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martedì 16 marzo 2021

Spazio 1996

MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo 

Lo scorso anno, più o meno di questi tempi, meditavo cercando di dare un senso alle circostanze in cui noi tutti eravamo immersi a causa della pandemia e raccontai, in queste pagine, la storia di un noto artista concettuale che aveva sperimentato, in tempi non sospetti, una clausura volontaria in un museo di Copenaghen.

Per quelle strane giravolte del caso il mio articolo ha finito per trovare posto in una prestigiosa rivista di estetica, come punto di ripartenza per raccontare l’accaduto, stavolta con le parole e le riflessioni del protagonista.

[…] la recente scoperta di un blog che commenta e rilegge, paragonandolo alla quarantena collettiva della passata primavera, un mio lavoro del 1996, è stata per me motivo di sorpresa e attenzione perché riguarda un’opera che, seppure molto significativa sul piano personale, cadde completamente nel vuoto (così a me parve) in occasione della mostra per cui era stata realizzata. In svariate occasioni ho peraltro sostenuto che le vicissitudini di tale opera dimostrano che il dispiegarsi del senso di un lavoro artistico avviene in tempi e contesti non prevedibili, e spesso assai lontani da quelli attesi. […]

[...] L’opera d’arte, infatti, fra tutte le attività umane, è quella che accoglie la possibilità che il suo essere stata realizzata per una certa occasione o una certa mostra sia solo apparente, e accetta, anzi auspica, la possibilità che altri trovino il suo significato, il suo luogo e il suo pubblico, anni dopo, in tutt’altro contesto. Accetta e auspica la possibilità di muoversi, nella cronologia di un artista, in modo spiraliforme e ricorsivo stabilendo relazioni con le opere “sorelle” attraverso pieghe, legami e ponti simili a quelli che definiscono forma e funzione delle molecole più complesse; così facendo, contribuisce a dare valore alle precedenti, tanto quanto a ricevere valore dalle successive, in qualche modo profetizzandole. [...]

Ma come si vive -  letteralmente -  in un museo?

 […] A Copenaghen fa freddo, sulla spiaggia l’acqua del mare è più ghiacciata che liquida, ma c’è il sole e le giornate sono cristalline. Il Louisiana è un museo collocato in un luogo di una bellezza quasi impareggiabile: vari edifici di costruzioni successive nel tempo, collegati fra loro, circondano un parco molto curato, ma anche ampio, pieno di saliscendi e a tratti finanche misterioso; la striscia di mare che separa la Danimarca dalla Svezia è a pochi metri e, da qualche finestra del museo, si vede; in caffetteria ci si può sedere all’interno o in pieno sole; in una grande stanza ci sono i giochi per i bambini più piccoli; in un’altra i computer per gli adolescenti; la libreria ha spazio per sedersi, leggere, forse appisolarsi. Ci sono centinaia di persone, moltissime famiglie arrivate anche dalla vicina Malmö. La prima impressione è quella del museo di arte contemporanea, semplicemente, perfetto: bello, prestigioso, ricchissimo. Soprattutto accogliente. Meglio, vivibile. […].

L’articolo completo si può scaricare a questo link 


lunedì 13 aprile 2020

Now Here, Nowhere

È il 1996, più o meno in questo periodo dell’anno.

Cesare Pietroiusti - artista e attuale presidente di Palaexpo - è invitato a partecipare da uno dei curatori del Louisiana Museum of Modern Art di Copenaghen, Iwona Maria Blazwick, alla mostra Now Here per la sezione Work In Progress

A detta dell’artista il Louisiana Museum of Modern Art di Copenaghen era all'epoca (ma immagino che la sua vocazione sia rimasta tale anche in seguito) un museo perfetto e soprattutto vivibile. Intanto per la posizione: a mezz'ora da Copenaghen, poco distante anche da Malmö, immerso nel verde, con architetture perfettamente integrate nel paesaggio e, come se non bastasse, affacciato sulla costa dell’Øresund, nel Mar del Nord. Un museo destinato ad accogliere visitatori, famiglie, bambini, studenti con la promessa (mantenuta) di rendere memorabile la lunga permanenza. 

Un museo vivibile dunque e sulla falsariga di questa idea Pietroiusti propone a Iwona Maria una performance piuttosto inconsueta, a ripensarla oggi direi quasi profetica. 
L’arte del resto è sempre un passo avanti, perfino un passo avanti alle distopie.

La proposta, dicevo, consiste nel farsi murare in una sala del museo durante la settimana precedente l’inaugurazione: sette giorni in completo isolamento in una sala svuotata, un guscio con nulla dentro salvo un paio di prese elettriche. Trascorsi i sette giorni, la stanza è riaperta e resa accessibile al pubblico che può muoversi liberamente negli stessi spazi, in mezzo agli oggetti e a tutto quanto prodotto dall'artista e lasciato lì senza alterazione alcuna, diventando in tal modo, quegli stessi oggetti, oggetto dell’installazione.

Entra dunque nella sala vuota del museo portando con se sette gruppi di oggetti e li dispone in altrettanti angoli. Per prepararsi alla permanenza aveva chiesto a sette amici di fare ognuno una lista delle cose che avrebbero portato con se, dovendo sopravvivere per 24 ore in una situazione simile, e poi vi si era rigorosamente attenuto. Il primo giorno usa solo gli oggetti della prima lista, il secondo giorno quelli della seconda lista e così via. 

L’attività intorno alla sala murata continua rumorosa e frenetica per l’allestimento della mostra: un andirivieni incessante di operai, artisti, curatori, addetti alle pulizie, alla sorveglianza, alle consegne… La sera tutti se ne vanno, si spengono le luci, la stanza piomba nel silenzio. Così per sette giorni, un giorno dopo l’altro e sette notti, in compagnia di se stesso, dei propri pensieri e degli oggetti di qualcun altro. 

Più o meno a metà della reclusione comincia a vagheggiare e s’immagina un artista geloso che entra nella stanza per ammazzarlo, fare in sette pezzi il suo corpo per metterne ognuno in uno dei gruppi di oggetti che aveva disposto all'inizio della clausura. Controlla il terrore evocato dalla sua mente mettendosi in un ottavo angolo, il suo angolo, in cui erano posizionati gli unici oggetti personali che aveva deciso di portare con se: una borsa, un cavalletto, una macchina fotografica, dei rullini. Si mette nel suo angolo e ripete: sono un artista, sto partecipando a una mostra, è una performance

Allo scadere dei sette giorni, uscito dall'isolamento ha molta fame e per prima cosa mangia con molto gusto nella caffetteria del museo. Ci è voluto un po’invece per ricominciare a parlare con le persone. 

Fine della storia.

È il 2020, più o meno un mese fa.

Il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte dichiara la quarantena per contrastare il contagio dal Covid-19 e un’intera nazione (o larga parte di essa) diventa, suo malgrado, un enorme collettivo in un inedito esperimento sociale.

Più o meno da quel momento mi frulla in testa la storia che ho appena raccontato, quasi fosse il mio ottavo angolo, quello che può dare un senso all'intera faccenda. Che poi un senso non sono sicura di averlo trovato ma alcuni insegnamenti forse si. 

Il primo riguarda proprio gli oggetti. Quello che ci impedisce di diventare pazzi in una situazione estrema è banalmente avere un angolo in cui abbiamo riposto gli oggetti che per noi hanno un valore e che riescono a tenerci ancorati a una realtà, che pur essendo quella che non vorremmo vivere è pur sempre meglio dei nostri deliri. 

Il secondo riguarda il momento in cui si potrà uscire e il primo impulso sarà quello di soddisfare i nostri bisogni primari, ma allo stato attuale potrebbe non essere possibile anche stando “fuori” e il tentativo potrebbe avere conseguenze inaspettate. 

Quando finalmente sarà finita ne usciremo frastornati e dovremo velocemente rieducarci alla relazione mantenendo tuttavia il distanziamento sociale. Il che, è quasi un ossimoro. Guardarci e parlare attraverso lo schermo di un PC o di un telefonino rende oggi sicuro il nostro interagire, rende la relazione inodore, ma cosa ne facciamo di tutto il resto che manca? Una delle cose a cui ho pensato ascoltando il racconto della performance di Pietroiusti è stato esattamente sull'odore: che odore aveva la stanza dopo 7 giorni di vissuto, anche organico?

Il senso vivibile del Louisiana Museum of Modern Art di Copenaghen sta nel toccare le opere sparse in giardino, nel sedersi alla caffetteria o perdersi nei padiglioni rincorrendo i propri pensieri, nel sentire il vento e il profumo proveniente dal mare del Nord. 

Credo che il mondo, scriveva Riccardo Falcinelli qualche anno fa, non sia fatto per essere guardato ma per essere usato, cioè per entrarci in relazione, per chiederci cosa ci possiamo fare. Non sono sicura che a distanza di qualche luna e alla luce degli ultimi avvenimenti si possa continuare a dire la stessa cosa con la medesima nitidezza. 

Il mondo da mettere in relazione è oggi più di uno e forse bisogna semplicemente trovare modi inediti di metterli tutti in relazione con noi e tra di loro, ma se c’è qualcosa che racconta a me questa storia e che mi sprona a contornarmi di potos, riordinare i cassetti, alzarmi all'alba per andare chissà dove e poi stare qui, è nelle stesse parole dell’artista: l’operazione artistica può rappresentare un territorio di libertà e questa consapevolezza di libertà consente alle pluralità di pensare che il cambiamento è possibile.

Consente di pensare che il cambiamento è possibile e lo è perché qualcuno, un giorno, ha scelto liberamente di percorrere il mondo racchiuso in una stanza.


La "stanza ad Arles" dipinta da Van Gogh ricostruita dall'Art Institute di Chicago in occasione della mostra "Van Gogh’s Bedrooms" che, dal 14 febbraio al 10 maggio 2016, riunì le tre versioni del dipinto.

Approfondimenti


giovedì 23 maggio 2019

Il gioco dell'arte


di Alessandro Borgogno

“Andiamo Watson, il gioco è cominciato!”


È una frase iconica, uno di quei colpi di genio che i grandi scrittori inanellano nei loro scritti e che rendono ancora più immortali le loro creazioni. 

È la frase che Sherlock Holmes dice spesso al suo amico fidato quando si inizia la caccia al colpevole di qualche nuovo e inspiegabile delitto. Ed è in quel “è cominciato” che risiede il genio. Improvvisamente, talvolta senza che ce ne siamo ancora resi conto, ci dice che non stiamo vivendo una prefazione, un preludio, una preparazione. Ci dice che la corsa è già iniziata, siamo già in partita e probabilmente siamo già alla rincorsa, dobbiamo recuperare con l’astuzia, l’ingegno, la rapidità di pensiero e di azione per raggiungere un colpevole che già sta sfuggendo. Raggiungerlo, superarlo, fermarlo e consegnarlo alla giustizia. È una frase che in mezza riga ci precipita nel vivo di un’avventura che non ci lascerà più il fiato fino alla sua conclusione, spesso spettacolare, a volte imprevedibile e a volte grottesca, mai banale e scontata.

La frase, giustamente e inevitabilmente, non ce la risparmia neanche Luana Petrucci nella sua messa in scena, per il laboratorio teatrale ragazzi “Carpe Diem – Teatro e altre arti”, di una ennesima e inedita avventura (per gli appassionati, un “apocrifo”, e d’autore) del grande detective dilettante di Londra.

Sabato 18 e domenica 19 maggio, al teatro Grassi di Marino, abbiamo potuto seguire “Sherlock Holmes e il caso dell’ape tatuata”, un lavoro di Luana e dei suoi fenomenali ragazzi che ha riportato sul palcoscenico le gesta, i tic, le manie, le geniali intuizioni e la grande lotta al crimine del più grande investigatore della storia della letteratura.

Ne scrivo necessariamente una recensione di parte, non solo perché conosciamo Luana e i suoi ragazzi e li seguiamo ormai da anni sempre con maggiore piacere e soddisfazione, ma anche perché in questo caso la scrittrice e regista mi ha anche voluto coinvolgere fin dal concepimento del copione - approfittando della mia passione quasi patologica per l’opera di Conan Doyle - per consigli, indicazioni, suggestioni, e poi per la mia parallela passione fotografica, tanto da utilizzare proprio le mie foto (scattate a Londra al 221b di Baker Street, dove la fenomenale casa-museo di Sherlock materializza la fantasia letteraria in una realtà ormai indistinguibile dalla finzione; e alle cascate Reichenbach in Svizzera, teatro di uno dei più epici scontri della storia della letteratura poliziesca) per trovarvi atmosfere e indicazioni per la bellissima scenografia realizzata da Sara Botti e Sauro D'Annibali e illuminata e “sonorizzata” di volta in volta dall'oscuro ma preziosissimo lavoro di Franco Schettini e farle diventare scenografie esse stesse, proiettate sullo sfondo del palcoscenico a ricreare e richiamare gli ambienti nei quali si muovono i molti personaggi della storia. Un’emozione nell'emozione che ancora una volta Luana è riuscita a regalarmi.

Non sarò obiettivo quindi, ma anche a volerlo essere sarebbe impossibile non ammirare il lavoro appassionato e rispettosissimo di tutta la compagnia nel curare ogni minimo particolare della scena o del carattere dei personaggi, nel dare loro nuova linfa e caratteristiche originali senza mai tradire i  prototipi, nel districarsi in una trama complessa e contorta imponendo sempre agli spettatori la giusta attenzione, e mantenendo per tutta la durata un ritmo costantemente “andante mosso”, alternando con ammirevole equilibrio le risate, il dramma, l’azione, la riflessione, il grottesco e il tragico.

Per chi come il sottoscritto conosce a memoria tutto il “canone” holmesiano e anche diverse sue “derivazioni”, ritrovare ad ogni angolo citazioni (quella in testa all'articolo è solo una delle più celebri), reinterpretazioni originali dei suoi casi più famosi o dei suoi personaggi più celebri, reinvenzioni ad incastro di alcuni fra gli elementi estratti con arguzia dalle sue storiche avventure, è stato davvero un piacere continuo.

Occorre però, e con piacere, spendere qualche parola per i formidabili ragazzi che Luana mette sul palcoscenico ogni volta di fronte a prove sempre più ardite e che ogni volta le affrontano e le superano con uno spirito e una determinazione non da semplici allievi, ma da veri attori maturi e consapevoli.

Partiamo naturalmente da Sherlock, impersonato dal giovanissimo Matteo Cippitelli che ne riproduce brillantemente tutte le manie e le nevrosi. Imperdibili le sue espressioni di noia o di insofferenza quando qualcuno dice o fa delle cose che lui considera perdite di tempo (come disperarsi per la morte del proprio marito:-)). Francesco De Fabiani nei panni del fido dottor Watson contrappunta di continuo, a volte anche solo con una presenza apparentemente silenziosa (ma sempre spettacolarmente espressiva) l’ingombrante protagonismo del detective, regalandoci scenette di coppia a volte davvero esilaranti, come la lotta furibonda con la pistola dove uno tenta di sparare, e l’altro cerca di impedirglielo, alla noiosa e saccente esperta di api (Edith Cragwell), interpretata da una bravissima e giustamente inquietante Benedetta Bulgarini, lanciata in una prolissa spiegazione scientifica in stile SuperQuark (con puntuale colonna sonora sulla quarta corda).

Imponente, ironico e minaccioso al punto giusto, Gioele Testa incarna un azzeccato professor Moriarty, il nemico giurato di Sherlock, il “Napoleone del crimine”, dotandolo di un trasformismo e di una presenza scenica che restano impresse. Con lui, complici sotto svariate mentite spoglie, una scoppiettante Flavia Lepizzera (ormai una delle presenze più costanti e significative nella compagnia) che dà vita alla presunta moglie della prima vittima (Olivia West) per poi rivelarsi astuta e pericolosa antagonista del Nostro e poi finire infine vittima essa stessa del grande criminale, in alcune delle scene più drammatiche e al tempo stesso divertenti, e una brillante e luminosa Ludovica Gosti nei panni dell’ambivalente giornalista Kitty Riley, anche lei manovrata dal malvagio Professore.

Nel via vai rutilante di personaggi che ruotano intorno alla vicenda e invadono di continuo il mitico appartamento di Baker Street, l’impeccabile Sofia Porfiri, una perfetta signora Hudson, entra ed esce, spolvera e serve il tè, e soprattutto critica, commenta e bacchetta l’ingestibile detective come forse solo a lei, fin dai racconti originali di Conan Doyle, è permesso fare. E con lei partecipano al carosello Moira Ulisse alias Mary Morstan, una convincente futura signora Watson che cerca in ogni momento di riportare i due coinquilini agli aspetti più umani e quotidiani della vita e dei rapporti fra le persone; Sofia Patrignanelli che nei panni di Betty Lamotte materializza una seconda (stavolta autentica) fidanzata della vittima che contribuisce in modo determinante a rendere ancora più ingarbugliata la matassa da svolgere; Sofia Padoan che interpreta il medico legale Molly Hopper, delicata e gentile a dispetto della sua professione, determinante nell'analizzare i dettagli dei cadaveri e animata da un rapporto di amicizia e “quasi” affetto del tutto particolare con l’intrattabile Sherlock; Sarah Simeoni che nel ruolo di Sybil, enigmatico personaggio che sa e vede molte cose ma le dice sempre in modo obliquo tanto da necessitare sempre di interpretazione, apre la storia entrando in scena cantando “Scarborough fair” e regalando subito a tutta la storia la sua atmosfera ambigua e piena di ombre; e poi i tre simpaticissimi “irregolari di Baker Street”, Wiggins, Tom e Tam, rispettivamente Lisa Bertinaria, Pietro D’Annibali e Amira Degli Esposti, sguinzagliati per le vie di Londra a cercare indizi fra la spazzatura, personaggi degni delle migliori comiche britanniche (che infatti Luana fa muovere sulle note di una delle classiche melodie usate nei vecchi film di Chaplin, mostrando ancora una volta il suo sconfinato e giustificatissimo amore per il grande Charlie, altro nome illustre del nutrito elenco di geni inglesi del cinema e della letteratura). 

Una parola in più per la piccolissima Lisa, che nei panni di Wiggins prende su di se anche il compito di raccontare in appositi intermezzi i rimandi e i collegamenti principali con l’opera originale di Conan Doyle, dando vita a quegli aspetti didattici e di diffusione delle conoscenze a cui Luana non rinuncia mai in ogni suo lavoro.

Infine, una menzione quasi “d’onore” per due delle “veterane” del gruppo (e parlare di veterane per delle ragazze davvero giovanissime fa sempre un po’ sorridere) che ormai sono davvero una sola cosa con la loro autrice e regista e ne rappresentano spesso le complici più consapevoli e consolidate; Claudia Moroni, con la consueta e dominante presenza scenica, si cala nei panni del personaggio forse più originale, una Hannah Doyle (che omaggia col suo cognome il creatore di tutto questo universo), mai esistita nei romanzi ma che racchiude brillantemente in un unico carattere l’ufficialità di Scotland Yard e dei Servizi Segreti inglesi e l’ingombrante figura del fratello Mycroft (che è uno dei tanti colpi di genio di Conan Doyle), riproducendone l’invadenza, la superbia, l’intelligenza sottile, la visione ampia e diversificata della realtà, e il modo un po’ sprezzante di trattare Sherlock come fosse uno che gioca con problemi di poca importanza mentre questioni ben più cruciali urgono di essere affrontate; Gaia Piatti, che invece impersona una versione quasi onirica della mitica Irine Adler, di eleganza e ambiguità fatali, che ormai risiede stabilmente nei pensieri di Sherlock e quando si materializza in scena sembra ancora essere l’unica a riuscire a metterlo davvero in difficoltà, confondendolo inevitabilmente con un carico quasi insostenibile di fascino e di intelligenza emanati in egual misura.

Sherlock Holmes e il caso dell’ape tatuata - Carpe Diem – Teatro e altre arti
Non posso non concludere con alcune considerazioni che ritengo davvero importanti: il lavoro di Luana, continuo e incessante, mette in circolo e in comunicazione fra loro energie e conoscenze brillanti e mai banali. Per questo è un lavoro prezioso e vitale, e per questo va sempre sostenuto ogni volta che se ne ha la possibilità. In questo specifico caso, avendo seguito e in parte vissuto “real time” anche concezione e sviluppo di questo progetto non posso evitare di pensare a quanti e quali punti di partenza sparsi nel tempo e nel spazio (anche geograficamente molto distanti) si sono intrecciati e infine coagulati in ciò che abbiamo visto e vissuto in questo weekend di teatro. Per quanto mi riguarda ci sono cose che partono dalla lontana passione letteraria e dalla mia simbiosi fotografica con i luoghi che visitiamo io e Anna durante i nostri viaggi, c’è un viaggio a Londra, dove proprio Anna mi volle portare,  e un altro recentissimo in Svizzera proprio sulle tracce di Sherlock, ci sono confronti di opinioni e di immagini con Luana, e anche messaggi scambiati questa estate durante le riletture dei testi di Doyle, c’è il suo modo di guardare le mie foto e di trarne ispirazioni e soluzioni per le sue creazioni, e poi copioni in bozza su cui scambiare opinioni, e ci sono molte altre cose ancor meno tangibili ma assolutamente necessarie a far circolare le idee, a contaminarsi di continuo perché dall'unione, a volte anche dalla confusione, di tutti questi elementi sparsi possa poi coagularsi qualcosa di nuovo e di assolutamente originale, qualcosa che finisce per arricchire tutti quelli che ne vengono a contatto.

Arricchiti e consapevoli che, appena finito un gioco, ce n’è già un altro pronto a cominciare.

E allora andiamo, Watson!


Altre foto dell'evento qui


domenica 27 gennaio 2019

Il cinema a volo d’uccello

di Alessandro Borgogno

C’è un cinema che è nato, è stato pensato e realizzato per essere visto su un grande schermo, in una sala buia, fermi al proprio posto e senza distrazioni. 

È tutto il cinema nato e cresciuto prima del sonoro e poi proseguito fino all'avvento delle tecnologie che ne hanno permesso la visione anche con altri strumenti, in altri contesti e con altri ritmi (la televisione prima, poi le videocassette, i dvd, i blue-ray e ora qualunque supporto digitale online, in streaming, on demand, con visioni racchiuse in schermi sempre più piccoli, casalinghi, minimi e ridotti fino a quello di uno smartphone). 

Quel cinema non siamo più abituati a viverlo, perché quando andiamo a vedere un film appena uscito in una sala, si tratta di una pellicola ormai realizzata con le tecnologie di oggi e pensata sapendo che la sua fruizione si moltiplicherà su cento altri supporti. A nessuno più viene in mente di fare una inquadratura come le panoramiche di Sergio Leone con un personaggio piccolissimo in un punto laterale della scena, perché su uno schermo non abbastanza grande si rischierebbe di non vederlo neanche.

Alfred Hitchcocks - The Birds
Alfred Hitchcocks - The Birds
A questo cinema appartengono tutti i film di Sir Alfred Hitchcock, maestro indiscusso della settima arte, regista monumentale che non solo ha realizzato decine di capolavori, ma che del cinema moderno ha codificato, dettato e reso plasticamente evidenti le regole fondamentali, la grammatica e la sintassi, il senso stesso della visione e del suo significato.

Era quindi imperdibile l’occasione di vedere sul grande schermo, ridistribuito eccezionalmente a seguito del restauro audio e video delle copie originali (dal progetto “Il Cinema ritrovato” portato avanti dalla Cineteca di Bologna, visto a Roma al “Nuovo Sacher” di Nanni Moretti il 21 Gennaio 2019) il suo più colossale incubo visionario, raggiungimento delle più alte vette del suo cinema sia per il livello di suspense, sia per la spettacolarità delle scene, sia per la penetrazione psicologica dei personaggi.

Parliamo ovviamente de “Gli Uccelli”, pazzesca impresa creativa e produttiva datata 1963, vero testamento artistico di uno dei più audaci e consapevoli geni della storia della narrazione cinematografica.

Difficile parlare ancora di un film sul quale è già stato detto quasi tutto e del quale anche qui si è già parlato, ma la visione in sala, inchiodati alla sedia con lo schermo enorme di fronte e i suoni che circondano lo spettatore fino allo sfinimento, lo rende un film nuovo di zecca, come una prima visione, anche a chi lo conosce a memoria per averlo visto e perfino studiato decine di volte (ebbene sì, io sono uno di quelli).


Tippi Hedren - Gli Uccelli
Tippi Hedren
La prima menzione va obbligatoriamente a Tippi Hedren, e a come il maestro la riprende. Vista sullo schermo, enorme, la sua eleganza si moltiplica. Anche inquadrata da lontano non perdi mai un dettaglio delle sue movenze e delle sue espressioni. In una delle prime scene compone un numero di telefono usando una matita per girare il disco dell’apparecchio (telefono anni ’60, naturalmente) ed è di una sensualità quasi imbarazzante.

E poi l’audio originale (con sottotitoli, ma per chi conosce il film a memoria perfino inutili) ci fa finalmente ascoltare la sua voce. Limpida, intensa e armonica. E del resto tutti gli attori, per tutto il film, parlano un inglese pulito e comprensibilissimo. In barba alla verosimiglianza, anche l’ubriacone del bar si esprime in modo corretto e scandisce le parole perfino con una sua eleganza. Eppure nulla suona falso. Altri tempi, ma per nulla invecchiati.

La lingua originale ci permette inoltre di cogliere anche molte finezze che inevitabilmente nel doppiaggio si perdono, una delle più famose (ne discutono anche Hitch e Truffaut nella famosa intervista) riguarda gli uccellini in gabbia che attraversano tutta la storia, continuamente richiamati dai protagonisti col loro nome che in italiano sarebbe “Inseparabili” e tradotto (anche giustamente visto che il nome italiano avrebbe poco senso) semplicemente in “pappagallini”, ma che in inglese si chiamano molto più significativamente “Love birds”. E questo nome che diventa quasi un suono, “love birds”, risuona per tutto il film a fare da contrappunto anche sonoro sia utilizzato come doppio senso (a simboleggiare l’amore nascente o mancato fra i diversi personaggi) che come contrasto quasi sarcastico (tutti parlano continuamente di “uccelli d’amore” mentre tutto intorno altri uccelli scatenano tutto il loro odio). E tralasciamo anche le allusioni sessuali che sarebbero fin troppo facili.

Poi, già che si parla del suono, la colonna sonora. La visione al cinema amplifica e rende strabiliante una delle caratteristiche spesso dimenticate ma più clamorose del film: è totalmente privo di musica. Quasi portandoci a un realismo fuori dai canoni Hollywoodiani (non di oggi, ma di sempre) non c’è un solo momento del film che sia sottolineato da una qualsiasi melodia fuori campo. I suoni sono solo quelli delle scene che si susseguono, l’ambiente, le voci dei protagonisti, i rumori della cittadina e della natura, naturalmente le grida degli uccelli. Ma, come si sa, ciò non significa che il film non abbia una partitura, anzi ce l’ha proprio, dal primo all'ultimo secondo. Non a caso Bernard Hermann, storico compositore dei film del maestro, lavora anche qui come supervisore di altri due musicisti, Matthew Ross e Oskar Sala, perché tutta la colonna sonora e tutti i suoni sono progettati e applicati al film esattamente come le melodie di una sinfonia. Anche i silenzi (che infatti non sono mai semplice assenza di suono ma ronzii, deboli rumori, versi lontani) seguono uno spartito, hanno i loro momenti di adagio, di svelto, i loro crescendo, le loro pause. Un lavoro parallelo immenso e totalmente originale, che in sala si coglie in tutta la sua efficacia espressiva e narrativa.

The Birds storyboard
The Birds storyboard
Ancora, la maestria di Hitchcock (da ultimo grande maestro fra quelli nati col cinema muto, come amava ricordare Truffaut) si coglie appieno per tutta la prima parte del film laddove a fronte di pochi dialoghi molto densi ma anche spesso di circostanza, tutti i personaggi vengono presentati e analizzati nella loro più intima psicologia solo attraverso gli sguardi, i rapporti fra loro, i movimenti, il modo di inquadrarli, lo stato d’animo che la camera ci rivela costantemente, ancor più nei momenti in cui le loro parole dicono altro (un gioco in cui Sir Alfred aveva padronanza assoluta). Questo aspetto, forse ancor più delle grandi scene spettacolari, è uno di quelli che più ci guadagna nella visione al cinema. Uno sguardo obliquo, un lieve cambio di espressione che dura magari pochi fotogrammi, nella visione domestica e televisiva sono spesso destinati a perdersi (una distrazione, una telefonata, un oggetto della nostra stanza, un rumore fuori dalla finestra, lo spettatore che si alza un attimo per andare in bagno o per prendere qualcosa in frigo). Nella sala buia, inchiodati alla poltroncina, c’è solo il grande schermo. Nessun dettaglio si perde, e spesso sono dettagli sublimi.

Per gli stessi motivi anche momenti molto famosi e dei quali (quantomeno gli “esperti” o i fissati) conoscono ogni fotogramma, si rivelano amplificati e finalmente in tutta la loro genialità ed efficacia. Giusto per citarne uno, la scena in cui la madre di Mitch (una superba Jessica Tandy) arriva col pick-up alla fattoria di un suo vicino. Entra, vede le tazze rotte in cucina (associazione visiva diretta e folgorante con poche scene prima quando Hitch ci aveva mostrato, sempre mentre i dialoghi dicevano altro, il suo progressivo crollo psicologico nel raccogliere proprio i cocci delle tazzine nel salotto dopo l’invasione di uno stormo di passeri), scopre il proprietario ucciso in modo orribile dagli uccelli, fugge di corsa (tentando di urlare ma senza che le esca alcun suono dalla bocca, altra soluzione geniale e raggelante) risale sul furgoncino e corre via. 

Si sa, perché lo stesso Hitch lo racconta, che per questa scena fece bagnare la strada per l’arrivo del furgoncino in modo che arrivasse senza sollevare polvere. Questo gli ha permesso di riprendere la scena della fuga con la stessa inquadratura (da lontano) ma facendo sì che invece al momento di lasciare la fattoria il pick-up sollevasse grandi turbini polverosi dietro di sé. Con un transfert semplice, diretto e non equivocabile, anziché farci vedere un personaggio che arriva tranquillo e poi fugge in preda al panico, ci fa vedere un camioncino che arriva tranquillo e poi fugge agitato. Conoscevo questa scena a memoria (potrei disegnarla), ma vista sul grande schermo è davvero magnifica.

Nulla, ma proprio nulla, in più di due ore di film, è lasciato al caso, e ogni riferimento concettuale, visivo e anche simbolico nella visione in sala (che, non ci stanchiamo mai di ripeterlo, riporta il film nelle condizioni per cui era stato concepito e realizzato) risalta in modo inequivocabile: il tema dell’abbandono (Melanie abbandonata da piccola dalla madre, la madre di Mitch che ha il terrore di essere abbandonata dal figlio, la maestra a sua volta abbandonata da Mitch ma che non riesce a starne lontano); il percorso cristologico della protagonista da ricca sofisticata e viziata (“torna nella tua gabbia dorata, Melanie Daniels!” dice Mitch nella prima scena) al totale ribaltamento della sua condizione (lei finisce davvero in gabbia, nella cabina telefonica, circondata da uccelli che la attaccano) fino al martirio della scena finale; il celeberrimo tema della Visione (gli uccelli cavano gli occhi alle vittime, ogni scena si chiude con un personaggio che guarda “fuori”) del quale si coglie un dettaglio ancora più sottile grazie alla lingua originale, giacché i protagonisti dicono continuamente, e allusivamente, “capisco…”, che però in inglese è “I see”, e in questo modo con uno dei tanti doppi sensi che amava tanto il maestro londinese non fanno che ripetere “Io vedo”; l’incomunicabilità (i personaggi fra loro faticano a comprendersi per gran parte del film trovando forse i primi punti di contatto proprio al progredire dell’apocalisse, e in una delle tante scene madri gli avventori del ristorante non riescono ad avvisare l’uomo nel parcheggio del pericolo che sta correndo accendendosi un sigaro mentre scorre benzina sul piazzale); la frantumazione (dei rapporti, dell’equilibrio psicofisico delle persone, dei vetri, delle tazzine, perfino dei titoli di testa che si spezzettano al passaggio degli uccelli); e così via, si potrebbe proseguire per ore, ma tanto per non tralasciare uno dei temi di schiacciante attualità del film, il terribile momento in cui il terrore che attanaglia gli abitanti fuoriesce alla ricerca di un nemico e alfine identificandolo facilmente nello “straniero”, quando al ristorante la signora con i figlioletti terrorizzati esplode in una scena isterica accusando Melanie di tutto il male che li sta colpendo: “è colpa tua! È iniziato tutto da quando sei venuta tu! Tu non sei una di noi! Tu sei il male!”. E non c’è bisogno di dire altro.

Potter School - Bodega
Potter School - Bodega
Impossibile tuttavia non citare la scena della scuola, non fosse altro perché ne abbiamo anche già parlato più volte visto il “pellegrinaggio” sui luoghi del film.

Scena suntuosa che al cinema esplode in tutta la sua furia sinfonica: Overture, con Melanie che arriva alla scuola e poi si siede ad aspettare fuori vicino ai giochi dei bimbi; Adagio, con i primi piani di Melanie che fuma (alla faccia dell’attuale politically correct, come si potrebbe immaginare questa scena senza la sigaretta di Tippi?), la cantilena dei bambini che arriva attutita dalla classe, i corvi che iniziano a radunarsi dietro di lei; Crescendo, con la suspense tipica del maestro che si esprime con la progressione irregolare di un corvo, tre corvi, cinque corvi, dieci corvi e poi… ; Colpo di piatti (citazione per citazione) improvvisamente cento corvi!; Sospensione (suspense); Melanie entra a scuola, avvisa la maestra, la classe si prepara a uscire per scappare, i corvi sono fermi in silenzio; Presto, si sentono i passi dei bambini che iniziano a correre, i corvi si alzano improvvisamente tutti insieme e quel punto la sinfonia esplode con tutti gli strumenti in campo: la corsa dei bambini, l’attacco dei corvi, le urla, le grida degli uccelli, la violenza, il dettaglio degli occhiali rotti di una bimba sull'asfalto (dettaglio Ėjzenštejniano, e nuovo richiamo al tema della “visione”). 

Un incubo orchestrato alla perfezione. 

Non si finirebbe più ma almeno un’altra scena merita una menzione speciale, perché vissuta (non vista, vissuta) in sala raggiunge dei livelli quasi insostenibili. 

L’ultimo attacco alla casa, mentre i protagonisti sono tutti dentro (di nuovo in gabbia) barricati per resistere. L’attacco è totalmente sonoro, decisamente ispirato agli attacchi aerei della seconda guerra mondiale, ma la messa in scena e i suoni al cinema sono un attacco deliberato e prolungato ai sensi (e ai nervi) dello spettatore. Ma non bastasse questo, la camera inquadra le vittime con una precisione entomologica mentre si muovono alla ricerca di un riparo da una minaccia che non si vede. Per fare questo Hitch li riprende sempre con molto spazio davanti a loro (e sullo schermo lo spazio vuoto diventa enorme), per non farci mai dimenticare che stanno cercando di nascondersi da qualcosa che non c’è, e in questo modo ci mostra come non abbiano alcuna possibilità di mettersi in salvo. Non ci si nasconde da un suono, in qualunque angolo si tenti di accucciarsi. I loro movimenti sono senza senso, e il regista ce lo mostra senza alcuna pietà. Quella scena, inchiodati sulle poltrone del cinema (eguagliata in identificazione e disagio dello spettatore solo dalla scena madre de “la finestra sul cortile”) raggiunge livelli di partecipazione allucinanti. Si trema anche se la si conosce a memoria, salgono i brividi anche se sai già come andrà a finire, vorresti scappare ma non puoi, esattamente come loro.


La baia di Bodega Bay
La baia di Bodega Bay
Ultima nota doverosa per lo straordinario direttore della fotografia, Robert Burks
Fedele complice dei deliri visivi del genio londinese, lo ha seguito e assecondato con la sua maestria fin dal 1951 (con “L’altro uomo – Strangers on a train”) firmando un elenco di titoli che fa impressione: “Il delitto perfetto” (1954), “La finestra sul cortile” (1954), “L’uomo che sapeva troppo” (1956), “Il ladro” (1956), “La donna che visse due volte” (1958), “Intrigo internazionale” (1959), “Gli uccelli” (1963), “Marnie” (1964).  Per quei film, e per le esigenze di un regista come Hitchcock che ad ogni girato inventava cose nuove, occorreva continuamente trovare delle soluzioni per illuminare scene in teatro di posa che poi venivano montate con sfondi o altri trucchi per diventare scene all'aperto.

Virtuoso di posizionamento e diffusione delle luci, ricreare in modo artificiale la luce naturale del giorno era uno dei suoi “passatempi” preferiti. Se si guarda con occhio attento molte di quelle scene, ci si accorge (e non sempre) di quante siano le situazioni in cui si passa da una luce artificiale ad una naturale senza che quasi se ne abbia percezione o in quanti casi nella stessa immagine siano combinate insieme parti di diverse inquadrature riprese in condizioni completamente differenti (solo “Intrigo internazionale” è un luna park di piccoli trucchi ed effetti che per la gran parte sfuggono all'occhio proprio grazie alla capacità di Burks di uniformare la luce). 

Ma naturalmente è qui, nella follia de “Gli uccelli”, che raggiunge la sua vetta, e la visione in technicolor sullo schermo ce ne dà tutta la grandezza. “Gli uccelli” è un film pazzesco realizzato in un momento storico in cui era sostanzialmente impossibile realizzarlo. Un’impresa sbalorditiva sotto tutti i punti di vista (espressivo, tecnico, narrativo) che solo un regista come Hitchcock poteva intraprendere e solo un autore fotografico di pari genio e competenza poteva seguire assecondandolo e trovando ogni volta le soluzioni più adatte. Ogni trucco, ogni trovata fotografica e cinematografica utilizzata per quel film è stata inventata in quella occasione, per la prima volta (perfino l’utilizzo di cartoni animati sovrapposti a riprese reali, grazie alla consulenza di un altro grande, Ub Iwerks, genio dell’animazione proveniente direttamente dagli studi Disney). Elencarle tutte sarebbe impossibile, anche se non si può non citare la ripresa dall’alto di Bodega Bay mentre divampa l’incendio con i gabbiani che compaiono riempiendo piano piano lo schermo. È più di una ripresa “a volo d’uccello”. È, per la prima volta, “il punto di vista degli uccelli”.

La scena finale
La scena finale
E naturalmente a chiudere una “visione” così totalizzante da riempire la sala, esplode in tutta la sua magnificenza l’ultima inquadratura del film (un quadro che da solo potrebbe essere analizzato per la luce e per la composizione spendendoci settimane di discussione, e la cui importanza è già abbastanza evidenziata dalla scelta di Hitch di non far comparire neanche la scritta “The End” al termine del film, altra novità assoluta per l’epoca): un quadro vivente composto montando insieme decine di inquadrature diverseMai come sul grande schermo risulta evidente la celebre definizione dei critici Bruzzone e Caprara: “La magnifica atmosfera impressionista della scena finale cos'altro è se non l’incubo del Giudizio Universale tradotto in luce?

Lo so, siamo di parte ed esageriamo, volontariamente e coscientemente, perché siamo convinti che sia giusto farlo: la visione de “Gli Uccelli” di Alfred Hitchcock al cinema, sul grande schermo nella sala buia, è qualcosa di più della semplice visione di un grande film. È un’esperienza fuori dal comune.

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mercoledì 18 aprile 2018

Primavera digitale

Sono andata a vedere “Ready Player One” ultimissimo film del creatore di storie e sogni Steven Spielberg che sembra presentarci l’ennesima variazione sul tema del futuro distopico (e assai vicino, 2045) mettendo in scena una fuga dalla realtà totalmente tecnologica che si concretizza in un universo virtuale chiamato “OASIS”.

Quella che sembra (e in parte è) una brillante e divertente disamina dei pregi e i difetti del distacco dalla realtà ben presto si rivela anche per qualcosa di molto più sottile e dissacratorio: una carrellata pressoché infinita di citazioni e riferimenti alla cultura pop degli anni ‘80 e ’90: videogiochi, film, fumetti, disco-music e hard rock e chi più ne ha più ne metta. Nel fare questo, e affidando proprio alla conoscenza minuziosa di queste “arti minori” le soluzioni per risolvere il dramma di tutta la vicenda e del mondo intero, ci suggerisce di continuo che la cultura personale, il background, i riferimenti storici di ognuno di noi possono avere un valore estremamente alto, come del resto predicava spesso Umberto Eco (che miscelava anche nelle sue più dotte elucubrazioni i romanzi di alta letteratura ai fumetti più popolari, le considerazioni psicologiche e sociologiche più acute alle strisce dei Peanuts).


OASIS come XANADU?

Quarto potere, uno dei più grandi capolavori della storia del cinema inizia e finisce, con scene di straordinaria tecnica ed atmosfera, su un edificio che rappresenta e simboleggia aspetto, mole e personalità del protagonista della storia.

Come Charles Foster Kane è ispirato alla figura del miliardario William Hearst, così la sua principesca residenza chiamata Candalù (Xanadu in originale) altro non è che l’assurdo e fiabesco Hearst’s Castle, ancora esistente e visitabile sulle colline che dominano la costa californiana vicino Los Angeles. Ciò che Orson Welles fa di Xanadu, oltre ad usarla come sfondo di molte scene fondamentali, è presentarla letteralmente come la proiezione dell’ego e della multiforme personalità del suo ingombrante protagonista (interpretato da lui stesso, quindi volutamente ingombrante anche nel fisico). 
Il Castello enorme e labirintico diventa metafora fisica delle molte anime psicologiche di Kane, i saloni immensi e i corridoi infiniti rappresentano plasticamente l’inaccessibilità e l’incomunicabilità che via via prende possesso della sua vita e dei suoi rapporti umani.

Ecco. Proviamo a ripensare Charles Foster Kane come un nerd dei nostri giorni e avremo James Halliday e il suo mondo virtuale a cui chiunque può accedere, purché in possesso di visore e guanti aptici: OASIS parte da Orson Welles e arriva fino a Spielberg - passando per Kubrick e l’ Overlook Hotel - che a sua volta ricostruisce mondi dove i fantasmi diventano concreti e il virtuale e il reale diventano un tutt'uno.



www.danielbrowns.com
Credits: www.danielbrowns.com
E quando Samantha e Wade finalmente si incontrano nella vita reale, Janusz Kaminski  li inquadra nell'orto realizzato sul tetto di una Ville Planète ad alta intensità urbana - Columbus, Ohio, 2045 ma potrebbe essere il Bronx o la Banlieue - come due studenti qualunque della scuola di Stephen Ritz in attesa di una primavera che sembra non voler arrivare. 

E non so se dipende dalla nostra impazienza, o se il tempo delle stagioni è diventato un altro, se è diventato il tempo di Pinterest o di Instagram: è primavera quando nei nostri feed compaiono fiori di pesco e prati di margherite gialle, quando compaiono immagini che cercano di avvicinarsi alla realtà con la post produzione, e viene allora da chiedersi come sarà la stagione della rinascita per tutti i Wade e le Samantha, i Parzival e le Art3mis  cresciuti in metropoli iperconnesse e con un immaginario fatto di pixel.

Tecno-creatori di fiabe digitali

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Credits: www.danielbrowns.com
Poi ci fu quella volta che la tecnologia dei tubetti per i colori aiutò i pittori impressionisti ad afferrare il brivido della luce che cambia, perché permetteva di dipingere en plein air…

In ogni epoca, gli artisti hanno sempre usato i mezzi del loro tempo. Il pixel è l’equivalente moderno della pennellata. Mi sono ispirato anche dal design e dalla ricerca scientifica. Le mie fonti si trovano nella storia dell’arte. Le mie opere digitali proseguono lungo le linee della storia dell’arte del XIX e XX secolo. Molti artisti come Georges Seurat, Paul Cézanne o Claude Monet nel XIX secolo o Piet Mondrian, Victor Vasarely, Andy Warhol, Luciano Fontana, Yves Klein, o Nam June Paik nel ventesimo secolo, sono stati visionari e innovatori nel campo della pittura e non solo. Attraverso le loro varie indagini pittoriche e i loro approcci intellettuali, questi artisti, in un certo senso, per me prefigurano la Digital Art. (Miguel Chevalier)

E poiché mai si parte da una tela completamente bianca, sono i riferimenti che ognuno di noi coltiva per tutta la vita a creare il nostro paradiso artificiale, i nostri profeti e giardinieri

Un paradiso in cui la natura è un’altra cosa: è primavera digitale, è fiaba tecnologica, è Fractal Flowers, è Ultra-Nature, è Trans-Nature, è una nuova estetica che mescola arte e scienza, vita e morte, pixel con materiali, e abolisce ancora una volta i confini tra reale e virtuale per “liberare l’arte (l’uomo?) da ogni costrizione fisica, per trascendere i limiti della società contemporanea” e perché no, dell’Anima Mundi.


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giovedì 19 gennaio 2017

Rubens e il bandolo della matassa

Le donne provano la temperatura del ferro da stiro toccandolo. Brucia ma non si bruciano. Respirano forte quando l’ostetrica dice “non urli, non è mica la prima”. Imparano a cantare piangendo, a suonare con un braccio che pesa come un macigno per la malattia, a sciare con le ossa rotte. Portano i figli in braccio per giorni, in certe traversate del deserto, dei mari sui barconi, della città a piedi su e giù per gli autobus. Le donne hanno più confidenza col dolore
(Concita De Gregorio, Malamore)


Mia nonna Restituta è nata nel 1927 in un piccolo paese rurale del centro Italia.

Un paese povero, sottosviluppato e analfabeta del primo dopoguerra.

Seconda di sette tra fratelli e sorelle, è sempre stata una donna di eccezionale modernità ed altrettanto cieco bigottismo.

Bellissima, grandi occhi verdi, lunghi capelli neri raccolti in trecce e chignon, giunonica e prosperosa quanto bastava per metterla fin da subito nei guai, si innamora, poco più che adolescente, di un ragazzo più grande e, colpa ancora peggiore, “di passaggio”.

Mia nonna Restituta ha una sorta di “solco” sulla schiena, ancora molto evidente nonostante vada ormai per i novanta, dovuto ad un’operazione subita quando era molto giovane. Il padre aveva picchiato così forte che avevano dovuto portarla in ospedale.

Qualche volta mi capita di aiutarla a fare il bagno. Strofino più forte in quel punto, quasi potessi lavare via il dolore e l’onta.

Arriviamo ad Anversa in treno, una fredda mattina di novembre.

Attraversiamo velocemente il Grote Markt, cercando riparo dal vento nelle navate di Nostra Signora. La Cattedrale di Anversa, esempio fiammeggiante di Gotico Brabantino, conserva al suo interno un trittico di Peter Paul Rubens: L’elevazione della Croce.

Il dipinto è molto grande, incombe quasi nella parte centrale, ma è da uno dei pannelli laterali che non riesco a staccare lo sguardo e non a causa dell’influenza degli artisti italiani del rinascimento, ma per il gruppo di donne che raffigura in primo piano. 

Le donne della pala di sinistra diventano improvvisamente me, mia nonna, le mie sorelle, le mie amiche, mia madre, tutte le donne del mondo. Annaspo di fronte al mio disagio, alla grandezza dell’artista e alla consapevolezza di quanto è lunga la strada davanti e dietro di noi.

Noi donne piegate o in ginocchio, in adorazione. Noi che offriamo il seno per sfamare il figlio che a volte colpisce, a volte uccide, a volte soccombe. Noi che non smettiamo di lasciare tracce seppur rubate e di sorridere e di amare di nuovo. Noi che abbiamo confidenza con il dolore, il sopruso, l’ingiustizia, l’umiliazione. Noi ridotte al silenzio con la forza, colpite senza pietà, esposte come trofei, comprate, segregate, stuprate, abusate, adorate come madonne. Noi bambole di gomma, giocattoli da trastullo.

Noi che qualche volta preghiamo e qualche volta strofiniamo più forte.
Peter Paul Rubens, L'elevazione della Croce - particolare (Cattedrale di Anversa)
Peter Paul Rubens, L'elevazione della Croce - particolare (Cattedrale di Anversa)

Peter Paul Rubens, L'elevazione della Croce - Cattedrale di Anversa
Peter Paul Rubens, L'elevazione della Croce - Cattedrale di Anversa


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domenica 18 dicembre 2016

Il genio, l’architetto e il senso del non

Questo itinerario, o passeggiata, o racconto, è pronto da molti anni.
Forse addirittura
dall'anno dei miei esami di maturità, quando una tesina sulle piazze, i palazzi e le fontane di Roma mi portò a guardare meglio e con la dovuta attenzione i capolavori barocchi sparsi per le strade della mia città. 
(Alessandro Borgogno, Il Genio e l’Architetto)


La Roma degli anni ottanta che faceva capolino dalle parole e dagli schizzi di un ragazzo che ne percorreva le strade e le piazze con un blocco da disegno e un’idea in testa, doveva sembrare gloriosa e degna di essere celebrata. 
Il genio e l'architetto - Alessandro Borgogno, L'erudita
Il Genio e l'Architetto

Di acqua sotto i ponti (e per le fontane di Roma) ne è passata parecchia nel frattempo ma il ragazzo percorre ancora su e giù le strade strette, i colli, i vicoli, le torri della sua città, e forse deve sembrargli che non sta invecchiando bene, che è un po’ appannata, come gli schizzi conservati nel suo quaderno da disegno, eppure l’amore che li lega è ancora intatto e conserva tutta la purezza di quegli anni.

Questo libro è dunque prima di tutto una dichiarazione d’amore. Anzi più di una: per Roma e per l’Arte.

Perché il ragazzo con il quaderno da disegno scopre un giorno che le strade possono essere digitali, scopre la bellezza nell’ipertesto e poggia, per un attimo, la matita. E allora davvero la passione resta racchiusa nel pulviscolo di un’aula di un liceo che non esiste più, ammantata dall'incanto del ricordo. Finché un giorno, il ragazzo con il quaderno da disegno, si sveglia uomo al tempo del “non”.
Palazzo Barberini
Palazzo Barberini

Questo tempo, il tempo del non, è segnato da confini sfumati in cui esistono non mamme o non mariti,  in cui il non è diventato accezione positiva (non contiene olio di palma), in cui è necessario soprattutto rassegnarsi ai non ruoli. È un nuovo mondo mediceo, un nuovo rinascimento in cui la storia dell’arte la riscrivono gli informatici e l’informatica la riscrivono gli studenti di storia dell’arte, perché gli schizzi sui loro quaderni  sono il filo di Arianna che li guida nei nuovi labirinti.


E allora incontriamo, riaffiorate nelle parole di questo libro, la Fontana del Tritone, un busto di una bellezza scultorea, sul quale scorre prepotente e continua l’acqua di Roma, quella che arriva dagli acquedotti e sgorga al centro della città attraverso le mille aperture che mille scultori, e lui più di ogni altro, le hanno modellato attorno; la Fontana delle Api, piccolo gioiello di misura e fantasia, enorme conchiglia aperta all'interno della quale si raccoglie l’acqua, e sul suo bordo sono ad abbeverarsi delle api, simbolo ricorrente della famiglia Barberini; l' Estasi di Santa Teresa, scultura magnificamente complessa che si fonde con la scenografia e con le forme architettoniche delle volte e delle lanterne da dove la luce dorata entra a trafiggere e a sceneggiare in eterno l’irruzione dell’illuminazione divina; Sant’Andrea delle Fratte, che si innalza schiudendosi e richiudendosi come una enorme pianta carnivora che abbia appena ghermito un insetto; Sant’Ivo alla Sapienza, che si attorciglia nel cielo in una spirale destinata a non chiudersi mai; e poi ancora Apollo e Dafne,  San Carlo alle Quattro fontane, Sant’Andrea al Quirinale, Palazzo Montecitorio, L'Oratorio dei Filippini, L'Elefante Obeliscoforo, La Basilica di San Giovanni in Laterano, Piazza San Pietro, La Galleria prospettica di Palazzo Spada, San Giovanni Battista dei fiorentini, Santa Maria Maggiore…
Fontana del Tritone
Fontana del Tritone

Bernini, scrive l’autore, è prima di tutto uno scultore e Borromini è prima di tutto uno scenografo” ed è probabilmente per questo che continuano ad essere i protagonisti immortali di questa Roma Barocca.

I puristi della cultura potrebbero non essere d’accordo ma in fin dei conti direste che la Cappella Sistina era meglio che la dipingesse un pittore e non uno scultore? ;-)
Fontana dei Fiumi - Piazza Navona
Fontana dei Fiumi - Piazza Navona



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