Visualizzazione post con etichetta Verde urbano. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Verde urbano. Mostra tutti i post

mercoledì 8 giugno 2016

Il lago di Roma

Ufficialmente si chiama "Sandro Pertini" ma per gli abitanti del quartiere Pigneto-Prenestino, è il lago ex-Snia. Snia sta per Snia Viscosa la fabbrica che popolò quest'area della capitale negli Anni '20 in poi: oltre 2 mila operai, più del 50% donne, provenienti chi da altre regioni, chi dai borghi del centro. Poi nel 1954 la fabbrica venne chiusa (Ansa Magazine)

Hanno strane storie le ex fabbriche di Roma. 

Questa è proprio dietro casa. Dietro casa nell'accezione di chi a Roma vi abita, ovvero raggiungibile in un tempo inferiore alla mezz'ora, in un luogo dove per andare “ovunque” ci vuole minimo un’ora, escludendo la ricerca del parcheggio. 

Lo stabilimento Snia viscosa prima della crisi del ‘29 conta più di 2.300 addetti. 

Nel giro di un paio d’anni ne perde un migliaio e solo gli aiuti statali la salvano dal fallimento legando inesorabilmente la sua storia a quella del Regime fascista e della politica di guerra (produce, tra le altre cose, uniformi militari). Nel 1949 impiega ancora 1.600 operai, ridotti a 120 nel giro di pochi anni fino alla chiusura definitiva, avvenuta nel 1954.

Nel 1982 il complesso dell’ex fabbrica passa alla Società Immobiliare Snia S.r.l. che negli anni ’90 vende l’intera proprietà alla società Pinciana 188 S.r.l. (poi assorbita dalla Ponente 1978 S.r.l., proprietà di un noto palazzinaro romano) per farne un Centro commerciale. 

Nel 1992, poco dopo l’inizio dei lavori, uno sbancamento nel cantiere di circa 10 metri intercetta una falda acquifera e si forma un lago. Nel tentativo di liberarsi dell'acqua il costruttore la indirizza verso il collettore fognario, che però non ce la fa, allagando largo Preneste.

Infinite volte passo lungo questa arteria cittadina, in uno dei quartieri multietnici a più alta densità urbana di Roma, un amalgama di razze e di strade che si incrociano: via Prenestina, via di Portonaccio, via dell’Acqua Bullicante, il traffico è sempre congestionato, il transito del tram è continuo, un chioschetto sforna pane ciociaro cotto a legna... 

Allagare Largo Preneste. Che bella idea.

Da questo momento in poi l’intera faccenda si ingarbuglia parecchio, ma il lago dietro il muro di mattoni di Via di Portonaccio resiste, e da più di vent'anni centri sociali, comitato di quartiere, cittadini, WWF, Forum Territoriale Permanente del Parco delle Energie lottano per preservarlo dall'incuria e dalla corruzione.  

Lottano contro la mancanza di fondi per l’allestimento e la riqualificazione degli spazi verdi, lottano contro il ritorno delle gru e dei cingolati, contro il pericolo di “torri” di cemento, contro la burocrazia e il malaffare, lottano affinché si arrivi a una vera tutela con la trasformazione in monumento naturale e la demolizione degli abusi edilizi mai bonificati.

Nell'agosto 2014 una parte del lago (circa la metà) è stata annessa al Parco delle Energie ma i fondi stanziati per la sistemazione dell’area (500.000€) non sono mai stati resti disponibili e oggi è autogestito da tutti coloro che vogliono partecipare costruendo arredi, pannelli, pulendo l’area, mettendo a disposizione le proprie competenze e autofinanziato con la cassa di resistenza del 25 aprile.

Dall'ingresso del Parco delle Energie di via Prenestina il lago non si raggiunge. 

Superato il cancello parte un viale costeggiato sulla sinistra di edifici in disuso, a cui vegetazione e street art restituiscono un fascino vagamente nostalgico.  Più avanti un campo da Basket. Mentre osservo i ragazzi più grandi allenare i piccoli, una ragazza si stacca dal gruppo. Bellissima, tratti orientali, lunghi capelli neri, calze che terminano sul ginocchio con la forma di una testa di gatto, incedere annoiato. Sembra un manga, un’apparizione evocata da uno dei mondi colorati presenti in ogni angolo di questo strano parco. 


Lago Ex Snia, Roma - Street art

Lago Ex Snia, Roma - Street art
Lago Ex Snia, Roma - Parco delle Energie

Lago Ex Snia, Roma - Parco delle Energie

Lago Ex Snia, Roma - Parco delle Energie

S’intravede il tentativo di dare forma agli spazi verdi ma gli alberi piantati stentano a crescere, le panchine di legno sono quasi tutte rotte, i cespugli di lantana delle aiuole sono soffocate dalle erbacce, si direbbe la rivincita del jardin sauvage o del Terzo Paesaggio. Solo i giochi dei bambini risuonano delle loro grida divertite. Mi chiedo se i loro sguardi, crescendo, sentiranno di più la necessità di bellezza o se questo luogo li renderà ciechi all'abbandono e al degrado.

Un buco nella recinzione permette l’ingresso abusivo in un sottobosco di allori dove un sentiero cosparso di preservativi e fazzoletti di carta conduce a un affaccio. 
Lago Ex Snia, Roma - Parco delle Energie


Eccolo, in lontananza, il lago di Roma. Diecimila mq d’acqua, addirittura balneabile dicono. Da qui sembra una pozza ma è abbastanza per far galoppare la mia fantasia verso orti galleggianti, macchie rosa di fenicotteri, grandi cespugli di Buddleja, minuscoli giunchi palustri e qualche salice piangente, capanne di legno per l'osservazione degli uccelli, mercati coperti al posto delle vecchie fabbriche. 

Lago Ex Snia, Roma - Parco delle Energie



Lago Ex Snia, Roma - Parco delle Energie
E perché no? Una scuola di pittura en plein air! ;-)
Giverny - Giardino di Monet - Ninfee
Giverny - Giardino di Claude Monet - Ninfee




Per approfondimenti:

Follow my blog with Bloglovin

venerdì 19 febbraio 2016

Il verde altrove: l’edificio foresta di Chiabrera e i confini sfumati

È spiacevole che al grido della palingenesi: “Natura, natura!” (nel qual grido si colgono per altro toni giustissimi) certuni abbian ricusato di prendere a considerare con serenità i fenomeni dell’artificio o vita meccanica. Una centrale telefonica automatica; una stazione radio; un palcoscenico moderno costituito dalle più artificiose disposizioni meccaniche, fotogenetiche, elettriche: non sono men reale natura che il sulfuroso vulcano, o l’arido greto del torrente, o lo sterco delle bestie quadrupedi, o bipedi. Quei fatti della invenzione son fatti e sono dunque natura: ché la mente disegnatrice è natura e la storia degli uomini tutta è natura (Carlo Emilio Gadda - Meditazione milanese).


Quando decisi di aprire questo Blog ne avevo per prima cosa ben definito il perimetro all'interno di poche specifiche categorie. Per aiutare il lettore a riconoscerle il nome della categoria faceva parte del titolo del post ad evocare immaginazione, contaminazione e racconti collocati altrove, in luoghi fuori dall'ordinario: del resto le storie che ci somigliano raccontano di quelli che cambiano le regole.

Nel giro di qualche mese il confine è sfumato, le parole hanno cominciato a fluire liberamente e anche la categorizzazione è naturalmente scomparsa dal titolo mentre il luogo dove nascono le storie continua ad essere l’ universo metropolitano, del resto “La città è lo spazio romanzesco per eccellenza”.

Sarà tuttavia che il cemento non piace a nessuno. Sarà per quel grigio polveroso che bisogna imbellettare con grandi vetrate, rivestire di pietra, mischiare con il legno, ammantare di riflessi e di verde.

E proprio il verde sembra essere per gli abitanti delle nostre città l’unica ancora di salvezza, l’illusione della natura, la botte piena e la moglie ubriaca, il tutto sotto casa a portata di mano e  il guerriglia gardening, il tetto verde, l’orto collettivo, il riuso creativo, il bosco verticale, i giardini in terrazzo, le corti nascoste, il salotto verde sul balcone, il bosco sociale, la bicipolitana (anche Marc Augé salì un giorno in bicicletta).

Al 25 verde

In una mattinata d’inverno non troppo fredda appare Torino con il suo cielo grigio e la quiete dell’ora presta. Vado di nuovo alla ricerca di alberi, stavolta in via Chiabrera a pochi passi dal Parco del Valentino e dal Centro Storico Fiat.

Alberi di Cor-ten e stanze di un edificio-foresta che hanno richiamato l’attenzione a livello nazionale ed internazionale. Un blocco a corte interna di circa 60 appartamenti (11.500 mq di cui 4.000 di terrazzi e tetti verdi).

L’idea all'architetto Pia dev'essere venuta pensando a Maometto: se non si può costruire una casa nel parco, si può sempre portare il parco in casa. Così in copertura verde pensile, in facciata verde verticale, in mezzo all'edificio un giardino, sui balconi grandi fioriere. E poi l’uso di tecnologie innovative volte al risparmio energetico e a garantire un basso impatto ambientale: isolamento termico (cappotto, serramenti), regolazione del comfort, raccolta dell’acqua piovana ed economizzatori...

John Dewey ricordava negli anni venti che il termine greco techne indica quel che poi verrà chiamato arte: la tecnica pensata  nella continuità fra opere della natura e opere dell’uomo, fra il poiein del mondo fisico-biologico e il produrre della tecnica umana, perchè per colorare un mondo grigio servono espedienti tecnici, funzionali, compositivi ma servono soprattutto confini sfumati.


25 verde

25 verde

25 verde

25 verde


Per approfondimenti:

Follow my blog with Bloglovin

mercoledì 28 ottobre 2015

Gran Torino

Mi pare fosse il 2005 o forse prima.

Ero stata invitata a Torino, insieme a una collega, a tenere un workshop sul Customer Relationship Management, nella sede di una società partner dell’azienda per cui lavoravamo a quel tempo.

Il tema non mi preoccupava: avevo fatto abbastanza presentazioni a destra e a manca, dai dipendenti della Pubblica Amministrazione Locale di Potenza agli Account Telecom dislocati nelle sperdute periferie romane, da non temere figuracce. Almeno così credevo.

Tornando con la memoria a quella mattina rivedo me e Ilaria fare i controlli di routine: PC, proiettore, ripasso veloce delle slide, caffè (Ilaria), caffè e sigaretta (io), brochure, biglietti da visita, ultimo giro dell’applicazione. 

La sala si riempie, saluti, presentazioni, silenzio, si comincia. 

E all'improvviso non ho più saliva. Niente, finita, puff! Tento inutilmente di inghiottire, non riesco ad articolare parola, guardo le 50 paia di occhi e ho l’impressione che sappiano esattamente quello che sta succedendo. Afferro un bicchiere d’acqua, mando giù un sorso, Ilaria introduce, io seguo, il cuore si placa, la voce trema appena, poi continuo spedita.

Torino.

Sto coltivando il desiderio di ripassare da Torino da quel primo incontro, nel lontano 2005. Non ci sono più tornata ma ogni anno, a Natale, con le prime nevi, mi prende la smania di andare a passeggiare al Parco del Valentino, di ordinare una cioccolata calda in un caffè che si affaccia sulla strada, di gironzolare nella nebbia serale alla ricerca di una donnola gigante e di un posto per chiacchierare fino a tardi. Sistematicamente se qualcuno mi chiede “che fate a Capodanno?” rispondo: “Sto pensando di andare a Torino” ricevendone in cambio un’occhiata perplessa e l’immancabile domanda: perché Torino?

Leggo in questi giorni che la Fondazione Musei ha deciso di sperimentare la realtà virtuale e l’app di una giovane start-up permetterà la visita di alcune sale in 3D. 

È solo un ulteriore elemento che va ad aggiungersi agli altri che sto lentamente stratificando e che fanno la mia personale percezione di questa città. Percezione che è il risultato di quell'unica visita, delle informazioni raccolte e immagazzinate negli anni, delle persone che ho incontrato nella vita “reale” e “virtuale”, del liquido bianco e del liquido blu che si mischiano nella bottiglia (cit. Rudy Bandiera).

Certo, una città vista da turista è cosa diversa da una città che si vive ogni giorno, magari da pendolare. Prendere una metro affollata o lanciarsi in autostrada dopo aver sbrinato il parabrezza dell’auto con la carta di credito non è come fare colazione in hotel e poi uscire nella folla con lo spirito del flâneur. 

E allora, quando qualcuno mi chiede “perché Torino?” penso al ghiaccio della Fontana dei Ceppi, al rumore dei miei passi nelle vie pedonali del centro storico, a Paola e Ilaria, alla Stura e alla Mistura, a Calvino e Pavese, ai 100 occhi, ai visori 3D e rispondo: è per i gianduiotti... :-)
Torino, Parco del ValentinoFoto:

Follow my blog with Bloglovin

giovedì 24 settembre 2015

Il verde altrove… Gesù giardiniere

Ammetto che l’idea di un Cristo giardiniere mi consolava non poco, soprattutto in una domenica mattina alle prese con la potatura estiva di un rigoglioso Rincospermum e una Cortaderia aggrovigliati l'uno all'altra come le stirpi di Cent'anni di solitudine
Specie poi se ci si dimentica di indossare una camicia a maniche lunghe. 

Dopo qualche ora di lavoro, con i capelli imbiancati dalla lanugine dei pennacchi dell'Erba della Pampa, appiccicaticcia di liquido gelatinoso, ricoperta di polvere e graffi, bofonchiando sull’acquisto immediato di una super motosega e minacciando di ridurre ogni velleità di verde urbano alla gestione di una bacheca su Pinterest, di cui avevo già anche il nome: “Je suis au jardin”; mentre Vita Sackville-West si allontanava velocemente dall'immaginario dei presenti sostituita dal primitivo operaio in cui mi stavo trasformando, ho visto negli occhi di mia madre, che casualmente assisteva alla scena con la fronte aggrottata e senza quasi proferire parola, la bambina che tornava a casa da scuola trafelata, insudiciata e ricoperta di insetti morti per essersi infilata nelle cunetteHa chiesto solo, allontanandosi, se avevo camicie da stirare. :-)

Noi ortolani siamo fatti così. Se non altro, possiamo dire di essere in buona compagnia. 

La nostra piccola aiuola è il paradiso terrestre, l’hortus conclusus ricco di fiori e di aromi del Cantico dei Cantici di Salomone, la città della Gerusalemme celeste dell’Apocalisse senza strade e piazze ma con il grande Albero della vita, è il giardino di Giuseppe d’Arimatea dove Gesù risorto era apparso sotto l’aspetto di giardiniere a Maria Maddalena

Maria, invece, se ne stava fuori vicino al sepolcro a piangere. Mentre piangeva, si chinò a guardare dentro il sepolcro, ed ecco, vide due angeli, vestiti di bianco, seduti uno a capo e l'altro ai piedi, lì dov'era stato il corpo di Gesù.
Ed essi le dissero: «Donna, perché piangi?» Ella rispose loro: «Perché hanno tolto il mio Signore e non so dove l'abbiano deposto».
Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù in piedi; ma non sapeva che fosse Gesù.
Gesù le disse: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?» Ella, pensando che fosse l'ortolano, gli disse: «Signore, se tu l'hai portato via, dimmi dove l'hai deposto, e io lo prenderò». (Giovanni 20, 11-15).

E mentre me ne stavo abbarbicata sull'ultimo gradino di una scala pericolosamente in bilico, continuando imperterrita a potare-attorcigliare-prendere-la-mira e lanciare pallottole di materiale di potatura e rami, dispensando occhiatacce e tardivi “attenzione!” al resto della famiglia (che avrebbe preferito andare a stirare le camicie con mia madre) affiora improvviso, in mezzo a pensieri altrettanto ingarbugliati, uno dei simboli più intatti della spiritualità monastica (l’abbazia di Fontaney) e mi rendo conto che averci passato un pomeriggio intenta ad osservare una dame au giardin,  amabili signore sedute a chiacchierare nel crepuscolo imminente e un topolino di campagna occupato a trasportare nella sua tana una piccola mela selvatica, forse non basta per dire di aver trovato l’Anima Mundi.

Borgogna, Montbard - Abbazia di Fontaney


Borgogna, Montbard - Abbazia di Fontaney

Borgogna, Montbard - Abbazia di Fontaney

Borgogna, Montbard - Abbazia di Fontaney

Borgogna, Montbard - Abbazia di Fontaney

Borgogna, Montbard - Abbazia di Fontaney

Borgogna, Montbard - Abbazia di Fontaney

Borgogna, Montbard - Abbazia di Fontaney
Borgogna, Montbard - Abbazia di Fontaney



Su questo tema leggi anche:
Il verde? Altrove…Piet Oudolf 


martedì 15 settembre 2015

Storie storte e consolanti utopie


La cover precedente di questo Blog era composta da diversi scatti fatti in momenti e luoghi diversi, tra cui l’interno di una casa cubica ad Amsterdam e un hotel a Flagstaff, sulla Route 66.


La prima cover del Blog
La prima cover del Blog

La seconda immagine a sinistra, la casa cubica, voleva essere una dichiarazione di intenti: qui raccontiamo storie storte, episodi non lineari, frammenti di rottura con il passato, l’ambizione e la sofferenza di chi sperimenta e sovverte. 

L’ultima a destra era invece legata ad un episodio specifico. 

Nel 2011 durante un viaggio in America (arrivo a San Francisco, partenza da New York e in mezzo 4 o 5 Stati on the road) ho dormito pochissimo per quasi tre settimane. Una mattina, sveglia presto come al solito, esco sul ballatoio dell' hotel attratta dal silenzio delle prime luci dell’alba e vedo comparire in lontananza i vagoni di un treno merci. Afferro la telecamera e comincio a filmare. Per alcuni infiniti minuti fisso sulla pellicola vagoni e vagoni che scorrono lentamente, fermando per sempre il ricordo di un’America dall’altra parte della strada, con i suoi binari e i treni che sembrano non finire mai.


L’ultima immagine è dunque una speranza: di afferrare il treno che passa, lo spazio eterotopico, l’immaginazione, l’avventura, i corsari. 

Una speranza che riguarda ancora una volta il paesaggio: un fil rouge che parte dalle Highway di un’America sconfinata per  arrivare alle distese interminabili di vigneti della Borgogna o di lavande della Provenza ma dopo molti km in terra straniera la sensazione, dolorosa, è di un treno che questo Paese, dalle Alpi alle Isole, ha perso mille volte.

Rapisce la volontà di conservazione, il recupero capillare delle tradizioni, la continuità nella manutenzione e nella cura del territorio, una buona rete autostradale dotata di servizi efficienti, strade che corrono in mezzo ai campi allineati, casali coperti di rampicanti o circondati di cipressi, filari di viti, alberi di frutta. In lontananza, i tetti di un villaggio, un ponte su un canale, la ruota di un mulino. E nessun capannone per il bestiame. 

Per chi, come me, conserva negli occhi l’abitudine al cemento, ai recinti, alle bottiglie di vetro rotto incastonate nei muri perimetrali delle ville immerse in un silenzio squarciato solo dai cani da guardia, le travi di una casa medievale, un’aiuola di coleus multicolori o il muschio che copre la fontana al centro di una piazza, stritola lo stomaco in una morsa amara. 

Inseguo utopie, mi dico, un attimo prima di far scattare il clic della macchina fotografica.