venerdì 31 luglio 2015

Roma: giardino o cimitero abbandonato?

Vivo a Roma dal 2001. È la mia casa. Il luogo da dove osservo la linea dell’orizzonte.
Roma - Street Art, via Prenestina

È vero quello che si dice di questa città: è sporca, congestionata, inospitale, corrotta, criminale, burocrate, lobbista, provinciale, guidata da un sindaco marziano, al 52° posto nella classifica del World's Most Livable CitiesAltro che smart city.

La strada che percorro quotidianamente per andare al lavoro, negli inverni particolarmente piovosi si allaga in diversi punti, non di rado bisogna abbandonare la macchina e sperare di ritrovarla intatta al refluire delle acque. La manutenzione di mezzi pubblici, strade, aree verdi, infrastrutture tout court, sembra essere un concetto estraneo all’amministrazione capitolina. 

Il brutto, scrive Mantellini, è una specie di droga

In questi giorni di j’Accuse ho ripensato ai motivi per cui mi sono trasferita da una graziosa cittadina adagiata sul fiume Liri, incorniciata dai monti Simbruini, a due passi dal Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise e, sopratutto, se valgono sempre (che poi sono banalmente le motivazioni dei più: lavoro, affetti, opportunità sociali e culturali).

Certo fa caldo a Roma, c’è traffico e non ci sono parcheggi (rievoco un monologo di Joele Dix: “se trovo un parcheggio sotto casa piuttosto che prendere la macchina ne compro un’altra” :-)). Problema, almeno quest’ultimo, non del tutto irrisolvibile: potrei decidere di trasferirmi di nuovo in campagna, di comprare un box, di utilizzare solo i mezzi pubblici o il car sharing, alle brutte di muovermi a piedi o in bicicletta. 

Ma come si fa a non lamentarsi? Roma è bella ma non ci vivrei. Ecco. Questa frase mi sembra illuminante: mica è necessario stare tutti qui, si può benissimo decidere di andare altrove. 

Se poi si sceglie una metropoli analoga (che non sia Parigi;-)) la questione potrebbe ripresentarsi identica: come sostiene il fisico Geoffrey West  le città “sono solo una massa confusa di persone, che vanno a sbattere le une contro le altre e al massimo hanno in comune un paio di idee”.

Poi mi capita di sentire dei bravi milanesi che “spalano la neve” e penso a quanto sono stronzi invece questi romani che non fanno una benemerita mazza tutto il giorno, ma per non farlo devono per forza spostarsi in un preciso luogo dell’ozio e questo luogo dev’essere per forza un punto raggiungibile unicamente dal Grande Raccordo Anulare, motivo per cui a qualsiasi ora del giorno li trovi in fila a smadonnare. E solo perché a Roma non nevica abbastanza.

La verità è che gli stessi problemi li troviamo ovunque identici ed esatti, li portiamo con noi, sono il nostro bagaglio e risiedono essenzialmente nella generalizzata mancanza di rispetto per il bene pubblico.

Perché la qualità della (mia) vita potrebbe migliorare con pochi gesti: basterebbe non dico pettinare il muschio ma non occupare due parcheggi per riservarne uno al famigliare che arriva a casa più tardi, non costringermi a saltellare tra gli escrementi del cane lasciati a seccare sul cancelletto d’entrata, non scagliare il sacchetto dei rifiuti dal finestrino dell’auto in corsa affinché vada a schiantarsi ai piedi del cassonetto, non utilizzare balconi e pianerottoli come rimessa, trasformando in un campo profughi le aree comuni perché anche il bello, dico io, è una specie di droga.

Roma caput mundi nel malcostume diffuso dunque, ma attenzione
Nessuno si senta escluso.

P.S. La mia riconoscenza ad Annamaria Testa per avermi ispirato il titolo (e le riflessioni) di questo post a partire dai giardinieri:-). 

Roma - Street Art, Testaccio

Roma - Street Art - Alice Pasquini

Roma

Roma

Roma

Roma

Roma

Roma

Roma

Roma



Ispirazione e fonti:
Francesco De Gregori, La storia (dall’album Scacchi e Tarocchi)

Foto: scorci di Roma


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mercoledì 22 luglio 2015

Il Curriculum del lettore. I libri che non arredano


Un’amica mi raccontò un giorno degli inizi della sua carriera.

Aveva cominciato a vendere enciclopedie subito dopo la Laurea ad indirizzo umanistico, fu il suo primo vero lavoro e me ne parlò come di un periodo stimolante e proficuo. Si vendevano benissimo pare e alla mia domanda se la sua formazione l’avesse facilitata (già immaginavo dotte dissertazioni davanti a una tazza di caffè per convincere il potenziale acquirente) candidamente mi rispose: “No, è che le enciclopedie arredano”:-). 

I libri arredano è vero, esistono arredatori professionisti di librerie e prima o poi qualche indicazione su come districarsi nella scelta tra una libreria di design o una hand made finirà per sfuggirmi:-).

Nell’attesa vi racconto di un’altra amica. 

Si chiama Rita Fortunato, il suo blog è Parole Ombra ed ha avuto un’idea che mi è piaciuta molto: il “Curriculum del lettore”. 

Sul Curriculum del Lettore sapevo, senza timore di smentita, che per quanto l’idea  fosse piaciuta a me, sarebbe piaciuta moltissimo al collaboratore fisso di questo Blog, così gli ho chiesto di “compilare” il suo e tempo qualche ora mi ha mandato cinque pagine fitte fitte:-). 

Prendete allora questo lunghissimo post che non parla di librerie ma di una personalissima lista di libri, aggiungeteci qualche foto, 40 gradi all’ombra e stiamo già contravvenendo a diverse regole elementari della scrittura online ma ancora una volta, per chi vorrà seguirci, proveremo a sollevare lo sguardo oltre la linea dell’orizzonte.

Buona lettura!:-)

Il Curriculum del lettore, di Alessandro Borgogno

Non credo di ricordare il primo libro letto in vita mia. Casa per fortuna era piena di libri, e chissà qual è stato davvero il primo. Quasi certamente le prime letture sono state le enciclopedie sugli animali. Ne avevamo almeno due. Molti volumi. E spesso li aprivo e mi leggevo le voci dei vari animali, spesso sconosciuti. Di sicuro lì è iniziata la mia passione intramontata per la natura e per la zoologia in particolare.

Ricordo fra i primi i ”Racconti del terrore e del mistero” di Edgar Allan Poe. Cose che chiunque dovrebbe leggere da giovane, per poi rileggerli cento volte come è capitato a me nelle varie età che si sono susseguite fino ad oggi. Ogni volta scoprendone aspetti diversi, naturalmente. E facendo si che regolarmente si colgano le mille e mille citazioni che di quelle storie si continuano ancora oggi a fare in altri libri, in film, in fumetti, in tutto. Indimenticabili "Delitti della rue morgue”,  “Il pozzo e il pendolo”, “Il barile di Ammontillado”, “Mascherata della morte rossa” e “Caduta di casa Usher”, un prototipo della decadenza. E quasi filosofici e mai più analizzati così in profondo sentimenti umani e sociali come ne “Il cuore rivelatore”, “L’uomo della folla”, “Il demone della perversità”. Ed arrivando soltanto già grande e a chissà quale numero di lettura a scoprire “Una discesa nel Maelstrom” come un capolavoro inarrivabile.

Per qualche misterioso motivo, ancora molto giovane lessi “La Montagna incantata” di Thomas Mann. Arrivai in fondo anche a dispetto delle cinquanta pagine centrali di dialogo interamente in francese. Lette anche quelle, per il suono, intuendone vagamente il senso. Certo ci furono prima ancora i racconti (fra cui inevitabile, e magnifico, “La morte a Venezia”) ma poi arrivò “Doctor Faustus”. Quello mi illuminò davvero, e per una scoperta quasi tecnica. La pagina in cui il protagonista rivela al suo amico narratore, e soprattutto rivela a noi, che la lenta e orribile morte inflitta ad un suo piccolo adorabile nipotino è in realtà il prezzo che sta pagando per il suo patto col diavolo, mi impietrì, mi fece rabbrividire, e quel giorno fermai lì la lettura perché non si poteva andare oltre. Ma la scoperta vera fu tempo dopo, quando ricordandola andai a cercarla e a rileggermela. Proprio quella pagina lì. E la scoprii normale. Scritta esattamente come le altre centinaia di cui era composto il romanzo. Capì allora che la forza di quelle righe non era nel modo particolare in cui erano state scritte, ma era tutto nel come ci si arrivava, a metà romanzo, dopo almeno duecento pagine di racconto. Lì decisi definitivamente che Mann era uno scrittore immenso.

Questo effetto poi lo trovai e lo riconobbi molte altre volte in tanti altri libri. Fra i fondamentali sicuramente ci fu “It”, di Stephen King. Fu il primo libro di King che lessi (tanto per cominciare leggeri). La prima pagina mi fece storcere il naso, a metà della seconda pagina King mi imprigionò per le successive milletrecento e non mi ha ancora mollato. E’ insuperabile, e molti anni dopo “Dolores Claiborne” mi dimostrò definitivamente che ci sono scrittori che possono anche non piacere per via dei temi trattati o per mille altri motivi, ma è impossibile, a meno che non si sia in malafede, negarne la grandezza.  Una volta in una pagina culturale di un giornale trovai scritta a proposito di “It” la seguente frase: “piaccia o non piaccia, un capitolo fondamentale della letteratura americana del ventesimo secolo”. Ecco, è quello che penso.

E poi ci fu “Il nome della rosa” di Umberto Eco, letto su consiglio della mia straordinaria professoressa di storia dell’arte del liceo, appena uscito e da molti comprato senza leggerlo. Non solo lo lessi, ma ne rimasi incantato, e due anni dopo lo portai con la massima sfacciataggine come argomento di letteratura italiana all’esame di maturità. In quel romanzo trovai la conferma che raccontando una storia si può parlare di qualunque argomento ci stia a cuore, dalla storia, alla storia dell’arte, alla teologia, alla psicologia, al mistero. E poi è un romanzo che parla di libri, e questo dice tutto. La scelta temeraria fu premiata: la commissione d’esame, dopo aver ascoltato per settimane ripetere Pascoli, Foscolo e Leopardi in tutte le combinazioni possibili, quando si sentì dire “Umberto Eco, il nome della Rosa” (un romanzo uscito pochissimi anni prima e ancora neanche consacrato come classico) si sciolse in un sorriso liberatorio. Fu un successo.





Poi c’è stato Hemingway, perché non si può fare a meno di Hemingway. I 49 racconti anzitutto, e fra tutti quelli che raccontano di pesca alle trote in mezzo al fiume. E poi “Il vecchio e il mare”, il romanzo più semplice e più puramente completo che abbia mai letto. Sottrazione sistematica di qualunque orpello per il raggiungimento di vette sublimi. Credo sia stato scritto con un numero di vocaboli inferiore a quelli di un libro delle elementari. Al di là dello stile, che non è e non credo sarà mai il mio, di sicuro una lezione irrinunciabile su cosa significa saper scrivere.

A un certo punto ci fu un libro decisamente minore, ma che come spesso accade credo abbia inciso più di tanti classici. Si intitola “L’anello di acque lucenti”, di Gavin Maxwell, uno scrittore inglese che non ha scritto molto altro. Racconta, in modo anche poco strutturato e del tutto personale, la storia di se stesso e delle sue lontre, uno stranissimo rapporto fra uomo e animale, sulle impalpabili e severe coste scozzesi. La mia passione per gli animali, già ampiamente coltivata e coccolata, con quel libro venne fissata come su una lastra fotografica, e non sarebbe mai più andata via. Quando ancora oggi dico che il mio animale preferito è la lontra mi guardano tutti strano. Li capisco, ma è la verità, e la ragione è quel libro.

Poi tornò Umberto Eco, col suo secondo romanzo. Tosto, faticoso, contorto. Ma uno di quelli che amo di più in assoluto. “Il pendolo di Foucault”. Alla fin fine fu quel libro a farmi innamorare di Parigi, e a farmi acquisire uno sguardo critico e scettico su qualunque ipotesi di complotto misterioso e di sensazionali scoperte dietrologiche che regolarmente fioccano ancora oggi ad ogni stormir di fronda. Fu grazie al Pendolo che i deliri storico-artistici di Dan Brown mi fecero sorridere quando in tanti li prendevano sul serio. Ed ancora oggi è grazie a quel romanzo che non ha paragoni che regolarmente mi emoziono sempre un po’ più del normale quando vedo il pendolo che oscilla dal tetto del Pantheon di Parigi o dalla volta della chiesa di Saint-Martin des Champs.

Tornarono i classici. Ma ci sarà un motivo se si chiamano così. “Notre-Dame de Paris” di Victor Hugo fu devastante. Difficile pensare a qualcosa di più “romanzo” di quella tragedia splendente e cupa allo stesso tempo. E difficile trovare su qualunque guida anche brillantissima una descrizione di Parigi più bella e più indelebile di quella che Hugo ci offre nel capitolo “Parigi a volo d’uccello”.

Ma farei un torto a dimenticare i fumetti, che considero letteratura di eguale dignità di qualunque altra. Irrinunciabile tutta la serie degli albi di Asterix, di Goscinny e Uderzo, e non credo di esagerare se dico che una buona parte della mia generazione deve anche a quelli molte cognizioni storiche sull’epoca dell’impero romano che gli studi scolastici non sono riusciti a imprimere così bene (guai a sottovalutarli, i riferimenti storici degli albi di Asterix, pur se sempre trasfigurati nella satira e nel grottesco, sono rigorosissimi). E poi naturalmente Charlie Brown e i Peanuts di Schulze, B.C. di Hart e il Mago di Id sempre di Hart insieme a Parker, Blondie e Dagoberto di Young e il Gruppo T.N.T. (cioè Alan Ford) di Magnus e Bunker.

E una cosa che è a metà fra il fumetto e il romanzo. Un magnifico volume di "Tarzan delle scimmie", con i testi originali di  Edgar Rice Burroughs e le splendide tavole disegnate e colorate da Burne Hogarth. Forse una delle prime vere graphic novels, con testi molto lunghi che da soli rappresentavano racconti interi, e disegni e dipinti magnifici, opere d’arte senza mezzi termini, che descrivevano e al tempo stesso evocavano il massimo dell’avventura e dell’esotico. 

Scoprii tardi Stevenson, e lo scoprii come uno dei più grandi. Tardi perché erroneamente considerato uno scrittore per ragazzi e invece lo lessi già più adulto. E sebbene “L’isola del tesoro” possa essere considerato letteratura di tale categoria, la grandezza di quel romanzo si rivelò superiore a qualunque genere. E poi, se mi fosse rimasto qualche dubbio sulla grandezza di Stevenson scrittore, ci pensò “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde” a togliermelo. Quando si riesce a scrivere almeno due capolavori (e ne scrisse anche altri) di genere e natura così totalmente diverse fra loro deve esserci qualcosa di fondamentale in quello scrittore che viene prima del soggetto, della storia, perfino del modo di raccontare.

Arrivò, irrinunciabile e tagliente come un rasoio, Orwell. “La fattoria degli animali” e poi “1984”, letto proprio nel 1984. Un pugno allo stomaco. La frase “Voi siete i morti” che esce dal quadro alla fine della prima parte del libro (chi lo ha letto sa di cosa parlo) non la dimentichi più per il resto della vita.

L’anello di Re Salomone” (di nuovo un anello…) di Konrad Lorenz mi consacrò definitivamente all’amore per gli animali e per lo studio dei loro comportamenti. E la Trilogia Galattica di Asimov mi consegnò alla fantascienza più rigorosa e al senso della narrazione teatrale in cui Isaac eccelleva, pur essendo uno scienziato. 

Potrei non finirla più ma provo a continuare. “Cuore di Tenebra” di Conrad mischiò di nuovo le carte in tavola, semmai erano state in ordine. Mi folgorò la capacità di raccontare gli avvenimenti della storia parlandone prima che accadessero e dopo che erano accaduti senza raccontarli mai al presente. Una lettura in sospensione continua dove capivo ciò che mi stava raccontando sempre in un momento diverso da quello in cui accadeva. Un virtuosismo che ancora non credo di aver compreso del tutto, e che non cessa di affascinarmi.

E poi doveva arrivare l’immenso, e l’immenso non poteva che avere la forma e le movenze di una balena bianca. Moby Dick di Hermann Melville è per me uno spartiacque (mai metafora fu così adatta). E lo è stato anche più di una volta. La prima volta lo lessi da ragazzo, in una versione ridotta per essere leggibile dagli adolescenti, insieme ad altri due splendidi romanzi di Jack London, Zanna Bianca e il Richiamo della foresta. Mi impressionò e mi catturò in molte parti, probabilmente senza ancora capirne la gigantesca metafora e anche la profonda blasfemia (come disse John Huston, “tutta la storia è una immensa bestemmia”). Mi rimase impressa in mente (ancora oggi) una scena in cui tutti affacciati dal ponte guardano nell’acqua profondissima e limpidissima dell’oceano e ad un certo punto vedono la balena come un puntino bianco (alcune traduzioni dicono “come un piccolo ermellino”, altre “come una moneta bianca”) in fondo in fondo all’oceano. Una sola immagine che rende la profondità assurda di quel mare e la sua limpidezza quasi irreale. E poi la vedono ingrandirsi velocemente perché sta puntando in verticale verso la chiglia della loro nave. Una immagine che ti inchioda, pietrificato, in attesa di qualcosa di spaventoso da cui non puoi più scappare. Lo rilessi da grande almeno un altro paio di volte, nella versione integrale, interminabile e per molti lettori ancora oggi ostica. E ogni volta è regolarmente stata una rivelazione. Vi ho sempre trovato l’urgenza di uno scrittore che doveva a tutti i costi raccontare quella storia, e per farlo non si preoccupava di mescolare i generi, addirittura separandoli come stesse scrivendo libri diversi. A un certo punto parte con un lungo trattato sui cetacei che starebbe tranquillamente al suo posto in un libro scientifico. Eppure lo mette lì, in un romanzo di avventura (o che fa finta di essere tale). E poi dopo ti riprecipita nell’abisso togliendoti il respiro, e poi ti inchioda nel sole senza un filo di vento che possa far muovere la nave per giorni e giorni, in attesa. Mai come in quel romanzo il senso dell’attesa, se possibile ancor più che in Conrad, è protagonista assoluto. Se esiste un santuario della suspense, quello è "Moby Dick". Pagine e pagine ad attendere le apparizioni (perché di questo si tratta, di apparizioni) dello spaventoso cetaceo, per vivere poi pochi istanti di furia smisurata e poi ripiombare nell’attesa. Implacabile, inarrestabile, è in quel modo che ti trascina dentro e non ti fa più dubitare di essere in balìa di un destino a cui non si può sfuggire. E poi naturalmente lui. Come si fa a concepire qualcosa di più, in ogni senso di più, di un personaggio come il Capitano Achab? Posseduto dal demonio, vittima e carnefice dell’intera umanità rappresentata in tutte le sue forme sul ponte del Pequod, trascinatore implacabile e distruttivo. Alla fine convince tutti a seguirlo nel suo disastroso destino. Tutti. Anche te.

E poi arrivò Gabriel Garcia Marquez, di cui lessi molte cose prima di leggere il suo libro più famoso, quasi volessi attendere sempre il momento giusto. “L’amore ai tempi del colera” forse è stato il primo, e mi chiesi come fosse possibile scrivere così, arricchendo ogni virgola, e perdendosi in mille storie e paesaggi senza perdersi mai. Poi “Nessuno scrive al colonello” e poi “Cronaca di una morte annunciata”, forse non il primo ma di sicuro uno dei più efficaci racconti a “moltiplicazione dei punti di vista”, e poi altri racconti e via via, fino a che mi decisi, non molti anni fa, ad affrontare “Cent’anni di solitudine”. Finito il libro pensai “ma dopo aver letto questo come si fa a leggere altro? E come si fa a pensare di poter scrivere qualcosa di meglio?”. E dopo averlo pensato scoprii che invece aveva avuto l’effetto esattamente contrario, e fu la scintilla che mi fece rinascere definitivamente la voglia di scrivere.

Fino ad ora ho fatto finta di niente e ancora non ho nominato Simenon. Mi sembra quasi stupido nominarlo. Non ricordo neanche quando l’ho scoperto, forse con i libri di Maigret dati in regalo da l’Unità iniziati a leggere col ricordo e anche con la visione in replica di diverse puntate della splendida versione televisiva con Gino Cervi, ma da allora è diventato una presenza costante. Ogni tanto nella serie di letture entra per forza un Simenon. Con quella asciuttezza incomprensibilmente precisa che sembra sempre non dirti niente e alla fine capisci che ti ha fatto entrare nelle stanze e nei luoghi come se ci fossi sempre stato. La consuetudine con Maigret mi ha portato negli inevitabili pellegrinaggi parigini al numero 36 del Quai des Orfevres ed altri luoghi tante volte raccontati dei romanzi, ma la lettura di altri Simenon “non-maigret” mi ha aperto un altro mondo parallelo ormai irrinunciabile. Sono troppi e sono tutti straordinari, impossibile farne una selezione. Se devo citarne pochi allora ne cito uno solo: “L’uomo che guardava passare i treni”. Un brivido.

In ordine sparso, anche temporalmente, hanno lasciato il segno “Civiltà sepolte” di Ceram, “La collina dei conigli” di Adams, molto Stefano Benni fra cui sopra tutti “Baol” e “La compagnia dei celestini”, il primo Pennac, qualche Fruttero e Lucentini, parecchio Lovercraft e alcuni meravigliosi racconti di Ray Bradbury.

E poi lascia un segno indelebile il “Don Chisciotte” di Cervantes, anche per la scoperta di quanto potesse essere comico e divertente un libro del cinquecento, e per la serie infinita di prototipi che incide per sempre costringendo chiunque dopo di lui a farci i conti, e “Il signore delle Mosche” di Golding, piccolo sconvolgente capolavoro sulla ferocia della natura umana.

Dal Sudamerica (ancora complici libri regalati da L’Unità, edizioni fuori catalogo di Editori Riuniti) una scoperta inaspettata: Ignacio Quiroga, e i suoi straordinari racconti nella raccolta “Anaconda”. Uno di quelli che ti rimescola di nuovo le carte.

Per la natura e la montagna, invece, nulla ha mai più potuto eguagliare i libri di Walter Bonatti, “Le mie montagne” primo fra tutti. E poi i suoi racconti dei viaggi in solitaria ai quattro angoli del mondo. Credo siano quelli che ancora mi portano a viaggiare e stare così spesso con la mente (e quando è possibile anche col corpo) protesa verso posti da visitare e da fotografare.

Furore di Steinbeck, letto appositamente durante un viaggio in USA e per alcuni capitoli proprio percorrendo la route 66, ha colmato di recente una mia mancanza riguardo agli “on the road” americani. Potente, duro e asciutto. I primi capitoli che descrivono la grande siccità e l’invasione della polvere rimangono impressi più di qualunque film o documentario.

Ma da un certo punto in poi, così come Simenon, è arrivato Sir Arthur Conan Doyle e non ha più lasciato la posizione. Tutti i romanzi e racconti del “canone” di Sherlock Holmes, letti e riletti molte volte. Difficile trovare qualcosa di più geniale. In alcuni in particolare poi ci sono anche trasgressioni delle “regole” quasi eretiche, racconti che si aprono all’interno dei racconti e che hanno una forza avventurosa ed evocativa difficilmente eguagliabile. Immagini e storie che non si dimenticano. E al di fuori di Sherlock, un romanzo unico nel suo genere, “Il mondo perduto”, dove ancora nell’ottocento Sir Arthur immaginava avventure straordinarie di cui sono ancora oggi debitori tutti i Jurassic Park del nuovo millennio.

Come nel caso di Maigret, la passione scatenata dai suoi racconti di Sherlock Holmes mi avrebbe poi portato a visitare la Casa-Museo di Baker Street a Londra come fosse un luogo vero (follia che credo di condividere con una buona parte del mondo, e di sicuro con Corrado Augias).  Ho idea che quando la letteratura materializza una fantasia e la fa diventare un luogo e un personaggio praticamente storico abbia davvero vinto. Ecco, direi che in Baker Street è sostanzialmente possibile toccare con mano come la letteratura, quando è grande, può sconfiggere la realtà, e sostituirsi realmente ad essa.  Un risultato non da poco.

Ho sempre avuto una certa difficoltà con la poesia. Salvo “Antologia di Spoon River” di E. L. Masters, scoperto ovviamente grazie a De André e poi più volte letto, spesso anche per cogliere i segreti del lavoro del cantautore su quelle poesie. Però devo aver sempre avuto qualche difficoltà con la lettura non seriale. Prendere un libro di poesie, leggerne qualcuna, riposarlo, riprenderlo chissà quando. Non so. L’ultimo anno di liceo mi innamorai delle poesie di Pascoli, le analizzai e le smontai come non feci mai più con nessun altro scritto,  e credo di considerarlo ancora oggi uno dei più grandi. In compenso molto di recente ho riscoperto (scoprendo in fondo di non averlo mai tradito) Leopardi. Complice anche una visita a Recanati che ancora mi mancava e che ha colmato quella che ho percepito essere una lacuna anche “fisica” importante, ora per Leopardi mi riesce ciò che mai mi era riuscito con altri: prendere il libro, leggere una lirica, posarlo. E anche leggerle tutte di seguito, come fossero un romanzo. 

Certo, mancherebbe ancora un’altra mia grande passione, cioè il cinema. Perché anche per questa passione sono stati fondamentali diversi libri. Ma ne citerò solo uno, che in ogni caso secondo me ancora oggi rimane il più bel libro di cinema che sia mai stato scritto: “Il cinema secondo Hitchcock” di François Truffaut.


Penso di fermarmi qui, prima che comincino a venirmi in mente tutti quelli che al momento non ho ricordato.


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giovedì 16 luglio 2015

La larva, la pupa e l’immagine

Se dovessi dire quali sono gli insetti più noti ed amati non avrei alcun dubbio: le farfalle

Non è un caso, e non è dovuto unicamente alla loro colorata e vistosa bellezza. 

La loro straordinaria diversificazione evolutiva e la ricchezza di specie (circa 165.000, superata nel regno animale solo dai Coleotteri), la doppia e tripla vita, le comunicazioni chimiche e ultrasoniche, la fondamentale funzione di impollinatrici che rivaleggia con quella delle api e le loro mille e più specializzazioni ne fanno un microcosmo multiforme e affascinante (ce ne sono persino alcune che si nutrono di lacrime, altre di sangue:-)).

Stranamente questa grande varietà non pare rintracciabile nella lingua: è rarissimo che una cultura usi più termini per designare farfalle di specie diverse, a suggerirne il nome non è la ricchezza di forme e colori ma il volo, silenzioso e battente, riprodotto linguisticamente da un duplice movimento: una sillaba e una doppia sillaba ripetuta.

Da sempre l’interesse dell’uomo per il mondo delle farfalle sembra infatti concentrarsi su una attività: il volo (che dire dell’effetto farfalla?), e su un processo: la metamorfosi. Sul terreno dell’immaginario il celebre bruco che diventa farfalla ha una forza evocatrice quasi magica e contribuisce a promuovere questi organismi da oggetti della natura a soggetti della cultura

A proposito: la larva, la pupa e l’immagine del titolo sono i tre stadi (oltre all’uovo) della metamorfosi completa.

Così ad esempio l'artista Julie Alice Chappell nel tentativo di trasmettere una maggiore consapevolezza dei rifiuti ambientali (I bit riciclati che si intrecciano nel mio lavoro rappresentano un incontro diretto con gli eccessi della vita moderna e mettono in evidenza i pericoli di obsolescenza programmata e di e-rifiuti nell'ambiente) crea sbalorditive sculture in miniatura di farfalle utilizzando pezzi di elettronica di scarto, schede e circuiti, regalando loro una “seconda occasione”.

È una poetica seconda occasione anche quella che l’artista olandese Anne Ten Donkelaar offre alle farfalle che raccoglie durante le sue passeggiate (Una farfalla danneggiata, un ramoscello rotto, un calabrone, strane erbacce…) e riporta simbolicamente in vita aiutandosi con i materiali più svariati, inclusi oro, mappe geografiche, rocchetti di cotone, radici, parti meccaniche e stoffe ricamate.

La serie è Broken Butterflies e l’idea che la ispira è un libro per l’infanzia, The Butterfly Workshop, dove il giovane protagonista Arno sogna segretamente di poter un giorno ottenere un ibrido che possa tessere insieme la bellezza di un fiore e la capacità di volare degli uccelli.

Il biologo di casa mi fa poi notare che una delle farfalle di Anne Ten Donkelaar somiglia molto ad una sottospecie che ha una di quelle particolari storie di intrecci e contaminazioni che a noi piacciono. Scoperta nell’appennino tosco-emiliano nel 1992 dall’entomologo Giovanni Sala che, grande estimatore del cantautore e scrittore Francesco Guccini, volle dedicargliela dandogli nome Parnassius mnemosyne guccinii. Omaggio ricambiato un anno dopo dallo stesso cantautore modenese che intitolò il suo album del 1993 proprio con il nome della farfalla e dedicandole tutta la copertina (per di più su un bellissimo fondo blu:-)).
Julie Alice Chappell

Julie Alice Chappell

Julie Alice Chappell

Julie Alice Chappell

Julie Alice Chappell

Julie Alice Chappell

Anne Ten Donkelaar

Anne Ten Donkelaar

Anne Ten Donkelaar

Parnassius, Guccini





Fonti:

Il mondo delle farfalle. 

Valerio Sbordoni, Saverio Forestiero 

(Arnoldo Modadori Editore)





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domenica 12 luglio 2015

Buon compleanno Kasa Imperfetta!

A mia sorella

Il 12 luglio di un anno fa nasceva questo Blog ma mentirei se dovessi dire che sapevo esattamente quello che stavo facendo. 

L’idea mi girava in testa da tempo, poi bum! Un’accelerazione come se non ci fosse un domani: nel giro di un paio di settimane erano definiti lo storyboard, il modello, il nome, il concept, la cover, il piano editoriale, i principali contenuti, i profili social. Per cominciare.  A tutto il resto, mi sono detta, avrei pensato strada facendo. 

La Kasa Imperfetta (imperfetta già dal nome) è un luogo di condivisione e ispirazione. Ospita case (e giardini) che hanno una storia da raccontare.

Per me l’intento era chiaro: provare a raccontare i luoghi (in antitesi ai non luoghi di Marc Augé) e la loro imperfezione, partendo dalle nostre case e allargando lo sguardo alle storie oltre la siepe.

Al di là della siepe il paesaggio è metropolitano, bisogna aguzzare lo sguardo e attraversare i muri di cemento per osservare la linea dell’orizzonte e provare a immaginare un futuro.

Che l’intenzione fosse così chiara anche a quelli che si fossero imbattuti nel blog (o lo facciano tutt’ora) avrei qualche dubbio: il navigante interessato all’“Home ad Garden Inspirations” si potrebbe giustamente chiedere cosa c’entrano i droni, Monet o l’Arazzo di Bayeux

Viene anche da chiedersi cosa qualifica me, persona qualunque, ad aprire un blog dove si parla di case e di design ma non di arredamento, di giardini ma non di giardinaggio.

L’esperienza nella scrittura tecnica, nell’informatica gestionale, nel marketing aziendale, nella ristrutturazione della mia casa? Fossi stata un agente immobiliare avrei almeno potuto scriverne un libro.

Sull’utilità poi, diciamo la verità, non è che proprio si sentisse la mancanza di un nuovo blog. :-)

E la condivisione? Una che fino a un minuto prima storceva il naso se qualcuno guardava lo smartphone per un tempo maggiore dei pochi minuti che riteneva accettabili, scopre improvvisamente questa parolina magica e allora si, va bene, lei può, cita Mantellini, ammorba con tizio e caio che ha “scoperto” su Pinterest, usa feedly, costruisce la presenza sui social, conta i follower, le condivisioni, i like, gli amici. Chiede giudizi “costruttivi” su quello che scrive, sorride beata se qualcuno dice “la blogger che fa, è dei nostri?” Appunta continuamente ovunque e su qualunque supporto, cartaceo o digitale, spunti per il prossimo post, cura la personal identity, passa ore a fare uno shooting per fotografare la tazzina del caffè. :-)

E dunque?  

Dunque questo è precisamente quello che è successo in questi pochi mesi: ho studiato molto ma soprattutto è vero che ho condiviso.  Idee, pensieri, progetti, esperienze. Sono entrata a far parte di una “famiglia” speciale, ho visto come scrivono e fanno blogging quelli bravi, quelli che lo fanno da anni, ho compilato grazie a loro l’ennesima lista delle mille piccole cose da migliorare in questo blog. 

Ne cito alcuni tra gli approfondimenti, sono punti di riferimento, maestri, muse, li cito senza alcuna pretesa di esaustività e a tutti loro sono riconoscente in questo giorno, perché mi hanno insegnato davvero a guardare oltre la linea dell’orizzonte. 

E allora? 

Allora eccomi qua. Sono Anna, capita che abbia qualcosa da dire di questo mondo imperfetto e provo a condividerlo. Aiuta me sicuramente, un pochino spero anche voi. 

P.S. Dimenticavo: è complicatissimo fotografarmi perché mi muovo continuamente e faccio molte smorfie.
Anna Pompilio

Anna Pompilio

Anna Pompilio

Anna Pompilio



P.P.S. Una menzione speciale va ad Alessandro, che cura molti degli approfondimenti e la maggior parte delle foto ma sopratutto, ha moltissima pazienza :-)

Per approfondimenti:

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mercoledì 8 luglio 2015

A Kasa di… Mirna: ritratto di Signora (a colori)

La vita reale e le sue propaggini in rete si mescolano ormai in continuazione: guardiamo il mondo con l’occhio di Facebook, oppure visitiamo Capri in un vorticoso incrociarsi di pagine web. 
In entrambi i casi la prima preoccupazione che ci assale è la sensazione fastidiosa di una perdita. 
Come se ci stessimo allontanando da un corretto rapporto per due volte: quando la percepiamo in funzione della sua riproducibilità digitale, e quando ci accontentiamo del riassunto digitale che Internet offre rinunciando al viaggio fisico. Eppure, ancora una volta, la soluzione dell’enigma è la compensazione fra questi due differenti rischi, un equilibrio tra digitale e analogico che sarà domani la cifra della nostra esperienza relazionale. Due parti di un tutto che è la nostra nuova normalità. 

Massimo Mantellini, La vista da qui



Sei il gestore di un albergo a Salsomaggiore e pensavi di aver bisogno unicamente di una consulenza fiscale.

Capita invece che il tuo hotel, ormai non più al passo con i tempi, venga totalmente rivoluzionato: frasi sulle pareti, nuovi colori, nuovi tessuti, nuove modalità organizzative e di gestione.... L’avresti mai detto che nel momento in cui il tuo commercialista avesse varcato quella soglia, niente sarebbe più stato come prima?



Certo Mirna Pioli non è un qualunque professionista iscritto ad un albo. 



L’ho incrociata, Mirna, nella mia nuova normalità: ha “adottato” nella community “#adotta1blogger” un mio post in cui si accennava a Tricia Guild, fondatrice e direttore creativo dell’etichetta Designers Guild e mi ha raccontato della sua adorazione per lo stile bohemien-chic del marchio.

Nella sua biografia si definisce una commercialista appassionata

La passione nasce perché io amo il Bello in generale…” 

L’amore per l’arredo e il decor invece è sbocciato quando ha compiuto 40 anni e si è regalata una “casina” in Sardegna. È andata a cercarla con la sua amica Maria Pescatore, un architetto che l’ha spinta a superare le sue paure e le ha insegnato che se pure fai una scelta che non ti piace la prochaine fois metti a posto. Con quella frase e la determinazione che la contraddistingue Mirna è partita e non si è più fermata ma, aggiunge, “mai lo sport! Sono pigra, vado solo di testa…”.

Dell’architetto d’interni e designer Tricia Guild,famosa nel mondo per la maestria nell'accostare nuance sgargianti, ama ” i colori negli abbinamenti rosa acceso e lilla, nella sfumature del turchese e verde acido… e poi mi piace mescolare gli stili, amalgamare tinta unita e stampati floreali, le tende però mai uguali…

E voi, potete dire altrettanto del vostro commercialista? :-)











Per approfondimenti:
Foto: 
Mirna Pioli e © Designers Guild

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giovedì 2 luglio 2015

Scienziati pazzi, lotta biologica, sistemi di puntamento, droni: per nutrire il pianeta bisogna essere precisi

Il padiglione francese di Expo 2015, un mercato coperto di oltre 3.500 mq realizzato in legno del dipartimento del Jura smontabile e riutilizzabile, a cui si accede attraverso un percorso-giardino che riproduce i paesaggi agricoli delle regioni d’oltralpe, è uno di quelli che rischia seriamente di rimanere in tema.

La Francia arriva all’esposizione universale con un modello alimentare sicuro e sostenibile e prova a spiegare (qui i quattro pilastri della sua visione) come scienza e tecnologia possano contribuire a rendere il mondo autosufficiente dal punto di vista nutrizionale introducendo, tra le altre cose, il concetto di “agricoltura di precisione”.


Prendo nota e decido di approfondire: cos’è e come funziona la faccenda della precisione?

Cominciamo dalla definizione di Wikipedia: l'agricoltura di precisione è una strategia gestionale che si avvale di moderne strumentazioni ed è mirata all'esecuzione di interventi agronomici tenendo conto delle effettive esigenze colturali e delle caratteristiche biochimiche e fisiche del suolo.

In pratica: un vigneto o un campo di mais, soprattutto se sono molto estesi, non sono da considerarsi un'unica entità ma la somma di tanti piccoli appezzamenti coltivati con la stessa piantagione. In uno stesso terreno possono quindi trovarsi condizioni di suolo, di esposizione solare, di topografia anche molto differenti tra loro.


L’agricoltura di precisione monitora queste condizioni e interviene sulle reali necessità delle piante, mirando alla massimizzazione della resa agricola e alla maggiore sostenibilità delle coltivazioni.


Ma come appurare le reali necessità delle piante?

Qui entra in gioco la tecnologia: osservazione del terreno con sistemi ottici, stazioni meteorologiche, pistole che controllano la temperatura, sensori ad infrarossi, strumenti di telerilevamento. I dati così raccolti (ed elaborati con tecniche geostatistiche) vengono resi fruibili attraverso piattaforme applicative anche mobile e permettono di intervenire su suolo o piante in un modo che potremmo definire chirurgico.

Sono diverse le tecnologie impiegate nell’agricoltura di precisione, molte emergenti, ma quella che indiscutibilmente accende la mia fantasia è l’APR (Aeromobile a Pilotaggio Remoto) da qualcuno ribattezzato drone-contadino.  

Dicasi drone

Il giornalista e sociologo Malcom Gladwell (in questa spettacolare Ted Conference)  ha definito il drone il nipote del mirino da bombardamento Norden Mark 15 (per inciso: Carl Norden costruisce questo aggeggio complicatissimo utilizzato dalla United States Army Air Forces nel corso della seconda guerra mondiale e successivamente nelle guerre in Vietnam e Corea.  "Prima che questo mirino fosse in uso, le bombe mancavano di continuo il bersaglio di un miglio e anche più". Ma, egli disse, con il mirino Norden Mark 15, una bomba avrebbe centrato un grosso barile da quasi 7.000 m. In realtà il Norden non riuscì a raggiungere un grado di precisione nemmeno lontanamente simile a quanto i suoi creatori si aspettavano e, benché largamente impiegato, ottenne risultati ben miseri). 

Ora. Infinite scoperte derivano della ricerca in campo militare: bustine per il tè, fazzolettini per il naso, l’ autofocus di macchine fotografiche e telefonini, il wireless. Anche i droni arrivano da lì, tuttavia gli impieghi ”civili” possono essere i più disparati e virtuosi.

Possono essere impiegati per la salvaguardia e la lotta ai crimini contro la natura, per osservare nel loro habitat specie in estinzione, per analizzare la diffusione delle piantagioni del famigerato olio di palma, per volare all'interno di edifici crollati, per stimare l'entità dei danni causati da disastri naturali, per entrare in edifici esposti a radiazioni  o semplicemente per trasportare materiale.

Nell’ agricoltura di precisione le potenzialità di questi strumenti sono molteplici, grazie alla grande quantità di dispositivi di controllo che possono essere caricati a bordo, come GPS, videocamere che permettono di catturare dettagli ad alta risoluzione di oggetti al suolo, magnetometri, sensori multispettrali che restituiscono in tempo reale la topografia dei luoghi, la composizione biochimica e fisica dei terreni, gli indici di vigore vegetativo, lo stress idrico delle piantumazioni.

I droni possono essere programmati per eseguire voli e rilievi in completa autonomia, senza il supporto di un pilota a terra, possono essere utilizzati per controllare il raccolto, rilevare problemi di irrigazione, per la lotta biologica ai parassiti, ad esempio per spargere sui campi di mais delle piccole capsule di cellulosa contenenti le uova di Trichogramma Brassicae, antagonista della piralide del mais, ecc. 

L’economicità è un altro fattore abilitante: per programmare un drone basta, in alcuni casi, Google Maps e uno sviluppatore bravo…

Insomma scienza e tecnologia al servizio dell’agricoltura per produrre meglio e nutrire il pianeta: il futuro dell’agricoltura è nei droni?

Personalmente mi auguro di si. Auspico che questi oggetti volanti non ben identificati possano cambiare le regole del gioco e mi emoziona l’idea che appassionati di informatica, ingegneri, scienziati, esperti di ambiente, biologi, ricercatori, designer, ma anche viticoltori o analisti funzionaliJ possano lottare insieme per questo pianeta, per progettare dei robot per la sua salvaguardia e per garantirne un futuro sostenibile, non solo, o non necessariamente, nel campo della nutrizione.  

Expo 2015 si è lasciato sfuggire più di un’ occasione e una di queste è, ancora una volta, una questione di prospettiva: poteva farmi stare con il naso all’insù invece di costringermi a guardare a terra.

Enjoy the fly! J









Fonti:

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