giovedì 25 giugno 2015

Il tema: lo strano caso di Expo 2015

In un quieto pomeriggio di una domenica qualunque mi è tornato in mente il padiglione dell’Arzebaijan e il gesto di sfiorare i fiori di vetro.

Il ricordo è riemerso con improvvisa consapevolezza nella similitudine di un gesto che ripetiamo, identico, ogni giorno: sfiorare appena una superficie per ottenere un risultato, 
una pagina che si apre, si chiude, scorre, si riduce

Il gesto che migliaia di visitatori ripetono nel padiglione dell’Arzebaijan è insieme attuale e futuribile, ha in se l’eleganza del "comando" del direttore d’orchestra, l’effetto sinestetico di musica e colori, l’immaginario cinematografico della mano che fluttua nell’aria e attiva meccanismi misteriosi…
Milano, Expo 2015, padiglione dell’Arzebaijan


Sono andata all’ Expo perché “Nutrire il pianeta” mi sembrava un tema talmente essenziale che non ci fosse neanche da pensarci e ho scoperto con non poca inquietudine che il “tema” è il grande assente di Expo. 

Poi mi sono ricordata che mentre raccoglievo idee e materiale per questo post è comparso nella mia bacheca di Facebook questo articolo in cui si parla di ritratti polimaterici (volti fatti di oggetti). L’associazione con Foody è stata fin troppo facile, se vogliamo anche pertinente, fatto salvo poi soffermarmi sulle creazioni “imperfette” di  Isidro Ferrer e allora ho cominciato a pensare a come trovare il modo di raccontare lo strano mondo immaginifico del talentuoso grafico e illustratore spagnolo (figura di spicco nel campo della comunicazione visiva internazionale) in un post che parla di Expo e di come nutrire il pianeta.

E così mi sono resa conto che il tema è ormai, ovunque, un concetto anacronistico. Viviamo in un mondo reale contaminato da tutto ciò che è virtuale, in un metissage fatto di stimoli continui e contraddittori, ripetiamo ogni giorno mille volte il gesto di “sfiorare” e “toccare” e  il diktat “non perdere di vista l’obiettivo” è un mantra continuamente disatteso. 

E dunque? Expo?

Solo un paio di cose. 

La prima: il reportage di Alessandro Borgogno, anche se non ha capito...

La seconda: i droni e l'agricoltura di precisione, ma di questo parleremo nel prossimo post, stay tuned! :-)


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mercoledì 17 giugno 2015

Il verde altrove… Sono andata per vedere gli alberi

Ed è proprio un punto di vista diverso guardarli dal basso.

Sono andata per vedere con i miei occhi incuriosita dai premi e dal rendering del Bosco verticale, dall’orto didattico di 4.000 mq con frutteto, dall’opera ambientale di Agnes Denesun campo di grano di 5 ettari che ha da poco compiuto 100 giorni e si trova ora nella fase della maturazione lattea. 

Incuriosita dalla pretesa di primo quartiere SMART d’Italia.

L'acronimo SMART, utilizzato la prima volta nel 1954 da Peter Drucker (“The practice of Management”) indica un obiettivo: Specifico (Specific), Misurabile (Measurable), Raggiungibile (Achievable), Realistico (Realistic) e con una data limite (Time-constrained).

Nel tempo il termine è stato usato (e abusato) in tutti i contesti lavorativi per alludere all'intelligenza e alla capacità di una persona di fare le cose bene e in fretta (seguito solitamente da uno dei due rafforzativi:  “empatico” o “multitasking”).

Alcuni utilizzano lo slogan “Smart people per smart cities”. Se ne potrebbe dedurre che “fare le cose bene e in fretta” è quello che ci vuole anche per le città del futuro destinate a diventare sempre più veloci, tecnologiche, interconnesse. 

Se ne parla ormai da qualche anno e nel 2011 eravamo più o meno qui (il link è alla TED Conference di Carlo Ratti, direttore del Senseable City Lab del MIT).

Oggi un campo di grano, verde e suggestivo, ci ricorda che alcune realtà hanno i loro tempi di maturazione. Certo è una curiosa contraddizione andare piano proprio nello sviluppo delle Smarter City...

Passeggio nel quartiere.

Il Bosco è vivo e svetta rigoglioso e pimpante dai balconi, c’è uno spazio attrezzato con panchine e le persone chiacchierano, fanno ginnastica, giocano con i bambini, vanno in bicicletta. 

Un enorme trattore vigila all’ingresso del parco, cartelli un po’ ovunque spiegano che le nuove tecnologie, mobilità intelligente e comunicazione interattiva, si fondono con gli spazi pubblici, il verde urbano e i progetti sociali per rendere più SMART la vita di tutti i giorni della Community di Porta Nuova.   

La community ha un sito (www.pnsc.it), un hashtag (#pnsc), una pagina Facebook.

Guardo la distesa davanti a me, le spighe in maturazione lattea, i piccoli insetti svolazzanti... 

Spero che le mie opere aprano le porte al futuro….Un gesto semplice come far crescere un campo di grano nel cuore di una grande città diventa un appello a risolvere i grandi temi legati alla diseguaglianza sociale…”

Mi ricordo di aver letto che l’irrigazione del Bosco verticale avviene grazie a un sistema di pompe di calore e di sensori e sfrutta l’acqua non potabile già usata per gli impianti di condizionamento, sensori monitorano la crescita, lo stato delle vasche, l’ ancoraggio... 
Dalla Cina stanno studiando, pare, come esportarne il modello. 

Guardo ancora gli alberi dal basso e considero che non c’è mica niente di male a rivedere la propria prospettiva. 
Milano - Il bosco verticale

Milano, Smart Community #pnsc


Milano, Smart Community #pnsc - Agnes Denes

Milano, Smart Community #pnsc - Agnes Denes

Milano, Bosco Verticale

Milano, Smart Community #pnsc - Agnes Denes

Milano, Smart Community #pnsc - Agnes Denes

Milano, Smart Community #pnsc - Agnes Denes

Milano, Bosco Verticale

Milano, Bosco Verticale

Milano, Bosco Verticale

Milano, Bosco Verticale

Milano, Bosco Verticale




Approfondimenti dai membri di #adotta1blogger:


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domenica 14 giugno 2015

Appendice… Se una mattina come un’altra una mail con uno strano oggetto

Ecco!
L'oggetto. Punto esclamativo compreso.

Conosco è ovvio il mittente che, occasionalmente e “on demand”, produce approfondimenti per il Blog di cui colei che ne rivendica la paternità (cioè io, oppure dovrei dire maternità? Bon, magari chiedo a Umberto Eco) si lagna: periodi troppo lunghi, frasi chilometriche che bisogna editare e “potare” ecc. Senza contare l'eventuale foto: non rende l'idea, ci vorrebbe qualcosa di più…di meno… ma com'è possibile che non abbiamo (notare il plurale maiestatis) foto recenti di un mercato della frutta galleggiante?? 

Un inferno. 

Quell’ Ecco! perentorio mi convince tuttavia ad aprire la busta velocemente.

Comincia con Van Gogh non giocava a dadi e il resto lo trovate qui.

Parafrasando la felice campagna di Ikea Temporay, because we’re curious. Are YouJ



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mercoledì 10 giugno 2015

Avete presente Durand-Ruel e gli impressionisti?

Nel numero di giugno di Casa Facile si racconta della casa australiana di una fashion designer. 

La dimora è indubbiamente molto bella e il consiglio della proprietaria è tassativo: rompete  le regole!

Sulle regole però bisogna intendersi.

La signora di cui sopra accosta con sapienza, in un perfetto esempio di armonia cromatica, vetri blu sopra un mobile di legno scuro e mette insieme minuterie sulla base della “regoladell’importanza degli spazi e della ripetizione degli oggetti. Aggiungeteci studiate mise en place, strategie visive, moodboard, stile riconoscibile, vent’anni di esperienza come visual designer e avrete un’idea del risultato.

Provate adesso a eliminare l’armonia cromatica, la “regola” dell’importanza degli spazi e della ripetizione degli oggetti,  lo studio della mise en place, le strategie visive, le regole stilistiche, vent’anni di esperienza come visual designer e con la ritrovata libertà accumulate a casaccio tessuti tribali, stampe floreali, rocchetti di filo vuoti e mocassini.

Non siete convinti? A dire il vero sui mocassini qualche remora confesso di averla anch’io, a meno di non seguire l’ultima moda, riempirli di terriccio e seminarvi dei fiori…

La faccenda perciò può dirsi non tanto di “rompere le regole” quanto di cambiare il punto di vista e trovare modi nuovi per fare le cose (avvalendosi magari di un’innovazione tecnologica) padroneggiando sempre e comunque il tema, l’oggetto, la materia: esempio emblematico la pittura impressionista, che unisce due “visioni”, da un lato un nuovo modo di dipingere, dall’altra un modo nuovo di esercitare il commercio nell’arte

I pittori impressionisti (tra i più importanti: Monet, Manet, Degas, Renoir, Sisley, Pisarro, Bazille) tentarono infatti per la prima volta nella storia della pittura di afferrare il brivido della luce che cambia e cominciarono a dipingere “en plein air” grazie anche all’invenzione dei tubetti per i colori e del cavalletto da campagna, facili da trasportare. 

Paul Durand-Ruel, il più fervente dei loro mecenati, con la modernità del suo metodo, poi adottato da tutti i galleristi contemporanei (seguire in esclusiva gli artisti, sostenerli, organizzare personali, mandare in tournée all’estero le opere), trasformò la sua attività parigina in un’azienda globale, aprendo succursali a Londra, Bruxelles, New York e allestendo innumerevoli esposizioni in tutto il mondo.

Quand’anche tuttavia non siate Monet o Durand-Ruel  né tantomeno professionisti del design (professionista: chi esercita una professione intellettuale o liberale come attività economica primaria) ma solo appassionati dilettanti (dilettante: chi fa le cose per diletto) non è detto che non possiate agire con professionalità (pensate a Sherlock Holmes J). 

Siate dunque visionari ma virtuosi e studiate i precetti per applicarli al contesto: un appartamento a Malmö sarà ben diverso da una casa a Rabat e se state scegliendo il colore delle pareti o degli arredi la luce sarà probabilmente la prima cosa da considerare. 

Se poi, nonostante tutto, non sapete ancora che pesci prendere, smettete di pensarci e fate una doccia. 

Si sa che le buone idee partono sempre da lì: è la regola. J
Cinta Vidal Agullo

Cinta Vidal Agullo

Cinta Vidal Agullo

Cinta Vidal Agullo


Foto

Cinta Vidal Agullò si ispira nella sua opera a Maurits Cornelis Escher. 
Se volete, qualche notizia su Escher la trovate qui 


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sabato 6 giugno 2015

Off topic... 6 giugno 1944, lettera dalla Normandia

Testo integrale del video "Lettera dalla Normandia"

Cimitero Americano di Nettuno

Cara mamma, ti scrivo questa lettera per raccontarti una storia. 

È una storia che inizia nel nord della Francia all'alba di martedì 6 giugno 1944, il giorno della più grande invasione della storia. 

È il giorno dello sbarco in Normandia.

La zona scelta per lo sbarco comprendeva cinque spiagge, contrassegnate con nomi di fantasia: Utah, Omaha, Gold, Juno e Sword.

L’ordine di battaglia prevedeva da 15 a 16 Divisioni per ciascuna delle due Armate alleate (Prima Armata americana e Seconda Armata britannica). L’immensa flotta comprendeva più di 2.700 navi di ogni tipo su cui erano caricati 2.500 mezzi da sbarco.

In Normandia, all'alba di martedì 6 giugno 1944, sbarcarono 8.000 carri armati, 12.000 aerei, 160.000 uomini che avevano con se l’equipaggiamento militare e una lettera per i propri cari, da recapitare in caso di morte.

Quel 6 giugno 1944 il campo di battaglia in Normandia di morti, feriti o dispersi ne contava 10.000.  

Il 25 agosto 1944 fu liberata Parigi.

Il 25 agosto 1944 di morti se ne contavano quasi 54.000, 19.000 i dispersi, oltre 150.000 i feriti.

Cara mamma…

Ho molto pensato, dopo aver visto quei luoghi, a quei ragazzi e alle loro madri chiedendomi se una figlia che non è mai stata madre può sentire, intero, il dolore di una perdita così grande.

Ho camminato piano in mezzo alle 10.000 croci del Cimitero di Saint Laurent ripetendo in silenzio i loro nomi: Houston, Jesse, Wilbur, Albert, Ray… Troppi per ricordarli tutti, troppi per dimenticare. 

Oggi, uno di quei nomi lo affido alla mia memoria, nella speranza di custodirlo per sempre nel mio cuore, in ricordo del sangue di molti versato per la libertà e per la liberazione dagli oppressori.

Cara mamma, la storia che ti racconto ha il volto di una giovane donna. 

Si chiamava Paulette Duhalde.

Miei genitori adorati, perdonatemi di aver pensato al mio paese prima che a voi…

Nel 1941 Paulette Duhalde ha 19 anni, vive a Flers un piccolo comune della Bassa Normandia e fa parte del Servizio Informazioni dei servizi segreti militari.

Paulette reperiva notizie sui movimenti delle truppe tedesche e la posizione dei loro mezzi grazie ai numerosi contatti con le ferrovie e fu tra coloro che fornirono ai servizi di intelligence delle forze armate le informazioni, accurate e tempestive, che permisero il successo dello sbarco in Normandia.

Paulette possedeva il gusto del rischio, un coraggio silenzioso, una volontà di ferro.
Il 10 dicembre 1942 Paulette fu arrestata dalla Gestapo con l’accusa di spionaggio e imprigionata nella prigione di Fresnes alla periferia di Parigi, in isolamento completo, con la sola concessione di un piccolo vangelo di S. Matteo donato dal cappellano che andava a visitarla e a portarle la comunione.

Resterà cinque mesi in una cella stretta, illuminata da un lucernario di vetro smerigliato e chiusa da una porta con uno spioncino. Lungo la parete di sinistra, un letto da campo largo 60 centimetri. A destra, un lavandino, due tavole, un calorifero.

Verrà processata insieme ai suoi compagni, nella stessa prigione di Fresnes.
Alla fine del processo il colonnello tedesco che lo presiedeva disse a Paulette: “Mademoiselle, nella mia qualità di ufficiale tedesco, nemico della Francia, io vi condanno, ma come soldato, mi inchino al vostro atteggiamento e patriottismo. Vorrei che gli uomini qui presenti avessero la vostra stessa dignità.”

Condannata a cinque anni di reclusione resterà a Fresnes fino al 14 giugno 1944, quando lascerà  il suolo francese insieme ad altre centinaia di detenute per essere deportata in Germania, destinazione sconosciuta.

Mentre la battaglia in Normandia continua, i convogli di prigionieri provenienti da Fresnes arrivano nella prigione di Kottbus, nella regione del Leipzig.
Paulette vi resterà fino a novembre dello stesso anno quando verrà trasferita, dopo un viaggio interminabile nei vagoni merci, nel carcere femminile di Ravensbrück.

Ravensbrück, un campo di circa 60 ettari di proprietà di Himmler,  poteva ospitare fino a 12.000 detenute. 

Nel novembre 1944 ne contava 63.000 di ogni nazionalità.

A Ravensbrück c’erano due forni crematori, una camera a gas, baracche numerate dipinte di verde con letti a castello di tre posti. Si parlavano tutte le lingue europee in una babele estenuante di confusione e rumore, sovraffollamento, fame, scabbia, dissenteria, pulci, cimici, pidocchi… alla minima infrazione, ma spesso senza motivo, bastonate o frustate.

Paulette si ammalò gravemente e trascorse gli ultimi giorni nel “blocco 8” con altre centocinquanta donne malate, ammassate in due per branda. 
La sua compagna di letto dirà: “gli ultimi tempi dovevo curarla come un bambino, lavarla, dargli da mangiare. La sera mi inginocchiavo vicino al suo letto e recitavamo insieme le preghiere. La mia piccola figlia adottiva era pura e le sofferenze orribili del campo avevano abbellito la sua anima”.

Muore la notte tra il 22 e il 23 aprile 1945. Aveva 23 anni.

Ai genitori una compagna scrisse: siate fieri di lei, è stata una grande francese, un buon soldato, è morta nel campo di battaglia dei grandi.

Cara mamma…

Il 15 agosto di qualche anno fa ho visto per la prima volta il sorriso di Paulette nel museo dello sbarco ad Arromanches. La didascalia della foto diceva: Paulette Duhalde, 1921-1945, eroina della resistenza.

Paulette non ha la sua croce insieme agli altri soldati in quei cimiteri della memoria, perché non era un soldato. Non obbediva ad un comandante né a degli ordini, ma solo alla sua coscienza di persona e di donna libera che nessuno avrebbe mai potuto imprigionare. Per questo per me è come se anche lei stesse lì, insieme a tutti gli altri morti per combattere e regalare a noi la Libertà.

Per me Paulette Duhalde, 1921-1945, eroina della resistenza ha il volto del sangue versato e dal 15 agosto 2013 è, per sempre, nel mio cuore.
Paulette Duhalde

Fonti:

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venerdì 5 giugno 2015

Appendice... Del blu e di altre storie

I commenti sono una grandissima risorsa per un Blog. Arricchiscono chi scrive e chi legge, forniscono nuovi spunti, aiutano nella revisione. Un testo scritto diventa parlato nei commenti: sembra quasi di sentire la voce di chi legge. 

Un commento è sempre a voce alta.

Tra i commenti a questo post la simpatica requisitoria su Facebook di Alessandro Borgogno meritava di essere pubblicata come appendice. 

E dunque, c'era una volta...


Il Blu e il Cattivo


Visto che si cita Disney e anche la temperatura dei colori, mi viene da fare alcune considerazioni sulla scelta di quelli relativi ad alcuni suoi famosi personaggi.

Dato che Walt Disney non lasciava assolutamente nulla al caso (e quando per un minuto di film devi fare migliaia di disegni non puoi lasciare nulla al caso), anche i colori scelti per i personaggi dei film avevano senza dubbio uno studio e una analisi alle spalle.

Stabilito che le associazioni Kandiskjiane colore-strumento e anche colore-emozione erano ben conosciute dallo zio Walt (basta vedere il breve e delizioso brano dedicato alla “colonna sonora” del primo Fantasia), sembra abbastanza costante la scelta di assegnare ai “buoni” le tonalità più fredde e ai “cattivi” quelle più calde.

Se appare ovvio associare il rosso (spesso abbinato al fuoco) al cattivo di turno, meno scontata sembra essere la scelta del blu per i personaggi positivi

Esemplare, ne “la spada nella roccia”, il magnifico ed esilarante “duello di Magia” dove si fronteggiano Mago Merlino (blu) e Maga Magò (Viola, e il fatto che il viola sia più vicino al blu di quanto lo sia il rosso suggerisce l’appartenenza dei due antagonisti allo stesso campo di azione, appunto la magia). 

In tempi più recenti il Genio della lampada di “Aladdin” ha una dominante decisamente blu (e il cattivo Jafar è un trionfo di rosso e nero), e anche ne “Il gobbo di Notre Dame” Esmeralda è spesso vestita di blu (salvo ricoprirsi di toni rossi nelle sue performance più sensuali e provocanti) mentre il cattivissimo (e ambiguo) Frollo incarna le fiamme del peccato ugualmente fra rosso e nero, e qualche tocco di viola. 

Capitan Uncino ha una dominante indiscutibilmente rossa, anche se in quel caso lo fronteggia un Peter Pan inevitabilmente verde (e antipaticissimo, tra l’altro). E’ notorio che in tutte le storie, e Disney non fa eccezione, i buoni sono molto più noiosi dei cattivi, e spesso anche meno simpatici. Ed è probabile che questo sia dovuto almeno in parte anche ai colori più “freddi” che normalmente gli vengono assegnati. 

Qualche eccezione alla dicotomia blu-rosso appena descritta: Crudelia De Mon, straordinaria carnefice di cani dalmata che sfoggiano livree bianche e nere, è anche lei bicolore, e addirittura i suoi capelli sono divisi a metà fra bianco e nero, e la pelliccia è ovviamente in bianco e nero anch’essa. Ma quando la apre in preda all’ira scopre una fodera rosso fiammante! Ursula, la perfida piovra felliniana della Sirenetta, ha tentacoli neri e viola ma una figura blu. Scelta in parte dovuta all’ambientazione sottomarina della storia e ai colori più sgargianti della sirena protagonista, ma forse anche alla figura più ambigua che vuole rappresentare (è indubbiamente la cattiva della storia, ma in alcuni momenti Ariel le si affida ingenuamente, quasi fosse colei che può risolvergli i problemi). 

Ma l’eccezione più interessante la troviamo nel primissimo capolavoro Disney, che si rivela ancora una volta più complesso e anche meno ingenuo e meno semplicistico di lavori anche successivi: Biancaneve e i sette nani. Il film trova nella strega matrigna un personaggio di ineguagliate bellezza e malvagità (in egual misura), rappresentato con predominanze nere ma, attenzione, anche molto blu (e rossa sarà poi la mela avvelenata). E lei, la piccola protagonista, svela una antitetica e simmetrica ambiguità quasi insospettabile nel suo tipico abito che al di sopra della gonna gialla (colore ambiguo per eccellenza) indossa un corpetto che sfoggia una rarissima contemporaneità di blu e di rosso. Cosa ci avranno voluto suggerire gli artisti Disney con questa inquietante convivenza di freddo e caldo? Qualunque ardita ipotesi è legittima. J



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