mercoledì 24 febbraio 2016

Canta il giallo: l’amaro caso della Baronessa di Carini

di Alessandro Borgogno

C’è una straordinaria storia siciliana che merita di essere raccontata.


L'amaro caso della Baronessa di Carini - Cartellone del Cantastorie
La storia è straordinaria soprattutto perché è un esempio quasi unico di come a volte l’arte, quella più popolare, quella della musica, delle canzoni e della poesia, possa sostituire e addirittura riempire i vuoti che la storia ufficiale, colpevolmente e consapevolmente, cerca a volte di nascondere con tutti suoi mezzi.

La storia parte nel 1500, per la precisione nel 1563, in piena Sicilia feudale. Uno di questi feudi è Carini, vicinissimo a Palermo, dove regna il Barone Vincenzo La Grua, della potente dinastia dei La Grua-Talamanca. Per i classici motivi di convenienze politiche e dinastiche, al Barone viene data in sposa, ancora quattordicenne, la bellissima donna Laura Lanza di Trabia, figlia del potente Barone Cesare Lanza.

Dopo aver onorato il matrimonio con anni di fedeltà e molta prole, la bella Baronessa alla fine cede alla passione vera e non imposta, iniziando una relazione con un bel cavaliere del quale è innamorata fin dall'infanzia, Lodovico Vernagallo, del vicino feudo di Montelepre.

Gli eventi precipitano il 4 Dicembre del 1563. Laura e Lodovico si incontrano segretamente nel Castello, ma qualcuno li sorveglia da tempo. Un infamissimo frate, imboccato dal Barone Vincenzo - marito cornuto e anche vigliacco - corre a Palermo ad avvertire Don Cesare Lanza, il feroce padre di Laura.

Cesare parte con i suoi cavalieri alla volta del Castello di Carini, irrompe nelle stanze e uccide senza pietà la propria figlia, per leso onore del casato. Poi fa inseguire dai suoi 'picciotti' il Vernagallo in fuga e fa uccidere anche lui.

Questa è la storia, più o meno nuda e cruda. Inevitabile che a questa si sovrappongano varie leggende, fra le quali la più suggestiva è quella dell’impronta della mano insanguinata della baronessa su un muro del castello, che per secoli tornerà a farsi vedere ad ogni anniversario dell’atroce delitto.

Ma questa storia, così come ve l’ho raccontata, si è potuta accertare con relativa sicurezza solo da pochi decenni.

E’ accaduto infatti che subito dopo l’infame omicidio, il Barone di Carini e quello di Trabia avviarono una sistematica azione di occultamento e, diremmo oggi, depistaggio, facendo sparire documenti, mettendo a tacere voci scomode e, grande elemento di modernità, pagando adeguatamente storici e “giornalisti” dell’epoca per tramandare versioni di comodo.

Così per secoli non si è riuscito a capire davvero né chi fossero i protagonisti della vicenda, né se il vero assassino fu il padre il marito o altri ancora, né chi fosse realmente la baronessa uccisa, né se il Vernagallo fosse stato anche lui trucidato oppure fosse fuggito. Lo stesso Castello di Carini, nei secoli, fu abbandonato dagli eredi e lasciato all'incuria e alla decadenza.

La voce popolare

Ciò che però ha continuato a viaggiare nei secoli portando con sé la verità storica, è stata la voce popolare. In particolare un poemetto lirico in dialetto siculo composto da un anonimo contemporaneo alla vicenda, fortemente colpito dall'accaduto e dalla risonanza che aveva avuto in tutta la Sicilia al momento degli accadimenti (Piange Palermo, piange Siracusa). E non potendo essere scritta in documenti ufficiali, ha continuato a resistere per cinque lunghi secoli tramandata dai cantastorie ('cuntastorie'), quelli che giravano per i paesini con qualche strumento e con tabelloni disegnati - i fumetti dell’epoca - per diffondere e raccontare le storie più belle e più drammatiche.

E a partire dall'ottocento, con l’avvento di storici moderni e di ricercatori di etnomusicologia, la canzoncina popolare ha cominciato ad essere riscoperta e studiata e si è accertato che conteneva molte più verità storiche di qualunque documento esistente. 

Il professor Salomone Marino, in particolare, ne raccolse in giro per l’Italia quasi quattrocento versioni diverse, e con un lavoro immenso iniziò a fare luce sugli elementi che indubitabilmente concordavano con fatti e personaggi realmente esistiti. 

In giro per l’Italia perché lo splendido poema ha varcato i confini dell’isola per arrivare anche a Napoli, dando vita ad una delle ennesime versioni che ora è anche uno dei più classici pezzi della tradizione partenopea: “Fenesta ca lucive e mo’ nun luce” ("Finestra che splendevi e ora non splendi"). E il merito di averne fatto una versione quasi moderna, magari non filologicamente ineccepibile ma meritoria di uscire finalmente dalla ristretta cerchia degli studiosi, va ad Otello Profazio, cantante folk di origine calabrese degli anni Sessanta, che ne ha tra l’altro ritrovato la musica proprio in un paesino della Calabria, da un altro cantastorie. Infine, ma siamo proprio agli ultimi anni, un paio di documenti ufficiali ritrovati in Sicilia e in Spagna (regno cui rispondeva il Baronato) hanno definitivamente dato la certezza che su questo giallo cinquecentesco la canzone popolare, e solo lei, diceva la verità: il Barone Cesare Lanza uccise a sangue freddo la figlia Laura Lanza di Trabia, su istigazione del marito Barone di Carini Vincenzo La Grua. E uno dei suoi sgherri, tale Musso, uccise anche il Vernagallo in fuga.

Riportiamo qui il testo di uno dei documenti, davvero notevole nel linguaggio e nel significato, nel quale l’assassino, Cesare Lanza di Trabia, scrive al re di Spagna, Filippo II, per discolparsi del delitto della figlia:

Sacra Catholica Real Maestà, 
don Cesare Lanza, conte di Mussomeli, fa intendere a Vostra Maestà come essendo andato al castello di Carini a videre la baronessa di Carini, sua figlia, come era suo costume, trovò il barone di Carini, suo genero, molto alterato perchè avia trovato in mismo istante nella sua camera Ludovico Vernagallo suo innamorato con la detta baronessa, onde detto esponente mosso da iuxsto sdegno in compagnia di detto barone andorno e trovorno detti baronessa et suo amante nella ditta camera serrati insieme et cussì subito in quello stanti foro ambodoi ammazzati.

Don Cesare Lanza conte di Mussomeli”.

Lo sceneggiato televisivo

L’amaro Caso della Baronessa di Carini è uno sceneggiato televisivo realizzato e trasmesso dalla RAI in quattro puntate nel 1975, periodo televisivo prolifico e creativo come mai più. 

Una sceneggiatura assolutamente geniale sposta la vicenda ai primi dell’ottocento, dando modo di raccontare il periodo di transizione e conflitto fra il feudalesimo e il regno d’Italia, e in cui il delitto del cinquecento diventa un episodio del passato scomodo da ricordare e così intriso di significati anche politici da giustificare ogni nefandezza pur di tenerlo ancora nascosto, ancora a tre secoli di distanza, e immergendo così i protagonisti e discendenti in un’atmosfera di predestinazione e quasi di reincarnazione storica. 

Elegantissima regia di Daniele D’Anza, ottime prove d’attore di Ugo Pagliai nel suo periodo d’oro, di Adolfo Celi nella sua versione più gelidamente mefistofelica, di Janet Agren al massimo del suo splendore, e di un Paolo Stoppa narratore contrappuntista assolutamente fantastico. Titoli di testa in cui echeggiava, in una versione assai semplificata ma di forte impatto, la ballata della Barunissa cantata in siculo da un ispiratissimo Gigi Proietti.

Il castello di Carini

E infine,  il castello, visitabile in molte stanze e anche nella cappella interna: oltre ad essere un magnifico maniero, è un luogo che come nessun altro riesce a restituire l’atmosfera delle corti cinquecentesche, comprensive delle loro infinite trame di intrighi, passioni e atroci delitti.
Sicilia, Castello di Carini

Sicilia, Castello di Carini
Sicilia, Castello di Carini

Sicilia, Castello di Carini


Sicilia, Castello di Carini

P.S. Negli approfondimenti la trasposizione in prosa del poema popolare della Baronessa di Carini e l’originale in vernacolo siciliano.

Questo articolo è stato pubblicato anche su Parolae
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venerdì 19 febbraio 2016

Il verde altrove: l’edificio foresta di Chiabrera e i confini sfumati

È spiacevole che al grido della palingenesi: “Natura, natura!” (nel qual grido si colgono per altro toni giustissimi) certuni abbian ricusato di prendere a considerare con serenità i fenomeni dell’artificio o vita meccanica. Una centrale telefonica automatica; una stazione radio; un palcoscenico moderno costituito dalle più artificiose disposizioni meccaniche, fotogenetiche, elettriche: non sono men reale natura che il sulfuroso vulcano, o l’arido greto del torrente, o lo sterco delle bestie quadrupedi, o bipedi. Quei fatti della invenzione son fatti e sono dunque natura: ché la mente disegnatrice è natura e la storia degli uomini tutta è natura (Carlo Emilio Gadda - Meditazione milanese).


Quando decisi di aprire questo Blog ne avevo per prima cosa ben definito il perimetro all'interno di poche specifiche categorie. Per aiutare il lettore a riconoscerle il nome della categoria faceva parte del titolo del post ad evocare immaginazione, contaminazione e racconti collocati altrove, in luoghi fuori dall'ordinario: del resto le storie che ci somigliano raccontano di quelli che cambiano le regole.

Nel giro di qualche mese il confine è sfumato, le parole hanno cominciato a fluire liberamente e anche la categorizzazione è naturalmente scomparsa dal titolo mentre il luogo dove nascono le storie continua ad essere l’ universo metropolitano, del resto “La città è lo spazio romanzesco per eccellenza”.

Sarà tuttavia che il cemento non piace a nessuno. Sarà per quel grigio polveroso che bisogna imbellettare con grandi vetrate, rivestire di pietra, mischiare con il legno, ammantare di riflessi e di verde.

E proprio il verde sembra essere per gli abitanti delle nostre città l’unica ancora di salvezza, l’illusione della natura, la botte piena e la moglie ubriaca, il tutto sotto casa a portata di mano e  il guerriglia gardening, il tetto verde, l’orto collettivo, il riuso creativo, il bosco verticale, i giardini in terrazzo, le corti nascoste, il salotto verde sul balcone, il bosco sociale, la bicipolitana (anche Marc Augé salì un giorno in bicicletta).

Al 25 verde

In una mattinata d’inverno non troppo fredda appare Torino con il suo cielo grigio e la quiete dell’ora presta. Vado di nuovo alla ricerca di alberi, stavolta in via Chiabrera a pochi passi dal Parco del Valentino e dal Centro Storico Fiat.

Alberi di Cor-ten e stanze di un edificio-foresta che hanno richiamato l’attenzione a livello nazionale ed internazionale. Un blocco a corte interna di circa 60 appartamenti (11.500 mq di cui 4.000 di terrazzi e tetti verdi).

L’idea all'architetto Pia dev'essere venuta pensando a Maometto: se non si può costruire una casa nel parco, si può sempre portare il parco in casa. Così in copertura verde pensile, in facciata verde verticale, in mezzo all'edificio un giardino, sui balconi grandi fioriere. E poi l’uso di tecnologie innovative volte al risparmio energetico e a garantire un basso impatto ambientale: isolamento termico (cappotto, serramenti), regolazione del comfort, raccolta dell’acqua piovana ed economizzatori...

John Dewey ricordava negli anni venti che il termine greco techne indica quel che poi verrà chiamato arte: la tecnica pensata  nella continuità fra opere della natura e opere dell’uomo, fra il poiein del mondo fisico-biologico e il produrre della tecnica umana, perchè per colorare un mondo grigio servono espedienti tecnici, funzionali, compositivi ma servono soprattutto confini sfumati.


25 verde

25 verde

25 verde

25 verde


Per approfondimenti:

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mercoledì 10 febbraio 2016

Di scrittura contemporanea, di scrittori e farfalle

Ieri parlavamo di scrittura, di come è cambiata con il digitale, di come scrivere per la carta non è lo stesso che scrivere per il web, di come scrittori e scrittura stanno evolvendo. 

Eh, lo so, c'è chi il tema lo ha affrontato nel secolo scorso, o almeno a partire dal 1996:-) ma è pur sempre attuale. 

Nell'immaginario di molti chi scrive se ne sta chiuso in una sorta di tempio, al più in una soffitta di Montparnasse, in perfetta solitudine, nell'attesa che si compia il miracolo. 

Andiamo in giro per il mondo a visitare le case di scrittori, guardiamo con riverenza la scrivania di Balzac,  la sedia di Victor Hugo, ci lasciamo affascinare dal racconto delle matite di Simenon buttate in un cassetto dopo tre o quattro temperate, lo immaginiamo rinchiuso nel suo studio nei momenti di maggiore furore creativo, dedito unicamente all'attività febbrile di cogliere il refolo, di afferrare il vento.

Poi arrivano le farfalle.  

Vi è mai capitato di entrare in una voliera con le farfalle? Ecco. Immaginate la sensazione: voi immobili e intorno mille ali colorate. Se vi muovete, con calma e circospezione, una parte dello sciame vi segue. 

Le farfalle sono il tempo della scritturaquesto tempo, il nostro, il contemporaneo. Sono il mondo colorato e multiforme che circonda le parole nella voliera: questo blog,  un post sui social, il la che arriva da un commento, un tweet,  un'immagine, un suono o tutto quanto insieme. 

Un giovanissimo scrittore che conosco ha casualmente eliminato un centinaio di pagine che stava scrivendo ma le ha recuperate perché le aveva mandate, tutte, man mano che scriveva a una amica su WhatsApp. Pensereste mai che Salinger potesse affidare i suoi scritti a un lettore prima della parola fine?  Eppure…

La metafora delle farfalle è il mio senso della scrittura: per la loro storia evolutiva, perché portano con sé la magia del cambiamento, perché rappresentano una delle specie più numerose,  perché sono soggetti della natura e oggetti della cultura, perché non puoi afferrarle senza ferirle o ucciderle. 

Le parole in fondo sono sempre le stesse, molti racconti sono già dentro di noi, la differenza tra scrivere per il digitale e scrivere per la carta sta forse nel fatto che un tempo le farfalle bisognava immaginarle, oggi sono tra noi, basta cercarle, averne cura, non averne paura. 

In fin dei conti perfino Hemingway, che scriveva seduto al tavolino di un bistrot, potrebbe essere stato uno dei primi social writer e forse anche lui vedeva le farfalle.

Maison de Victor Hugo, Paris
Maison de Victor Hugo, Paris




Di farfalle abbiamo parlato anche qui

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venerdì 5 febbraio 2016

Signora, non si possono fare fotografie

La signora del titolo sono io, al Museo dell’Ara Pacis, in fila per Toulouse-Lautrec. 
Comincio subito con una sottile vena polemica e chiedo se per “sconto famiglia” s’intende: mamma-papà-bambino… Ottengo una riduzione di due euro perché pago con una Mastercard.

In mostra la collezione del Museo di Belle Arti di Budapest che comprende manifesti, illustrazioni, copertine di spartiti e locandine, alcune delle quali, recita uno dei pannelli, sono autentiche rarità perché stampate in tirature limitate, firmate e numerate e corredate dalla dedica dell'artista.

Ecco, i pannelli. Cosa ne faranno dei pannelli una volta che è tutto finito? Li buttano? Li riciclano? Li usano per arredarci casa?

Nell'attesa di un futuro ipertecnologico in cui si potranno consultare le informazioni dalla retina collegata direttamente a Wikipedia o da schermi trasferibili, prendo lo smartphone e scatto la foto a un pannello. Il mio gesto attira l’attenzione di un’addetta che si avvicina furtiva e felpata e con il cipiglio perentorio  della sorella maggiore di Occhi di Gatto bisbiglia: "Signora, non si possono fare fotografie"

Non so se è l’appellativo o se invece è il ritmo sussurrato della frase: Signora-virgola-pausa-negazione, sta di fatto che improvvisamente si profilano davanti ai miei occhi, i protagonisti di decine di film d’azione - da Bruce Willis a  Vin Diesel passando per Jean Claude Van Damme -  in cui il protagonista termina l’ impiegata del museo che si rivela essere un narcotrafficante e si chiama Kelly, proprio come la sorella maggiore di Occhi di Gatto.

La sedia del D'Orsay 

Ricordo almeno un’altra occasione in cui la mia pazienza, che ammetto essere pochina, fu messa a dura prova. Nel 2013, durante una visita al Musée d'Orsay, appuriamo che è severamente vietato fare foto e in quel momento la mia immaginazione sfrenata vede il Direttore del Museo mentre cerca di fermare il sangue che gli esce dal naso alla vista di Courbet immortalalo per sempre insieme a un bastone da selfie. 

Il divieto riguardava anche le bellissime sedute di design a disposizione del personale e alla prima inquadratura della sedia ci siamo beccati una ramanzina in francese, ma prima che il mio spirito bagarreuese avesse il sopravvento e mi mettesse definitivamente nei guai, sono stata fortunatamente distratta da Olympia.

Ora che ci penso anche in occasione della mostra di Henri Cartier-Bresson, sempre all’Ara Pacis, mi era sembrato alquanto ironico che non si potessero fare fotografie. 
Sedia design - Musèe d'Orsay


Signora, non si possono fare fotografie

Al di la della mia incazzatura vale forse la pena di riflettere un momento sulla fruibilità e sulle scelte di alcuni musei. Non solo i nostri, il panorama è abbastanza variegato anche all'estero. 

Personalmente cerco di approfittare di ogni occasione per visitare musei e mostre, forse anche per colmare una lacuna che arriva da lontano: quando iniziai a studiare storia dell’arte al liceo l’insegnate stava per andare in pensione ed era spesso assente per cui veniva sostituita da supplenti che si avvicendavano senza continuità e senza possibilità di portare a termine un programma serio. In seguito i miei studi sono andati in tutt'altra direzione, per cui resta alla volontà autodidatta l’approfondimento di un ambito che ritengo fondamentale per la formazione, la crescita personali, l’osservazione del mondo.

Perciò sì, mi incazzo come una iena se qualcuno mi impone di non fare foto a un pannello costringendomi a fare la fila per riuscire a leggere e prendere appunti, mi incazzo se la guida di un gruppo urla tanto da sovrastare l’audio dei video diffusi durante la mostra, mi incazzo perché non capisco come sia possibile che chi si circonda di bellezza non aspiri a condividerla e divulgarla, come si possa pensare di vivere in un mondo interconnesso ma incomunicabile, come si possa trascurare il fatto che la comunicazione è business e se pubblico su Instragram la foto di Miss Loïe Fuller, o ne racconto la storia struggente altri vorranno vederla o saperne di più.

Per inciso, Loïe Fuller attrice e danzatrice conturbante, ideatrice di danze avanguardiste basate sugli effetti combinati dei movimenti del corpo con vesti e bagliori di luci, morì di cancro probabilmente per le radiazioni ionizzanti emesse dal radium di cui erano intrise le ali di farfalla con le quali si esibiva e che rendevano fluorescenti i suoi spettacoli.


Miss L. Fuller

Le donne di Toulouse 

Toulouse Lautrec era un pittore e un incisore. Amava ritrarre le donne, molte erano prostitute.

Di lui Jean Bouret dice: con la sua opera, Lautrec libera il mondo della pittura da tutti i tabù correnti, come aveva fatto Caravaggio nel suo tempo, come aveva fatto Courbet. L’uomo che colloca il cavalletto nei postriboli, e nello stesso tempo solleva un angolo di sipario su una società fin allora nascosta, crea una tecnica pittorica nuova.

Le prostitute di Touluse-Lautrec vivevano nella clausura delle case di piacere di Montmartre e il ritratto che ne fa l’artista è quasi documentario: momenti di svago, istanti di intimità, di tenerezza. 

Talvolta invece portava il cavalletto nei Caffè o nei locali notturni e da lì ha continuato a tratteggiarle, incessante, fino alla morte. 

[…] Il pittore Toulouse-Lautrec in questi giorni è stato ricoverato in una casa di cura. […] Non vende più l’arte, non compra più l’amore: è beato. (Emile Lepelletier, L’Echo de Paris, 28 marzo 1899).

La dance au Moulin Rouge

La dance au Moulin Rouge è una delle opere presenti alla mostra.  

È datata 1897 e  ritrae due donne che ballano. Probabile, visto che non era inusuale in quel contesto, che le due fossero anche amanti. 

Mi piace pensare che si tratti di due donne libere. 

Mi piace pensare che la libertà possa essere perseguita in molti modi, anche aprendo le porte dei nostri musei, nelle forme e con le opportunità offerte dalla nuove tecnologie e non chiudendole a chiave, come i bordelli parigini della Belle Époque.


Henri de Toulouse Lautrec - La danse au Moulin Rouge





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