martedì 16 marzo 2021

Spazio 1996

MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo 

Lo scorso anno, più o meno di questi tempi, meditavo cercando di dare un senso alle circostanze in cui noi tutti eravamo immersi a causa della pandemia e raccontai, in queste pagine, la storia di un noto artista concettuale che aveva sperimentato, in tempi non sospetti, una clausura volontaria in un museo di Copenaghen.

Per quelle strane giravolte del caso il mio articolo ha finito per trovare posto in una prestigiosa rivista di estetica, come punto di ripartenza per raccontare l’accaduto, stavolta con le parole e le riflessioni del protagonista.

[…] la recente scoperta di un blog che commenta e rilegge, paragonandolo alla quarantena collettiva della passata primavera, un mio lavoro del 1996, è stata per me motivo di sorpresa e attenzione perché riguarda un’opera che, seppure molto significativa sul piano personale, cadde completamente nel vuoto (così a me parve) in occasione della mostra per cui era stata realizzata. In svariate occasioni ho peraltro sostenuto che le vicissitudini di tale opera dimostrano che il dispiegarsi del senso di un lavoro artistico avviene in tempi e contesti non prevedibili, e spesso assai lontani da quelli attesi. […]

[...] L’opera d’arte, infatti, fra tutte le attività umane, è quella che accoglie la possibilità che il suo essere stata realizzata per una certa occasione o una certa mostra sia solo apparente, e accetta, anzi auspica, la possibilità che altri trovino il suo significato, il suo luogo e il suo pubblico, anni dopo, in tutt’altro contesto. Accetta e auspica la possibilità di muoversi, nella cronologia di un artista, in modo spiraliforme e ricorsivo stabilendo relazioni con le opere “sorelle” attraverso pieghe, legami e ponti simili a quelli che definiscono forma e funzione delle molecole più complesse; così facendo, contribuisce a dare valore alle precedenti, tanto quanto a ricevere valore dalle successive, in qualche modo profetizzandole. [...]

Ma come si vive -  letteralmente -  in un museo?

 […] A Copenaghen fa freddo, sulla spiaggia l’acqua del mare è più ghiacciata che liquida, ma c’è il sole e le giornate sono cristalline. Il Louisiana è un museo collocato in un luogo di una bellezza quasi impareggiabile: vari edifici di costruzioni successive nel tempo, collegati fra loro, circondano un parco molto curato, ma anche ampio, pieno di saliscendi e a tratti finanche misterioso; la striscia di mare che separa la Danimarca dalla Svezia è a pochi metri e, da qualche finestra del museo, si vede; in caffetteria ci si può sedere all’interno o in pieno sole; in una grande stanza ci sono i giochi per i bambini più piccoli; in un’altra i computer per gli adolescenti; la libreria ha spazio per sedersi, leggere, forse appisolarsi. Ci sono centinaia di persone, moltissime famiglie arrivate anche dalla vicina Malmö. La prima impressione è quella del museo di arte contemporanea, semplicemente, perfetto: bello, prestigioso, ricchissimo. Soprattutto accogliente. Meglio, vivibile. […].

L’articolo completo si può scaricare a questo link 


lunedì 13 aprile 2020

Now Here, Nowhere

È il 1996, più o meno in questo periodo dell’anno.

Cesare Pietroiusti - artista e attuale presidente di Palaexpo - è invitato a partecipare da uno dei curatori del Louisiana Museum of Modern Art di Copenaghen, Iwona Maria Blazwick, alla mostra Now Here per la sezione Work In Progress

A detta dell’artista il Louisiana Museum of Modern Art di Copenaghen era all'epoca (ma immagino che la sua vocazione sia rimasta tale anche in seguito) un museo perfetto e soprattutto vivibile. Intanto per la posizione: a mezz'ora da Copenaghen, poco distante anche da Malmö, immerso nel verde, con architetture perfettamente integrate nel paesaggio e, come se non bastasse, affacciato sulla costa dell’Øresund, nel Mar del Nord. Un museo destinato ad accogliere visitatori, famiglie, bambini, studenti con la promessa (mantenuta) di rendere memorabile la lunga permanenza. 

Un museo vivibile dunque e sulla falsariga di questa idea Pietroiusti propone a Iwona Maria una performance piuttosto inconsueta, a ripensarla oggi direi quasi profetica. 
L’arte del resto è sempre un passo avanti, perfino un passo avanti alle distopie.

La proposta, dicevo, consiste nel farsi murare in una sala del museo durante la settimana precedente l’inaugurazione: sette giorni in completo isolamento in una sala svuotata, un guscio con nulla dentro salvo un paio di prese elettriche. Trascorsi i sette giorni, la stanza è riaperta e resa accessibile al pubblico che può muoversi liberamente negli stessi spazi, in mezzo agli oggetti e a tutto quanto prodotto dall'artista e lasciato lì senza alterazione alcuna, diventando in tal modo, quegli stessi oggetti, oggetto dell’installazione.

Entra dunque nella sala vuota del museo portando con se sette gruppi di oggetti e li dispone in altrettanti angoli. Per prepararsi alla permanenza aveva chiesto a sette amici di fare ognuno una lista delle cose che avrebbero portato con se, dovendo sopravvivere per 24 ore in una situazione simile, e poi vi si era rigorosamente attenuto. Il primo giorno usa solo gli oggetti della prima lista, il secondo giorno quelli della seconda lista e così via. 

L’attività intorno alla sala murata continua rumorosa e frenetica per l’allestimento della mostra: un andirivieni incessante di operai, artisti, curatori, addetti alle pulizie, alla sorveglianza, alle consegne… La sera tutti se ne vanno, si spengono le luci, la stanza piomba nel silenzio. Così per sette giorni, un giorno dopo l’altro e sette notti, in compagnia di se stesso, dei propri pensieri e degli oggetti di qualcun altro. 

Più o meno a metà della reclusione comincia a vagheggiare e s’immagina un artista geloso che entra nella stanza per ammazzarlo, fare in sette pezzi il suo corpo per metterne ognuno in uno dei gruppi di oggetti che aveva disposto all'inizio della clausura. Controlla il terrore evocato dalla sua mente mettendosi in un ottavo angolo, il suo angolo, in cui erano posizionati gli unici oggetti personali che aveva deciso di portare con se: una borsa, un cavalletto, una macchina fotografica, dei rullini. Si mette nel suo angolo e ripete: sono un artista, sto partecipando a una mostra, è una performance

Allo scadere dei sette giorni, uscito dall'isolamento ha molta fame e per prima cosa mangia con molto gusto nella caffetteria del museo. Ci è voluto un po’invece per ricominciare a parlare con le persone. 

Fine della storia.

È il 2020, più o meno un mese fa.

Il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte dichiara la quarantena per contrastare il contagio dal Covid-19 e un’intera nazione (o larga parte di essa) diventa, suo malgrado, un enorme collettivo in un inedito esperimento sociale.

Più o meno da quel momento mi frulla in testa la storia che ho appena raccontato, quasi fosse il mio ottavo angolo, quello che può dare un senso all'intera faccenda. Che poi un senso non sono sicura di averlo trovato ma alcuni insegnamenti forse si. 

Il primo riguarda proprio gli oggetti. Quello che ci impedisce di diventare pazzi in una situazione estrema è banalmente avere un angolo in cui abbiamo riposto gli oggetti che per noi hanno un valore e che riescono a tenerci ancorati a una realtà, che pur essendo quella che non vorremmo vivere è pur sempre meglio dei nostri deliri. 

Il secondo riguarda il momento in cui si potrà uscire e il primo impulso sarà quello di soddisfare i nostri bisogni primari, ma allo stato attuale potrebbe non essere possibile anche stando “fuori” e il tentativo potrebbe avere conseguenze inaspettate. 

Quando finalmente sarà finita ne usciremo frastornati e dovremo velocemente rieducarci alla relazione mantenendo tuttavia il distanziamento sociale. Il che, è quasi un ossimoro. Guardarci e parlare attraverso lo schermo di un PC o di un telefonino rende oggi sicuro il nostro interagire, rende la relazione inodore, ma cosa ne facciamo di tutto il resto che manca? Una delle cose a cui ho pensato ascoltando il racconto della performance di Pietroiusti è stato esattamente sull'odore: che odore aveva la stanza dopo 7 giorni di vissuto, anche organico?

Il senso vivibile del Louisiana Museum of Modern Art di Copenaghen sta nel toccare le opere sparse in giardino, nel sedersi alla caffetteria o perdersi nei padiglioni rincorrendo i propri pensieri, nel sentire il vento e il profumo proveniente dal mare del Nord. 

Credo che il mondo, scriveva Riccardo Falcinelli qualche anno fa, non sia fatto per essere guardato ma per essere usato, cioè per entrarci in relazione, per chiederci cosa ci possiamo fare. Non sono sicura che a distanza di qualche luna e alla luce degli ultimi avvenimenti si possa continuare a dire la stessa cosa con la medesima nitidezza. 

Il mondo da mettere in relazione è oggi più di uno e forse bisogna semplicemente trovare modi inediti di metterli tutti in relazione con noi e tra di loro, ma se c’è qualcosa che racconta a me questa storia e che mi sprona a contornarmi di potos, riordinare i cassetti, alzarmi all'alba per andare chissà dove e poi stare qui, è nelle stesse parole dell’artista: l’operazione artistica può rappresentare un territorio di libertà e questa consapevolezza di libertà consente alle pluralità di pensare che il cambiamento è possibile.

Consente di pensare che il cambiamento è possibile e lo è perché qualcuno, un giorno, ha scelto liberamente di percorrere il mondo racchiuso in una stanza.


La "stanza ad Arles" dipinta da Van Gogh ricostruita dall'Art Institute di Chicago in occasione della mostra "Van Gogh’s Bedrooms" che, dal 14 febbraio al 10 maggio 2016, riunì le tre versioni del dipinto.

Approfondimenti


mercoledì 27 novembre 2019

La Vertigine dell’Ossessione


di Alessandro Borgogno



È come se io stessi percorrendo un lungo corridoio che è ricoperto di specchi... 
e alcuni frammenti di quegli specchi sono ancora là... 
e quando arrivo alla fine del corridoio non c'è altro che oscurità... 
e io so che, addentrandomi nell'oscurità, vado a morire...

(Madeleine)

Roma, Lunedì 25 Novembre 2019. Cinema “Nuovo Sacher”. Ore 20.00

La serata inizia con il Direttore della cineteca di Bologna, Gian Luca Farinelli con complice Nanni Moretti padrone di casa, che ci spiega come in realtà la pronuncia esatta sarebbe “Vèrtigo”, con l’accento sulla e, e non “Vertigo” come l’abbiamo sempre chiamato tutti (in Italia "La Donna che visse due volte"). È il giusto preludio alla visione di un film che, come sempre quando si ha la fortuna di vedere Hitchcock in una sala cinematografica sul grande schermo, si rivelerà un film nuovo rispetto a quello che comunque si conosce già a memoria, quasi lo si vedesse per la prima volta.

Come già la volta scorsa per “Gli uccelli”, anch’esso restaurato l’anno scorso dalla benemerita cineteca e restituito nel suo splendore per qualche giorno alla visione in sala, così anche stavolta il capolavoro psicoanalitico di Sir Alfred si rivela sotto luci totalmente nuove, e ancora una volta quella che potrebbe essere la semplice visione di un gran film si trasforma in una esperienza visiva, sonora ed emotiva difficilmente raccontabili, anche se noi ci proveremo lo stesso.

I brividi iniziano ai primi fotogrammi, quando i titoli di testa graficizzati da Saul Bass e musicati da Bernard Herrmann si animano con una zoomata che dopo alcuni dettagli di un volto femminile ci sprofonda in una pupilla che sullo schermo appare immensa. Siamo già precipitati nell’abisso, che diverrà via via un abisso psicologico, umano, ossessivo e totalizzante fino alle conseguenze più estreme: la spirale, che domina anche graficamente fin dai titoli, avvolge lo spettatore e lo trascina in un incubo apparentemente privo di vero terrore ma in realtà talmente oscuro da divenire insostenibile con il passare inesorabile dei minuti.

Il primo effetto, come sempre, viene dalla fenomenale fotografia di Robert Burks. La prima scena in notturna sui tetti di San Francisco, con tutta la città e la baia sullo sfondo, è un capolavoro di tonalità ombrose mescolate a una impressionante precisione dei dettagli. Da lì in poi i prodigi del mago della luce che ha illuminato tanti capolavori di Hitchcock verranno profusi a piene mani per tutta la pellicola, con effetti strabilianti e cromatismi carichi di simbolismo che giustamente sentirò definire dal mio compagno di visione “pittura in movimento”. Sul grande schermo la fotografia di Burks mostra tutta la sua grandezza per la ricchezza di dettagli che spesso in tv sfuggono, per la brillantezza dei colori e per i cambi di luce a volte sorprendenti e sempre funzionali all'effetto “magico” (si scoprirà andando avanti nella storia quanto sia “nera” questa magia” che la storia vuole trasmettere). Fra tutti, lo sfondo del ristorante che improvvisamente e inspiegabilmente si illumina al passaggio di Kim Novak, che viene immortalata alla sua prima apparizione in un profilo tanto perfetto da essere inquietante, e la vecchia libreria che all’uscita di James Stewart e Barbara Geddes, e che vediamo alle loro spalle attraverso la vetrina, passa da una oscura penombra ad una illuminazione a giorno.

Interminabile la serie di scene dove i colori assumono significati e dominano la scena per parlarci dei significati oscuri della storia. Su tutti, notoriamente, il verde. Dominante soffusa nelle scene del cimitero che verrà ripresa dall'insegna dell’Hotel a disegnare l’indimenticabile silhouette di Judy già immersa nel suo percorso di trasformazione e perdizione e che poi donerà ancora a lei la luce nebbiosa quando uscirà dal bagno definitivamente trasformata in Madeleine “di ritorno dal regno dei morti”. Brillante nel vestito che Madeleine sfoggia alla sua prima folgorante apparizione al ristorante, più cupo nella gonna indossata da Judy a passeggio per le vie di San Francisco, poco prima di sottoporsi alla orribile tortura della trasformazione da parte dell’ossessivo Scottie.
Vèrtigo - "La Donna che visse due volte" - Hitchcock
Il tema del doppio, ovviamente fra i principali percorsi narrativi del racconto, viene ribadito di continuo dalla presenza degli specchi, ma mai in modo sfacciato, tanto che la loro presenza si nota davvero soltanto al cinema. Nel negozio di fiori (inquadratura magnifica che con un campo-controcampo ribalta la visuale da ciò che vediamo noi a ciò che vede Stewart spiando da dietro la porta), nella camera d’albergo di Judy, nel negozio di vestiti, nel racconto degli incubi di Madeleine, e poi il quadro nella galleria, anch’esso in realtà uno specchio che riflette Madeleine, identica nell'acconciatura, nella posa, nella collana.

Inutile pensare di riassumere ora i cento elementi notevoli di un film sul quale sono stati già scritti (giustamente) interi libri. La visione sul grande schermo però riporta obbligatoriamente all'attenzione alcuni aspetti che mai, pur avendolo visto già decine di volte, erano stati così lampanti.

Ad esempio la maestria narrativa di Sir Alfred che per intere sequenze anche lunghissime (come il pedinamento di Scottie a Madeleine in giro per San Francisco) manda avanti la storia riempiendola di particolari indispensabili senza far pronunciare mai una sola parola ai personaggi. Sequenze intere da film muto, dove tutto ci viene raccontato da movimenti, sguardi, cenni, linguaggio del corpo, topografia della città, atmosfere, inquadrature e colori.

Gli sguardi. Sul grande schermo gli occhi chiarissimi di James Stewart sono impressionanti, quasi alieni. E lo sguardo obliquo di Kim Novak, che guarda spessissimo fuori campo, lateralmente, come sempre timorosa di qualcosa che possa arrivare “da fuori”, “da altrove”, a minacciarla. Ciò che avverrà davvero proprio nell'ultima scena, preannunciato proprio dal suo ultimo, ormai ben conosciuto anche allo spettatore, sguardo “all'indietro”.


Vèrtigo - "La Donna che visse due volte" - Hitchcock
Vèrtigo - "La Donna che visse due volte" - Hitchcock

I luoghi. Ho già avuto modo di scrivere quanto ogni singola location del film sia un luogo straordinario anche nella realtà. Nel nostro viaggio in California i pellegrinaggi hitchcockiani sono stati una costante: abbiamo dormito sulla stessa strada, qualche numero più in là, dell’albergo che oggi giustamente si chiama “Vertigo Hotel”; siamo arrivati ai piedi del Golden Gate più per Vertigo che per vedere davvero il ponte dal quel punto lì (e comunque non a caso da quel punto la prospettiva è straordinaria); e poi naturalmente i due luoghi più magici: Mission Dolores e Mission San Juan Bautista, ancora oggi identici a come li ha ripresi il Maestro. Letteralmente fuori dal tempo perché nessuna ambientazione del film è minimamente casuale, ogni luogo ha il suo significato fondamentale per la narrazione, perché lo ha anche nella realtà. 

Vèrtigo - "La Donna che visse due volte" - Hitchcock
Sono luoghi storici, rimasti tali nonostante la tendenza americana a cancellare il passato a scapito del continuo rinnovamento. E come tali Hitch li usa e Barks li fotografa. Rivederli sullo schermo, sentircisi di nuovo immersi come si stesse nuovamente sul posto è stata una sensazione unica che si è andata ad aggiungere all'emozione già vibrante della visione in sala. E sempre riguardo ai luoghi e al quasi perenne peregrinare che caratterizza il film (“da soli si può andare in giro, in due si va sempre da qualche parte” dice Madeleine in una frase memorabile) è sempre sorprendente riscoprire il realismo applicato da Hitch in questo film (proprio lui, storicamente nemico della “verosimiglianza” nel cinema): le distanze, i tempi di percorrenza, la successione delle strade cittadine ed extracittadine, i movimenti e i passaggi dei personaggi da un luogo all'altro… tutto è maniacalmente vero, e anche i tempi di percorrenza lo sono, rendendo spesso alcune sequenze apparentemente “lente” (ma non lo sono, ovviamente, sono “giuste”). Anche questi aspetti si possono ancora oggi constatare visitando San Francisco e i luoghi specifici del film, e sul grande schermo tutto questo appare ancora più chiaro e lucidissimamente applicato dal Maestro.


Vèrtigo - "La Donna che visse due volte" - HitchcockVèrtigo - "La Donna che visse due volte" - Hitchcock

Vèrtigo - "La Donna che visse due volte" - HitchcockVèrtigo - "La Donna che visse due volte" - Hitchcock
Vèrtigo - "La Donna che visse due volte" - Hitchcock
Vèrtigo - "La Donna che visse due volte" - Hitchcock
Vèrtigo - "La Donna che visse due volte" - Hitchcock
Gli attori. Notoriamente Hitchcock tirava fuori il meglio dai suoi attori, considerando anche con quanta cura li sceglieva e li preparava per le parti da interpretare. Oltre al piacere di sentire le loro voci originali che confermano come non si è mai grandi attori per caso, vederli nella dimensione a loro consona regala sorprese e delizie continue. Non si può non restare estasiati da Kim Novak che brilla gigantesca sullo schermo come mai potrebbe anche sul miglior televisore. Enigmatica, sensuale fino al limite della decenza, sinuosa e sfuggente, vagamente assente e poi improvvisamente partecipe anima e corpo. 

Per tornare ai suoi sguardi, impressionante quello che sfodera al risveglio nel letto di James Stewart quando viene ridestata dal suono del telefono, in uno dei gioielli hitchcockiani di racconto per immagini dove le parole non hanno importanza mentre i movimenti e gli sguardi non solo narrano ma portano alla luce i pensieri dei personaggi. Il gioco di occhiate ci dice, mentre Stewart pronuncia poche frasi di circostanza al telefono, che lei si è svegliata ora e non sa dove si trova, che quell'uomo non sa chi sia, che capisce in quel momento di trovarsi nel letto di uno sconosciuto, completamente nuda, e che evidentemente lui l’ha spogliata e messa a letto. Tutto con due sguardi e tre inquadrature. Vertigine nella vertigine. Le scene successive, quando appare vestita della sola vestaglia di lui e cammina a piedi scalzi sulla moquette, non possono essere descritte. E forse ancora più impressionante è la performance di James Stewart, che qui Hitch trasforma lentamente e inesorabilmente in un maniaco ossessivo. Lui, il buono per eccellenza, che restava buono anche quando faceva il pistolero dei western, diventa sotto i nostri occhi un individuo sempre più pericoloso, sempre più scollato dalla realtà e perfino sempre più violento. Una trasformazione (ennesimo inganno pensare che l’unica trasformazione del film sia quella di Judy in Madeleine imposta da Scottie, la trasformazione di quest’ultimo da uomo tranquillo e disincantato a ossessivo torturatore psicologico è davvero impressionante) che lascia inquieti e non si placa dopo la fine del film.


Vèrtigo - "La Donna che visse due volte" - Hitchcock

Vèrtigo - "La Donna che visse due volte" - HitchcockVèrtigo - "La Donna che visse due volte" - Hitchcock

La violenza. A questa davvero non ero preparato nonostante la conoscenza pregressa (maniacale anch'essa, senza dubbio). Mai in nessuna visione domestica mi era stata trasmessa in modo così penetrante e a tratti insopportabile la violenza psicologica che cresce via via nel corso della storia fino alla esplosione finale. E men che mai proprio la scena finale mi era apparsa così terribilmente dura, feroce, brutale. Al fascino di chi conosce la storia e anche tutte le sacrosante metaletture (prima fra tutti quella, conosciutissima, che voleva Vera Miles destinataria della parte a cui poi dovette rinunciare per sopraggiunta maternità, e che quindi pose Kim Novak nei confronti di Hitch esattamente come Judy nei confronti di Scottie, una donna che deve trasformarsi in un’altra che esiste solo nella testa di lui, ulteriore vertigine) si sovrappone un disagio tutto fisico, reale, nel vedere i tormenti inflitti ad una donna che finisce per accettarli per amore ma anche per senso di colpa (giustificato, il che ci pone nella ulteriore condizione di difficoltà nel non poter mettere tutto il bene da una parte e tutto il male dall'altra). Il tema del doppio diventa così esplosivo, anche in tutti gli altri aspetti della storia: Lui è stato incastrato in modo freddo e spietato, e quindi tendiamo a simpatizzare per lui, ma poi diventa un odioso tormentatore capace di torture psicologiche feroci, e non sappiamo più come difenderlo; lei è innamorata e questo la rende fragile, empatizziamo con lei quando subisce i tormenti di Scottie, ma è stata lo strumento consapevole di un crimine orribile che è in fondo anche la causa della follia di lui, e anche qui non sappiamo più da che parte stare. Hitch non ci consola e non ci lancia salvagente, siamo di soli di fronte ad un incubo senza via di uscita (e non la avremo neanche dopo la parola fine). 

Impressionante rendersi conto di come Sir Alfred abbia parlato in questo modo, nel 1958, di argomenti che solo oggi sono davvero diventati presenti nel dibattito pubblico. Scottie è uno Stalker che arriva fino alle soglie del femminicidio (e in fondo nonostante la meccanica apparentemente casuale e sfortunata dell’ultimo dramma, di questo si tratta comunque), ma Hitch non ci racconta semplicemente la storia di un criminale, lo fa diventare tale sotto i nostri occhi, raccontandocelo dall'interno, e senza darci soluzione: non si esce più dalla spirale. 

La scena finale poi, come si diceva, è davvero violenta e la violenza diventa anche tangibile. Il trascinamento di Judy su per le scale provoca fastidio fisico allo spettatore, il volto di James Stewart è trasfigurato in espressioni di vera cattiveria. Non c’è più amore nel suo sguardo, non c’è più traccia di quelle lacrime appena accennate ma brillanti che illuminavano i suoi occhi in un'altra indimenticabile scena che sul grande schermo diventa stupefacente (quando la vede uscire dal bagno finalmente trasformata di nuovo in Madeleine) e capiamo che anche in quel momento non c’era vero amore se non per se stesso e per la propria ossessione, così come ora salendo le scale del campanile il suo sguardo trasmette solo odio e volontà di sopraffazione. L’unico amore che esprime è quello per la riconquistata padronanza di sé (destinata giustamente a durare poco) e per il presunto controllo sui propri demoni.


Vèrtigo - "La Donna che visse due volte" - Hitchcock
Così la tragedia finale, che è sempre apparsa particolarmente "cattiva", dopo la visione dell’intero incubo proiettata così come era stata pensata e realizzata (anche nelle dimensioni) diventa l’unico finale possibile, inevitabile e ineludibile.
Ci si trova davanti ad un effetto quasi identico, ma per certi aspetti anche peggiore, a quello già vissuto proprio a proposito del precedente restauro hitchcockiano: la scena finale de “Gli uccelli”, Melanie attaccata nella soffitta, altro non è che uno stupro, e anche la scena finale di Vertigo lo è. Hitchcock ci sta mostrando da 50 anni James Stewart (James Stewart! Il vicino di casa che tutti vorremmo avere!) che violenta una donna fino alle più orribili e tragiche conseguenze!

Si potrebbe continuare all’infinito, come infinita è la spirale. I capolavori sono tali proprio perché le letture e le scoperte sono destinate a non avere fine.
Quello che si può ancora dire è che questo genere di visione spazza via ogni volta in un sol colpo la sensazione di “nostalgia” che a volte accompagna anche i più convinti appassionati di cinema nei confronti di certi capolavori del passato. 

Film come questi non sono semplicemente opere d’arte perché hanno una patina “mitica” o perché ci si sorprende di quali virtuosismi siano stati capaci gli autori nonostante mezzi tecnici a dir poco primitivi rispetto a quelli odierni. 
In realtà quel che ci si trova a guardare sono opere totalmente fuori dal tempo e da ogni classificazione, e non stupisce che all'epoca non siano subito piaciute e abbiano avuto bisogno di anni per essere comprese, perché la loro ricchezza, complessità, originalità e spessore sono ancora oggi difficilissimi da trovare anche nelle opere più moderne e apparentemente più ardite. Pochissimi attori avrebbero il coraggio di interpretare personaggi del genere, e ancor meno registi sarebbero in grado di fare film così, per non parlare di produttori disposti a finanziarli. La verità è che, oggi come allora, artisti e opere d’arte brillano di luce propria rispetto alla media delle creazioni, anche delle migliori, perché è rarissimo trovare insieme in una unica creazione artistica così tante componenti ai massimi livelli di espressione. Questo è uno di quei rari casi, perché Hitchcock era un artista totale, e Vertigo è un’opera d’arte che ancora oggi impressiona e stupisce.

Poter ancora ammirare opere come queste nel loro splendore originale è una fortuna che ha un valore inestimabile.



giovedì 23 maggio 2019

Il gioco dell'arte


di Alessandro Borgogno

“Andiamo Watson, il gioco è cominciato!”


È una frase iconica, uno di quei colpi di genio che i grandi scrittori inanellano nei loro scritti e che rendono ancora più immortali le loro creazioni. 

È la frase che Sherlock Holmes dice spesso al suo amico fidato quando si inizia la caccia al colpevole di qualche nuovo e inspiegabile delitto. Ed è in quel “è cominciato” che risiede il genio. Improvvisamente, talvolta senza che ce ne siamo ancora resi conto, ci dice che non stiamo vivendo una prefazione, un preludio, una preparazione. Ci dice che la corsa è già iniziata, siamo già in partita e probabilmente siamo già alla rincorsa, dobbiamo recuperare con l’astuzia, l’ingegno, la rapidità di pensiero e di azione per raggiungere un colpevole che già sta sfuggendo. Raggiungerlo, superarlo, fermarlo e consegnarlo alla giustizia. È una frase che in mezza riga ci precipita nel vivo di un’avventura che non ci lascerà più il fiato fino alla sua conclusione, spesso spettacolare, a volte imprevedibile e a volte grottesca, mai banale e scontata.

La frase, giustamente e inevitabilmente, non ce la risparmia neanche Luana Petrucci nella sua messa in scena, per il laboratorio teatrale ragazzi “Carpe Diem – Teatro e altre arti”, di una ennesima e inedita avventura (per gli appassionati, un “apocrifo”, e d’autore) del grande detective dilettante di Londra.

Sabato 18 e domenica 19 maggio, al teatro Grassi di Marino, abbiamo potuto seguire “Sherlock Holmes e il caso dell’ape tatuata”, un lavoro di Luana e dei suoi fenomenali ragazzi che ha riportato sul palcoscenico le gesta, i tic, le manie, le geniali intuizioni e la grande lotta al crimine del più grande investigatore della storia della letteratura.

Ne scrivo necessariamente una recensione di parte, non solo perché conosciamo Luana e i suoi ragazzi e li seguiamo ormai da anni sempre con maggiore piacere e soddisfazione, ma anche perché in questo caso la scrittrice e regista mi ha anche voluto coinvolgere fin dal concepimento del copione - approfittando della mia passione quasi patologica per l’opera di Conan Doyle - per consigli, indicazioni, suggestioni, e poi per la mia parallela passione fotografica, tanto da utilizzare proprio le mie foto (scattate a Londra al 221b di Baker Street, dove la fenomenale casa-museo di Sherlock materializza la fantasia letteraria in una realtà ormai indistinguibile dalla finzione; e alle cascate Reichenbach in Svizzera, teatro di uno dei più epici scontri della storia della letteratura poliziesca) per trovarvi atmosfere e indicazioni per la bellissima scenografia realizzata da Sara Botti e Sauro D'Annibali e illuminata e “sonorizzata” di volta in volta dall'oscuro ma preziosissimo lavoro di Franco Schettini e farle diventare scenografie esse stesse, proiettate sullo sfondo del palcoscenico a ricreare e richiamare gli ambienti nei quali si muovono i molti personaggi della storia. Un’emozione nell'emozione che ancora una volta Luana è riuscita a regalarmi.

Non sarò obiettivo quindi, ma anche a volerlo essere sarebbe impossibile non ammirare il lavoro appassionato e rispettosissimo di tutta la compagnia nel curare ogni minimo particolare della scena o del carattere dei personaggi, nel dare loro nuova linfa e caratteristiche originali senza mai tradire i  prototipi, nel districarsi in una trama complessa e contorta imponendo sempre agli spettatori la giusta attenzione, e mantenendo per tutta la durata un ritmo costantemente “andante mosso”, alternando con ammirevole equilibrio le risate, il dramma, l’azione, la riflessione, il grottesco e il tragico.

Per chi come il sottoscritto conosce a memoria tutto il “canone” holmesiano e anche diverse sue “derivazioni”, ritrovare ad ogni angolo citazioni (quella in testa all'articolo è solo una delle più celebri), reinterpretazioni originali dei suoi casi più famosi o dei suoi personaggi più celebri, reinvenzioni ad incastro di alcuni fra gli elementi estratti con arguzia dalle sue storiche avventure, è stato davvero un piacere continuo.

Occorre però, e con piacere, spendere qualche parola per i formidabili ragazzi che Luana mette sul palcoscenico ogni volta di fronte a prove sempre più ardite e che ogni volta le affrontano e le superano con uno spirito e una determinazione non da semplici allievi, ma da veri attori maturi e consapevoli.

Partiamo naturalmente da Sherlock, impersonato dal giovanissimo Matteo Cippitelli che ne riproduce brillantemente tutte le manie e le nevrosi. Imperdibili le sue espressioni di noia o di insofferenza quando qualcuno dice o fa delle cose che lui considera perdite di tempo (come disperarsi per la morte del proprio marito:-)). Francesco De Fabiani nei panni del fido dottor Watson contrappunta di continuo, a volte anche solo con una presenza apparentemente silenziosa (ma sempre spettacolarmente espressiva) l’ingombrante protagonismo del detective, regalandoci scenette di coppia a volte davvero esilaranti, come la lotta furibonda con la pistola dove uno tenta di sparare, e l’altro cerca di impedirglielo, alla noiosa e saccente esperta di api (Edith Cragwell), interpretata da una bravissima e giustamente inquietante Benedetta Bulgarini, lanciata in una prolissa spiegazione scientifica in stile SuperQuark (con puntuale colonna sonora sulla quarta corda).

Imponente, ironico e minaccioso al punto giusto, Gioele Testa incarna un azzeccato professor Moriarty, il nemico giurato di Sherlock, il “Napoleone del crimine”, dotandolo di un trasformismo e di una presenza scenica che restano impresse. Con lui, complici sotto svariate mentite spoglie, una scoppiettante Flavia Lepizzera (ormai una delle presenze più costanti e significative nella compagnia) che dà vita alla presunta moglie della prima vittima (Olivia West) per poi rivelarsi astuta e pericolosa antagonista del Nostro e poi finire infine vittima essa stessa del grande criminale, in alcune delle scene più drammatiche e al tempo stesso divertenti, e una brillante e luminosa Ludovica Gosti nei panni dell’ambivalente giornalista Kitty Riley, anche lei manovrata dal malvagio Professore.

Nel via vai rutilante di personaggi che ruotano intorno alla vicenda e invadono di continuo il mitico appartamento di Baker Street, l’impeccabile Sofia Porfiri, una perfetta signora Hudson, entra ed esce, spolvera e serve il tè, e soprattutto critica, commenta e bacchetta l’ingestibile detective come forse solo a lei, fin dai racconti originali di Conan Doyle, è permesso fare. E con lei partecipano al carosello Moira Ulisse alias Mary Morstan, una convincente futura signora Watson che cerca in ogni momento di riportare i due coinquilini agli aspetti più umani e quotidiani della vita e dei rapporti fra le persone; Sofia Patrignanelli che nei panni di Betty Lamotte materializza una seconda (stavolta autentica) fidanzata della vittima che contribuisce in modo determinante a rendere ancora più ingarbugliata la matassa da svolgere; Sofia Padoan che interpreta il medico legale Molly Hopper, delicata e gentile a dispetto della sua professione, determinante nell'analizzare i dettagli dei cadaveri e animata da un rapporto di amicizia e “quasi” affetto del tutto particolare con l’intrattabile Sherlock; Sarah Simeoni che nel ruolo di Sybil, enigmatico personaggio che sa e vede molte cose ma le dice sempre in modo obliquo tanto da necessitare sempre di interpretazione, apre la storia entrando in scena cantando “Scarborough fair” e regalando subito a tutta la storia la sua atmosfera ambigua e piena di ombre; e poi i tre simpaticissimi “irregolari di Baker Street”, Wiggins, Tom e Tam, rispettivamente Lisa Bertinaria, Pietro D’Annibali e Amira Degli Esposti, sguinzagliati per le vie di Londra a cercare indizi fra la spazzatura, personaggi degni delle migliori comiche britanniche (che infatti Luana fa muovere sulle note di una delle classiche melodie usate nei vecchi film di Chaplin, mostrando ancora una volta il suo sconfinato e giustificatissimo amore per il grande Charlie, altro nome illustre del nutrito elenco di geni inglesi del cinema e della letteratura). 

Una parola in più per la piccolissima Lisa, che nei panni di Wiggins prende su di se anche il compito di raccontare in appositi intermezzi i rimandi e i collegamenti principali con l’opera originale di Conan Doyle, dando vita a quegli aspetti didattici e di diffusione delle conoscenze a cui Luana non rinuncia mai in ogni suo lavoro.

Infine, una menzione quasi “d’onore” per due delle “veterane” del gruppo (e parlare di veterane per delle ragazze davvero giovanissime fa sempre un po’ sorridere) che ormai sono davvero una sola cosa con la loro autrice e regista e ne rappresentano spesso le complici più consapevoli e consolidate; Claudia Moroni, con la consueta e dominante presenza scenica, si cala nei panni del personaggio forse più originale, una Hannah Doyle (che omaggia col suo cognome il creatore di tutto questo universo), mai esistita nei romanzi ma che racchiude brillantemente in un unico carattere l’ufficialità di Scotland Yard e dei Servizi Segreti inglesi e l’ingombrante figura del fratello Mycroft (che è uno dei tanti colpi di genio di Conan Doyle), riproducendone l’invadenza, la superbia, l’intelligenza sottile, la visione ampia e diversificata della realtà, e il modo un po’ sprezzante di trattare Sherlock come fosse uno che gioca con problemi di poca importanza mentre questioni ben più cruciali urgono di essere affrontate; Gaia Piatti, che invece impersona una versione quasi onirica della mitica Irine Adler, di eleganza e ambiguità fatali, che ormai risiede stabilmente nei pensieri di Sherlock e quando si materializza in scena sembra ancora essere l’unica a riuscire a metterlo davvero in difficoltà, confondendolo inevitabilmente con un carico quasi insostenibile di fascino e di intelligenza emanati in egual misura.

Sherlock Holmes e il caso dell’ape tatuata - Carpe Diem – Teatro e altre arti
Non posso non concludere con alcune considerazioni che ritengo davvero importanti: il lavoro di Luana, continuo e incessante, mette in circolo e in comunicazione fra loro energie e conoscenze brillanti e mai banali. Per questo è un lavoro prezioso e vitale, e per questo va sempre sostenuto ogni volta che se ne ha la possibilità. In questo specifico caso, avendo seguito e in parte vissuto “real time” anche concezione e sviluppo di questo progetto non posso evitare di pensare a quanti e quali punti di partenza sparsi nel tempo e nel spazio (anche geograficamente molto distanti) si sono intrecciati e infine coagulati in ciò che abbiamo visto e vissuto in questo weekend di teatro. Per quanto mi riguarda ci sono cose che partono dalla lontana passione letteraria e dalla mia simbiosi fotografica con i luoghi che visitiamo io e Anna durante i nostri viaggi, c’è un viaggio a Londra, dove proprio Anna mi volle portare,  e un altro recentissimo in Svizzera proprio sulle tracce di Sherlock, ci sono confronti di opinioni e di immagini con Luana, e anche messaggi scambiati questa estate durante le riletture dei testi di Doyle, c’è il suo modo di guardare le mie foto e di trarne ispirazioni e soluzioni per le sue creazioni, e poi copioni in bozza su cui scambiare opinioni, e ci sono molte altre cose ancor meno tangibili ma assolutamente necessarie a far circolare le idee, a contaminarsi di continuo perché dall'unione, a volte anche dalla confusione, di tutti questi elementi sparsi possa poi coagularsi qualcosa di nuovo e di assolutamente originale, qualcosa che finisce per arricchire tutti quelli che ne vengono a contatto.

Arricchiti e consapevoli che, appena finito un gioco, ce n’è già un altro pronto a cominciare.

E allora andiamo, Watson!


Altre foto dell'evento qui


domenica 14 aprile 2019

Vendere casa al tempo di Amazon

Quando abbiamo cominciato a pensare alla vendita della nostra casa di famiglia mi sono resa contro fin da subito che era forse necessario per la mia salute mentale fare un piano;-).

L’acquisto o la vendita di una casa è un processo lungo  e complesso, che richiede montagne di scartoffie, valutazioni attente, il coinvolgimento di professionisti, comunicazione puntuale, accurata gestione delle visite e potrei continuare... 

La compravendita di una casa necessita soprattutto di spendere in maniera proficua il poco tempo che normalmente ognuno può dedicare all'incontro tra domanda e offerta (un mio amico prima di comprare casa ne ha visitate una sessantina) così mi sono detta che operando con assoluta trasparenzaeliminando qualche passaggio e semplificando per quanto possibile questa fase del processo c’era forse speranza di uscirne quantomeno indenne;-) per cui:

1. Le principali informazioni relative all'immobile sono sintetizzate in questa pagina.
2. L'agenzia di zona può fornire tutta la documentazione necessaria, rispondere a richieste di approfondimento sulle caratteristiche della proprietà o fissare un appuntamento per un sopralluogo.

Avvertenza: è una grande casa di campagna indipendente con giardino e terreni, se nella vita preferite fare altro che guidare un trattorino o instagrammare conserve bio fermatevi pure qui:-).

Dove si trova
Ubicazione immobile via Mezzano Sora (FR)



L’immobile si trova nel comune di Sora, a 5 minuti in auto dal Centro Commerciale “La Selva” e poco distante dall'ingresso della superstrada Sora – Frosinone. 

Si tratta di una grande casa indipendente sviluppata su tre livelli con annesso giardino circostante, ampio spazio esternoterreno agricolo in parte adibito a uliveto per altri 6000 mq perfettamente organizzati.

L’immobile, a cui si accede con un comodo viale d’ingresso, è stato progettato per ricavarne due appartamenti autonomi e trasformarlo facilmente in villa bi-famigliare. 

Viale d'accesso



Stato dell'immobile
Immobile via Mezzano 30B Sora FR
Una delle due unità è ristrutturata e abitabile da subito, la seconda è in corso di costruzione.

L’appartamento al primo piano è costituito da: ingresso, corridoio, cucina, ampio salone, tre grandi camere da letto, servizi, balconi. 

L’appartamento al secondo piano ha pianta simile ma si presta ad accogliere le diverse esigenze dei futuri proprietari. 

Al piano terra altre tre stanze, oltre al garage e cantina, possono essere adibite agli usi che si desidera.

Uliveto

Giardino

Servizi, luoghi di interesse, potenzialità
Immersa nel verde e nel silenzio, la posizione ne garantisce un ottimo equilibrio tra desiderio di tranquillità e accesso ai principali servizi: in 5/10 minuti si raggiungono negozi, ristoranti, pub, pizzerie, cinema, farmacie, servizi pubblici (ospedali, cliniche, ASL, …) e luoghi di svago: il lago di Posta Fibreno con la sua isola galleggiante naturale, la cascata di Isola del Liri, la Certosa di Trisulti, l’ Acropoli di Arpino, l’Abbazia di Casamari, l'Abbazia di Montecassino, il Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise. 

Informazioni
Master casa Studio Immobiliare

Foto

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