialità di Scotland Yard e dei Servizi Segreti inglesi e l’ingombrante figura del fratello Mycroft (che è uno dei tanti colpi di genio di Conan Doyle), riproducendone l’invadenza, la superbia, l’intelligenza sottile, la visione ampia e diversificata della realtà, e il modo un po’ sprezzante di trattare Sherlock come fosse uno che gioca con problemi di poca importanza mentre questioni ben più cruciali urgono di essere affrontate; Gaia Piatti, che invece impersona una versione quasi onirica della mitica Irine Adler, di eleganza e ambiguità fatali, che ormai risiede stabilmente nei pensieri di Sherlock e quando si materializza in scena sembra ancora essere l’unica a riuscire a metterlo davvero in difficoltà, confondendolo inevitabilmente con un carico quasi insostenibile di fascino e di intelligenza emanati in egual misura.
Sherlock Holmes e il caso dell’ape tatuata - Carpe Diem – Teatro e altre arti |
Arricchiti e consapevoli che, appena finito un gioco, ce n’è già un altro pronto a cominciare.
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