mercoledì 27 aprile 2016

La Grande Rassegnazione

Curioso come a questo mondo vi sia poca gente che si rassegni a perdite piccole; sono le grandi che inducono immediatamente alla grande rassegnazione.
(Italo Svevo, La coscienza di Zeno).

Porto con me questa frase da tempo immemore. È, credo, uno dei punti fermi del mio pensiero. 

Ho trovato nelle parole di Svevo il “senso” di accadimenti dolorosi e ironicamente ricorrenti: mio padre, morto quando avevo 13 anni, il fratello di mia madre 10 anni dopo, mio nonno allo scadere dei 10 successivi. Ma non è stato tanto il lutto che ho avuto bisogno di “elaborare” quanto la vita di chi è rimasto, di chi ha continuato a vivere

Quello di cui non riesco tutt'ora a capacitarmi è che per farlo sia necessario allenare la memoria a dimenticare.

Paulette

[…] Aboliamo la festa del 25 aprile. In questi giorni verrebbe da fare la modesta proposta di eliminare questo giorno di festa dal calendario o in alternativa di sostituirne la denominazione: chiamiamola festa di primavera o qualcosa del genere. Sanciamo una condizione di fatto, l’assoluta indifferenza della gran parte delle istituzioni, dei mezzi d’informazione, dell’opinione pubblica per la ricorrenza della liberazione dell’Italia dal fascismo. […] (Christian Raimo, Buona festa della Liberazione)

Nell'estate del 2013, tornai da un viaggio nei luoghi dello sbarco in Normandia. 
Nelle settimane successive non riuscivo in alcun modo a staccarmi da quegli eventi sanguinosi. Per giorni mi sono immersa nelle letture, nei film, nelle testimonianze, nei luoghi: il cimitero americano di Nettuno, quello inglese di Anzio… Contavo i morti come chi sgrana il rosario, ripetevo i nomi, misuravo le forze in campo, le manovre, i protagonisti, frullavo tutto in un’unica palla di pelo sempre più complicata da rigurgitare. 

Poi decisi di raccontare una storia così da affidare almeno un nome alla mia memoria. Funzionò. Smisi di pensarci.

Verdun

Verdun fu il luogo di una delle più sanguinose battaglie di tutto il fronte occidentale della prima guerra mondiale in cui, tra febbraio 1916 e dicembre dello stesso anno, persero la vita 360.000 francesi e 335.000 tedeschi, oltre 400.000 i feriti, in un inferno tale che non ebbe paragoni, si dice, con nessun'altra battaglia nella storia. 

La guerra sulle rive del Mosa cancellò oltre alle centinaia di migliaia di vite anche nove comuni francesi: Beaumont, Bezonvaux, Cumières, Douaumont, Fleury, Haumont, Louvemont, Ornes e Vaux.

[…] Su quei terreni martoriati dalle bombe e dai mortai, avvelenati dai gas tossici, disseminati di proiettili inesplosi, non era possibile ricostruire ma il governo francese del dopoguerra non ha voluto che i villaggi sparissero dalla mappa. Con una legge del 1919 li ha dichiarati ufficialmente morti per la Francia come i soldati caduti in combattimento, e ha assegnato loro una commissione municipale, guidata da un sindaco che si occupasse degli indennizzi per gli abitanti costretti a fuggire o per i loro discendenti […]. Concluse nel dopoguerra (la seconda) le penose ricerche di superstiti e discendenti ai sindaci è rimasto il dovere della memoria. […] Hanno costruito cappelle e monumenti ai morti, tracciato strade e piante di edifici scomparsi, preservato con cura le poche rovine rimaste in piedi. I villaggi sono stati sacrificati per salvare il Paese e oggi sono nel riposo eterno. Non bisogna dimenticarli. […] (Chiara Rancati, Pagina99 del 26/03/2016)

E noi? Dove sono finite le battaglie dei nostri padri, dei nostri nonni? Dov'è la memoria dei nostri morti?

La maggior parte degli italiani è contenta se i negozi rimarranno aperti il 25 aprile, diventato ormai un giorno feriale come tanti altri.” (Alberto Cavaglion, La resistenza spiegata a mia figlia).

Amnesia collettiva. Perdita della memoria. Dimenticanza. Oblio. Oscurità. Tenebra. Barbarie. Ferocia. Atrocità. Orrore. Crudeltà. Efferatezza. Disumanità. Morte. Rassegnazione. 

Eppure non mi capacito, proprio non riesco ad arrendermi alle ataviche pennellate di bianco passate sul sangue versato, mani di vernice inutili e insensate come i restauri di alcune chiese di Baviera. Allora cerco negli interstizi… 




E chissà che quello della memoria non diventi prima o poi un business redditizio anche al di qua dei Pirenei.
Cimitero inglese di Anzio
Cimitero inglese di Anzio


Per approfondimenti:


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mercoledì 20 aprile 2016

Io, Esmeralda e le altre

Da bambina ero una scavezzacollo. Mia madre era costantemente angosciata dall'idea che non riuscissi ad arrivare viva alla pubertà. Non che in seguito si sia tranquillizzata. Tra le tante cose che amavo fare, alcune erano abbastanza inquietanti come rincorrere lucertole tentando di staccarne la coda o legare le coccinelle con filo da cucito tipo guinzaglio; stare in bilico sul bordo di una cisterna per la raccolta dell’acqua piovana urlando per far rimbombare la mia voce o tentare di vederne il fondo; usare le stecche di metallo di vecchi ombrelli come frecce di un rudimentale arco provocando ferite, fortunatamente, solo alla corteccia dei poveri alberi che usavo come bersaglio.

Ma una delle cose che proprio adoravo fare era arrampicarmi lungo i gradini di una vecchia scala di legno pericolante che conduceva al sottotetto di casa dei miei nonni, utilizzato come ripostiglio. 

Appoggiavo furtiva il piede sui primi gradini con un misto di timore e sbruffoneria, mi accertavo che non ci fosse nessun adulto nei paraggi e arrivavo in cima con il cuore in gola. La cosa che rendeva tutto questo ancora più affascinante era che la porta chiusa a chiave della soffitta, anch'essa fatta di vecchie tavole aveva alcune spaccature da cui si poteva sbirciare all'interno. Me stavo li per ore, accovacciata sul piccolissimo pianerottolo, guardando attraverso le fessure alla ricerca di tesori nascosti nella traiettoria della luce e nel pulviscolo che danzava.

Dev'essere per questo non posso fare a meno di arrampicami se c'è una scala e men che mai resisto di fronte a una porta chiusa o a una bella storia.

Le scale sono tante...

E di storie che hanno come co-protagonista una scala ce ne sono milioni di milioni di milioni.  Partiamo da qualcuna che fa venire i brividi, come quand'ero bambina. :-)

San Juan Bautista, Madeleine

Nel film Vertigo (La donna che visse due volte) di Alfred Hitchcock, Scottie (James Stewart), ex ispettore licenziato dalla polizia perché soffriva di vertigini, è incaricato da un vecchio amico di sorvegliare la bellissima moglie Madeleine (Kim Novak) il cui strano comportamento gli fa temere il suicidio. 

Scottie sorveglia la donna, la salva da un tentativo di annegamento, s’innamora di lei ma non riesce, a causa della sua “infermità”, a impedirle di buttarsi da un campanile. 

Sentendosi responsabile è colto da depressione nervosa, poi riprende una vita normale fino al giorno in cui incontra per strada la sosia di Madeleine che pretende di chiamarsi Judi ma che scopriamo invece essere proprio Madeleine, mentre la donna morta è in realtà un’altra. Si è trattato infatti di una macchinazione dei due diabolici amanti per liberarsi della moglie di lui, giocando sul fatto che l’agorafobia di Scottie gli avrebbe impedito di seguire Madeleine fino in cima al campanile. Quando alla fine Scottie capisce che Judi e Madeleine sono la stessa donna, vincendo le vertigini, la costringe a salire sul campanile e assiste alla caduta accidentale di quest’ultima.

Vertigo - La donna che visse due volte - Alfred Hitchcock
Vertigo 

Si potrebbe parlare di questo film per ben più di un post ma, pur essendo l’anno del longform:-), aggiungo solo una notazione riguardante l’effetto “distorsione” delle scale, non facilissimo da ottenere con i mezzi e la tecnologia dell’epoca. Pare che il maestro ci pensasse da una quindicina d’anni (da quando aveva girato Rebecca). Il problema venne risolto da Hitch combinando insieme il Dolly e lo zoom. Si sarebbe però dovuta mettere la macchina da presa in alto sulla scala, costruire un meccanismo per sollevarla, utilizzare contrappesi ecc. Tutto questo per la modica cifra di 50.000 dollari.

Al che ebbe l’idea di costruire un modellino di tromba di scale, appoggiarlo orizzontalmente per terra e fare la ripresa carrellata-zoom sul piano spendendo “solo” diciannovemila dollari. Quando si dice il genio… :-)



La scala “vera” si trova a San Juan Bautista, convento spagnolo situato lungo “El Camino Real”, interminabile teoria di missioni francescane (e di campane sante) che si snoda in un percorso continuo di quasi mille chilometri da San Francisco fino al confine con il Messico. Il posto è notevole e ne abbiamo parlato più diffusamente in questo post.

Castello di Montebello, Azzurrina

Poi c’è Azzurrina. Storia abbastanza inquietante e registrazione di suoni altrettanto inquietanti anche se potrebbero benissimo essere rumori di sciacquoni registrati nei bagni di un autogrill della Milano-Laghi.

Questo è più o meno il sintetico resoconto di Alessandro successivo alla visita guidata al Castello di Montebello nel lontano 2003 dove ci vennero minuziosamente descritte le tecniche di difesa interna del maniero e l’origine storica del termine “credenza”. 

Ricordo che rimasi alquanto delusa nell'accorgermi che la luce blu che illuminava la scala, e l’angolo dove la bimba pare fosse scomparsa, era solo il riflesso di un faretto alogeno da 300 Watt.

La leggenda di Azzurrina è tuttavia affascinante per svariati motivi, non ultimo perché fa parte della tradizione orale e solo intorno al XV secolo un parroco della zona l’ha messa per iscritto assieme ad altre storie mitologiche.

La storia vuole che Azzurrina, figlia di Ugolinuccio o Uguccione di Montebello, feudatario di Montebello di Torriana, fosse nata albina ma poiché la superstizione popolare dell'epoca collegava l'albinismo con eventi di natura diabolica, la madre decise di tingerle i capelli di nero. 

Considerando la tecnologia delle tinture per capelli del 1300 non propriamente all'avanguardia, l’unico effetto che ottenne fu una colorazione “azzurrina” da cui il soprannome della poverina, che di nome faceva invece Guendalina o Adelina. Il papà Uguccione, preoccupato delle dicerie e nell'intento dei proteggerla dalle malelingue e dal pregiudizio, ne fece di fatto una reclusa, sorvegliata a vista da due guardie finché una sera, mentre imperversava un tremendo temporale e la bambina giocava con una palla di stracci si consumò la tragedia.
Scala del Castello di Montebello
Scala del Castello di Montebello

Pare che Azzurrina stesse inseguendo la sua palla rotolata lungo le scale che portavano alla ghiacciaia sotterranea quando lanciò un urlo terrificante. Le guardie accorsero dall'unico ingresso ma la stanza era vuota, né la bambina né la palla furono mai più ritrovate e da quell’ episodio funesto ogni cinque anni, in concomitanza con il solstizio d'estate, c’è chi giura che le urla della sfortunata piccina riecheggiano ancora nel Castello.
Castello di Montebello - Azzurrina
Azzurrina

Notre Dame de Paris, Esmeralda

In ogni città della Francia esisteva, nel medioevo, un rifugio dove la giustizia umana non poteva essere esercitata. […] Questi luoghi d'asilo, in mezzo al diluvio di leggi penali e barbare giurisdizioni che inondavano la città, erano delle specie di isole che si innalzavano al di sopra del livello della giustizia umana. I palazzi del re, le dimore dei principi, soprattutto le chiese avevano diritto d'asilo.
A Notre Dame, per questo c'era una cella collocata in cima alle navate laterali, sotto
i contrafforti, di fronte al chiostro, proprio nel punto in cui la moglie dell'attuale custode delle torri si è ricavata un giardino, che sta ai giardini pensili di Babilonia come una lattuga sta a una palma, come una portinaia sta a Semiramide. È qui che Quasimodo, dopo la sua corsa sfrenata e trionfale sulle torri e per le gallerie, aveva deposto l'Esmeralda.(Victor Hugo, Notre Dame de Paris).

Quasimodo nasconde dunque Esmeralda nella cella della Cattedrale di Notre Dame da cui si accede per mezzo di una scala ornata da esili colonnette ed è uno dei pochi posti riconoscibili con certezza dalle descrizioni del romanzo, una struttura originale a cui Victor Hugo ci si è evidentemente ispirato.
Notre Dame de Paris - La logette d'Esmeralda
Notre Dame de Paris - La logette d'Esmeralda

Anche Esmeralda, come Azzurrina e la stessa Judi/Madeleine è insieme vittima del pregiudizio e dell’amore appassionato: per un uomo o di un uomo, di un padre nel caso di Azzurrina, di chi rinchiude credendo di proteggere.

Eppure tutte, infine, riscattano se stesse nell'ultimo atto, pagando con la vita le loro scelte di verità, fanciullezza e libertà.

Ogni civiltà comincia con la teocrazia e finisce con la democrazia. Questa legge della libertà che subentra a quella dell'unità, è scritta nell'architettura, scrive Hugo.

Per me la libertà è scritta nell'architettura di una scala e in quei gradini sospesi verso l’ignoto.


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giovedì 14 aprile 2016

Il tetto del Pantheon

"dimme er Patheon, no a rotonda!"


Uno degli interventi video del TEDxRoma di quest’anno dal titolo: "To create for the ages, let's combine art and engineering" era di Bran Ferren. 

Bran Ferren è quello che Emilie Wapnick potrebbe definire un multipotenzialista, un maestro delle arti e delle scienze, un uomo universale. La sua pagina Wikipedia lo descrive come un  “American technologist, artist, architectural designer, vehicle designer, engineer, lighting and sound designer, visual effects artist, scientist, lecturer, photographer, entrepreneur and inventor”. 

Nel suo speech la combinazione di arte e ingegneria riguarda un frammento sconfinato e incommensurabile del nostro passato. La prossima volta che ci passeggiate davanti diretti verso una granita al caffè con panna, fateci caso :-).

La storia è questa.

All'età di nove anni, andammo a Roma. Un giorno d'estate particolarmente afoso, visitammo un edificio a forma di tamburo che dall'esterno non era particolarmente interessante. Mio padre disse che si chiamava Pantheon: un tempio per tutti gli dei

Non sembrava così speciale dall'esterno, come dicevo, ma entrandoci, rimasi colpito da tre cose: prima di tutto, era piacevolmente fresco nonostante il caldo soffocante che c'era fuori. Era molto buio, l'unica fonte di luce era una grande apertura sul tetto. Mio padre mi spiegò che si chiamava Oculus, un occhio sul paradiso. E c'era qualcosa in quel posto, non sapevo perché, che lo rendeva speciale. Andando verso il centro, guardai il cielo attraverso l'Oculus. Era la prima chiesa in cui entravo che dava una visione non protetta tra Dio e l'uomo. Ma mi chiesi cosa sarebbe successo in caso di pioggia. Magari mio padre lo chiamava Oculus, ma di fatto era un grande buco nel tetto. Guardai per terra e vidi i canali di drenaggio  scavati nel pavimento di pietra. Mentre mi abituavo al buio, fui in grado di scoprire i dettagli nel pavimento e sui muri circostanti. Niente di particolare, solo qualche statua che si vede in tutta Roma. Sembrava che si fosse presentato lo scultore di turno della Via Appia con il suo campionario, lo avesse mostrato ad Adriano e Adriano avesse detto, "le prendiamo tutte”. :-)

Ma il soffitto era spettacolare

Roma, L' Oculus del Pantheon
L' Oculus del Pantheon 



Sembrava una cupola geodesica di Buckminster Fuller. Ne avevo viste altre, e Bucky era un amico di papà. Era moderna, tecnologica, impressionante, un'enorme apertura di 43 metri che non a caso era anche la sua altezza. Adoravo quel posto. Era veramente bello e diverso da tutto ciò che avevo visto in precedenza, quindi chiesi a mio padre, "Quando è stato costruito?" Mi disse, "Circa 2000 anni fa." E io dissi, "No, intendo il tetto." Davo per scontato che fosse un tetto moderno che era stato costruito perché l'originale era stato distrutto da qualche guerra lontana. Mi disse, "È il tetto originale."

Quel momento cambiò la mia vita.

Per me, le piramidi di Giza, che avevamo visitato l'anno precedente, certamente sono impressionanti, bel design, ma datemi un budget illimitato, 20 000 o 40 000 operai, e 20 o 30 anni per scolpire e trascinare blocchi di pietra per la campagna, e le piramidi le faccio anch'io. Ma nessuna forza bruta mette in piedi la cupola del Pantheon, né 2000 anni fa, né oggi. Casualmente, è ancora la più grande cupola non rinforzata che sia mai stata costruita

Per costruire il Pantheon ci sono voluti i miracoli. Per miracolo intendo cose che sono tecnicamente a malapena possibili, molto rischiose, e potrebbero non essere realizzabili oggi. Per esempio per renderlo strutturalmente possibile, hanno dovuto inventare cemento molto resistente e controllare il peso, modificare la densità dell'aggregato mentre innalzavano la cupola. Per la resistenza e la leggerezza, la struttura della cupola usava cinque anelli di cassettoni, di dimensione decrescente, che impartiscono una prospettiva molto enfatizzata al design. Era straordinariamente fresco all'interno grazie all'enorme massa termale, convettore naturale di aria che risale attraverso l'Oculus e un effetto Venturi quando il vento soffia in cima all'edificio. 

Scoprii per la prima volta che la luce stessa ha sostanza. Il fascio di luce che passava attraverso l'Oculus era sia bello che palpabile, e mi resi conto per la prima volta che si poteva progettare la luce. Non solo, ma che tutte le forme di design, di visual design, erano tutte irrilevanti senza, perché senza luce, non si può vedere niente. Mi resi anche conto che non ero il primo a pensare che quel posto fosse veramente speciale. Era sopravvissuto alla gravità, ai barbari, alle razzie, allo sviluppo e alla devastazione del tempo fino a diventare quello che credo sia l'edificio occupato più longevo della storia.
Roma, Pantheon - Vista della cupola dal Campidoglio
Pantheon - Vista della cupola dal Campidoglio

Roma, Pantheon - Esterno
Pantheon - Esterno

P.S. Nell'inciso iniziale un detto romano dovuto al fatto che la piazza del Pantheon per la toponomastica si chiama “Piazza della rotonda”. Da qui, se si dava appuntamento a qualcuno dicendogli “ci vediamo a Piazza della Rotonda” si poteva venire apostrofati in questo modo, come a dire “usa il nome comprensibile di quel luogo anziché un nome che non conosce nessuno”. Per estensione il modo di dire è diventato di utilizzo comune per dire a qualcuno “non fare giri di parole, chiama le cose col loro nome, sii più diretto e conciso”.


Fonti e approfondimenti:
L’intera conferenza è disponibile qui
TEDxRoma 2016 “Game Changers
Di spazio svelato dalla luce si parla in questo post di Didatticarte
Ancora sul Pantheon

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mercoledì 6 aprile 2016

La Pantanella e il gatto

"La memoria dei luoghi soccorre"  (Andrea Camilleri)


C’è quel pezzo di strada tra Ponte Casilino e Porta Maggiore, attraversata da platani sbilenchi da Grand Boulevard, che sembra stoicamente resistere ai tentativi di riqualificazione delle onlus e delle associazioni culturali. E neanche il gatto delle foreste norvegesi nascosto tra i grandi cespugli di Nandina domestica riesce a nobilitare l’enorme Bingo attaccato al palazzo del Ministero dell’Economia.

Arrivando dal Ponte Casilino la rive droite è quasi interamente occupata dagli edifici di una delle prime realtà industriali di Roma, l’ex pastificio Pantanella.

Lo stabilimento di via Casilina (un mulino, un pastificio, un magazzino, uffici, depositi, una ferrovia che terminava all'interno dell'area) fu progettato nel 1928 tra mille difficoltà tecniche e amministrative dall’ing. Alberto Naldini ma della realizzazione si occupò in seguito Pietro Aschieri che aggiunse al progetto originale gli oculi circolari nei due prospetti laterali che richiamano la tomba del fornaio Eurisace e di sua moglie Atistia, nella vicina Porta Maggiore. 

Il pastificio, colpito duramente dai bombardamenti della seconda guerra mondiale fu ricostruito nel 1950 da Vittorio Ballio Morpurgo, che edificò anche il mulino ora a ridosso della tangenziale. Tra il 1958 e il 1961 Silvano Ricci aggiunse il biscottificio. 

Negli anni ’70 con la chiusura degli stabilimenti il complesso cadde in stato di abbandono e tra il 1990 e il 1991 ospitò uno dei primi fenomeni di immigrazione di massa in Italia

Una faccenda scomoda, sul cui esito in molti hanno usato la parola deportazione. 

È una storia che riecheggia nelle pieghe di questa città, s’infila silenziosamente nella brezza calda e fuori tempo di una pigra domenica romana, nelle abitazioni riconvertite in supercondominio complesso, nei viali silenziosi degli uffici della Pantanella, divenuta simbolo di una stagione di impegno sociale animata dall'allora direttore della Caritas di Roma don Luigi Di Liegro e da Mohammad Muzaffar Alì, detto Sher Khan, attivista per i diritti umani, presidente e fondatore dell’Associazione Unione Dei Lavoratori Asiatici (UAWA). 



Per inciso: Mohammad Muzaffar Alì fu trovato morto per il freddo su un marciapiede di Piazza Vittorio nell' inverno del 2009, aveva 55 anni.

Da Sher Khan a Mimmo 'u curdu

Era il 1990, l’anno dei mondiali di calcio e Roma si preparava all'evento ripulendo le strade del centro dalle presenze sgradevoli.

Cacciate dall'amministrazione capitolina quelle stesse presenze si rifugiarono in migliaia negli impianti di via Casilina: il 31 ottobre 1990 gli ospiti regolarmente tesserati alla Pantanella erano 2.629 e si parlavano più di 40 idiomiC’erano, secondo le testimonianze del tempo, solo 1.500 posti letto, una lavatrice, poche docce, una scuola di italiano, una moschea.

Hanno resistito alcuni mesi, stretti nella morsa dei media, delle forze di polizia, dei comitati di quartiere,  mantenendo aperto il colloquio con i sindacati, la Caritas, le associazioni di volontariato e i rappresentanti del Comune. 


Le forze dell'ordine sgombrano la Pantanella.  Roma, 31 gennaio 1991 (Foto: Stefano Montesi)
Le forze dell'ordine sgombrano la Pantanella.
Roma, 31 gennaio 1991 (Foto: Stefano Montesi)
All'alba del 31 gennaio 1991 gli abitanti del Shish mahal (come fu ribattezzata la Pantanella) furono prelevati, divisi in piccoli gruppi e trasferiti forzatamente in otto edifici comunali, per lo più scuole in disuso nella periferia della capitale. Al Prenestino, al Tiburtino, al Salario. Non verso soluzioni alloggiative durature e dignitose ma posti letto a tempo determinato come ebbe a dire l’allora sindaco del PSI Franco Carraro. Niente feriti gravi o morti durante lo sgombero, soltanto un incendio accidentale presto domato. Di morti alla Pantanella si parlerà molto più tardi, per un altro drammatico caso di discriminazione e omofobia. Ma questa è tutta un’altra storia. Una storia di cui ci resta però il sapore amaro dell’irrisolto, come per quei dannati della terra mai veramente accolti in questo paese di frontiera.

Ex edificio Pantanella, Roma
Ex edificio Pantanella, Roma 

Ex edificio Pantanella, Roma
Ex edificio Pantanella, Roma 

Ex edificio Pantanella, Roma
Ex edificio Pantanella, Roma 

Ex edificio Pantanella, Roma
Ex edificio Pantanella, Roma 

In corner una buona notizia, anzi due.

La prima sul fronte immigrazione. Domenico Lucano, 59 anni, ex maestro di scuola e sindaco di Riace al terzo mandato è, per Fortune, tra le personalità (unico italiano) che stanno cambiando il pianeta. Come? Realizzando un modello di ospitalità studiato in tutta Europa e cominciato nel 1998 con l’arrivo di un veliero di 800 migranti provenienti da Afghanistan e Iraq. I dettagli in questo post di Nuovo e Utile

La seconda è che a Roma abbiamo già tirato fuori i sandali estivi, all'inevitabile domanda se è arrivato il momento di togliersi le calze la risposta è sì. Per le barche e i costumi aspettiamo ancora qualche giorno ;-).
Fonti e approfondimenti:


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