mercoledì 28 ottobre 2015

Gran Torino

Mi pare fosse il 2005 o forse prima.

Ero stata invitata a Torino, insieme a una collega, a tenere un workshop sul Customer Relationship Management, nella sede di una società partner dell’azienda per cui lavoravamo a quel tempo.

Il tema non mi preoccupava: avevo fatto abbastanza presentazioni a destra e a manca, dai dipendenti della Pubblica Amministrazione Locale di Potenza agli Account Telecom dislocati nelle sperdute periferie romane, da non temere figuracce. Almeno così credevo.

Tornando con la memoria a quella mattina rivedo me e Ilaria fare i controlli di routine: PC, proiettore, ripasso veloce delle slide, caffè (Ilaria), caffè e sigaretta (io), brochure, biglietti da visita, ultimo giro dell’applicazione. 

La sala si riempie, saluti, presentazioni, silenzio, si comincia. 

E all'improvviso non ho più saliva. Niente, finita, puff! Tento inutilmente di inghiottire, non riesco ad articolare parola, guardo le 50 paia di occhi e ho l’impressione che sappiano esattamente quello che sta succedendo. Afferro un bicchiere d’acqua, mando giù un sorso, Ilaria introduce, io seguo, il cuore si placa, la voce trema appena, poi continuo spedita.

Torino.

Sto coltivando il desiderio di ripassare da Torino da quel primo incontro, nel lontano 2005. Non ci sono più tornata ma ogni anno, a Natale, con le prime nevi, mi prende la smania di andare a passeggiare al Parco del Valentino, di ordinare una cioccolata calda in un caffè che si affaccia sulla strada, di gironzolare nella nebbia serale alla ricerca di una donnola gigante e di un posto per chiacchierare fino a tardi. Sistematicamente se qualcuno mi chiede “che fate a Capodanno?” rispondo: “Sto pensando di andare a Torino” ricevendone in cambio un’occhiata perplessa e l’immancabile domanda: perché Torino?

Leggo in questi giorni che la Fondazione Musei ha deciso di sperimentare la realtà virtuale e l’app di una giovane start-up permetterà la visita di alcune sale in 3D. 

È solo un ulteriore elemento che va ad aggiungersi agli altri che sto lentamente stratificando e che fanno la mia personale percezione di questa città. Percezione che è il risultato di quell'unica visita, delle informazioni raccolte e immagazzinate negli anni, delle persone che ho incontrato nella vita “reale” e “virtuale”, del liquido bianco e del liquido blu che si mischiano nella bottiglia (cit. Rudy Bandiera).

Certo, una città vista da turista è cosa diversa da una città che si vive ogni giorno, magari da pendolare. Prendere una metro affollata o lanciarsi in autostrada dopo aver sbrinato il parabrezza dell’auto con la carta di credito non è come fare colazione in hotel e poi uscire nella folla con lo spirito del flâneur. 

E allora, quando qualcuno mi chiede “perché Torino?” penso al ghiaccio della Fontana dei Ceppi, al rumore dei miei passi nelle vie pedonali del centro storico, a Paola e Ilaria, alla Stura e alla Mistura, a Calvino e Pavese, ai 100 occhi, ai visori 3D e rispondo: è per i gianduiotti... :-)
Torino, Parco del ValentinoFoto:

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mercoledì 21 ottobre 2015

Il villino sul colle

Si dice che quelli che raccontano storie sono quelli che sanno ascoltare, perché raccontano storie che hanno già ascoltato. Spesso la voce che ascoltiamo è quella della nostra famiglia, dei nonni, genitori, cugini, la voce degli affetti più cari e dei luoghi della nostra vita.

Capita poi di affannarsi nella ricerca di suggestioni lontane, attratti dall'esotico, dall'inconsueto, dall'incantesimo e allora la voce narrante si affievolisce fin quasi a scomparire, ma basta un attimo di silenzio e il suono riemerge prepotente.

Sabato scorso ero alla commemorazione di Paolo Zapelloni alla Casa del cinema di Villa Borghese

Ho ascoltato raccontare la storia di un uomo “che aveva deciso di dedicare la sua vita ad una unica e immensa passione, il cinema. O ancora meglio i film” e ho percepito con molta chiarezza il mio attimo di silenzio e poi il ritorno di una voce: quella di una grande casa sul colle Aventino. 

Questa storia parte dunque da lontano, da due sorelle di una nobile famiglia ligure, Paola Bianca e Maria Luigia detta Lisa.

Poco prima della Grande Guerra, nel 1914, Bianca decise di venire a studiare a Roma lasciando le comodità del suo rango e abbandonando così la possibilità di sposare un nobiluomo di alto lignaggio. Lisa la seguì.

Bianca aveva vent'anni, era nata nel 1894.

Venne a Roma per studiare al Magistero (l’università di lettere dell’epoca per le donne, c’erano delle distinzioni allora:-)) contrariamente a quello che facevano le nobildonne del suo tempo e della sua estrazione. Ebbe come docente di Letteratura Pirandello, completò tutto il corso di laurea ma non fece la tesi. Decise di non laurearsi perché sapeva che un titolo non le sarebbe servito a niente, perché sapeva che la sua condizione le avrebbe impedito in ogni caso di lavorare. Era venuta a studiare al Magistero solo per imparare.

A Roma conobbe Cesare (dirigente del Comune di Roma) che però partì subito per la guerra del 15-18. Si sarebbero sposati al suo rientro, nel 1919. Ebbero 8 figli, 2 maschi e sei femmine che a loro volta hanno avuto, finora, in tutto circa 70 tra figli, nipoti, pronipoti (l’elenco si aggiorna di continuo). 

Ogni anno, due volte l’anno, a Natale e in Primavera (alla ricorrenza della sua nascita), tutta la famiglia si riunisce al Villino sul colle Aventino per rispettare la tradizione familiare fortemente voluta da Bianca. 

Tra lo scambio dei regali per i bambini e le chiacchiere delle sorelle le narrazioni corrono, si intrecciano, risuonano, alcune sfuggono, qualcuna si riesce ad afferrare. 

Una di queste è la storia di Paolo, il primo dei nipoti di Bianca, che ci teneva a ricordare di essere nato, per pochi giorni, quando in Italia c’era ancora la Monarchia. 

Paolo, detto Zap, l’uomo che guardava i film.


Paolo Zapelloni - Ritratto di famiglia



Approfondimenti:

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mercoledì 14 ottobre 2015

Lettera aperta a Riccardo Falcinelli: il bat-dog, la grafica olandese e Pinterest

 “Quando a qualcuno non piace la mia grafica poi viene fuori che gli piace la grafica olandese. Per questo non la prendo mai sul personale. A me la grafica olandese sembra sempre il file di un surgelato a cui sono saltate le font.”
Dal post del 09-07-2015 nella bacheca Facebook di Riccardo Falcinelli

Faccio una debita premessa: quello che so di grafica corrisponde più o meno a qualche approfondimento qua e là (da quando scrivo in queste pagine) e a quanto ho letto nella Critica portatile al visual design di Riccardo Falcinelli, per il quale nutro una venerazione paragonabile solo alla mia passione adolescenziale per Simon Le Bon dei Duran Duran.

Detto questo, nel corso della lettura del libro ho appuntato diligentemente una serie di note per futuri approfondimenti (a cominciare da Saul Bass di cui qualcosina mi era già nota per via della passione di Alessandro per Hitchcock) e armata dei miei post-it, ho continuato ad accumulare materiale come un castoro del Canada gli aghi di pino finché, una mattina di luglio, condivido sulla mia pagina Facebook la foto di un interno scandinavo con un quadro poggiato sul pavimento contenente quello che una follower ha acutamente e prontamente definito “Bat-dog”.

È stato un po’ come quando si torna a percepire un rumore di sottofondo: da quel momento una moltitudine di immagini, per lo più di interni scandinavi (a cominciare dalle migliaia accumulate nel corso dell’ultimo anno nella mia bacheca Pinterest) sembravano animate da una grafica derivante da una moderna evoluzione delle chimere

Mi era capitato in passato di vedere nella vetrina di un negozio in Baviera, a Garmisch per l’esattezza, la perversione di alcuni oggetti che sembravano creati dalla mano di un nostalgico Frankenstein: membra di animali diversi combinati insieme per creare mostri o je ne sai pas quoi. Qui però l’eleganza del “tratto” e una sorta di spersonalizzazione dell’ambiente rendeva la faccenda più ambigua. Un interno immacolato, minimalista, ammantato di una luce tenera e fiabesca, innocuo, quieto e tranquillizzante. Funzionalità e bellezza, rigore e leggerezza. E se c’è un lato oscuro (dov’è il lato oscuro?) non può che essere questo: il Bat-dog.

I moderni grafici del nord Europa come novelli Dorian Grey? :-)

Bene, mi sono detta, proviamo a capire se è percorribile una strada "Falcinelli-grafica-Bat-dog" per un post.

Poi leggo sulla sua bacheca di Facebook quello che pensa della grafica olandese, guardo sconsolata i miei foglietti con gli appunti (alcuni delle sei del mattino) “grafica-olandese-design-scandinavo-Bat-dog” e a questo punto si pone un problema: li riduco in piccoli pezzi e li ingoio? Rispondo con un commento al post? Questa opzione l’ho scartata subito: se poco so di grafica, nulla so di grafica olandese, fatto salvo che Escher è un grafico e incisore olandese, ma non so se prendere Cornelis come unico riferimento sia effettivamente pertinente…

L’unico modo, mi sono detta, è provare a spiegarglielo

Ecco, caro Riccardo, è andata più o meno così ed è probabile interessi qualcuno solo per chiedersi se non era invece il caso di lasciare semplicemente un commento nella tua bacheca. :-)

Per concludere, sperando di farti cosa gradita, ho provato a “studiare” le ricorrenze nella decorazione negli interni scandinavi su Pinterest (non solo quelle a contenuto grafico) di stampe, quadri, poster ecc. 

Questa è la mia personalissima classifica, non esaustiva e priva di qualunque rigore scientifico:
  • Le immancabili corna di cervo
  • La croce della bandiera svizzera. Presente un po’ ovunque, dai plaid ai poster, ai copripiumoni, alle suppellettili. In alcuni casi addirittura insieme alle corna di cervo e alla “mano degli Addams”, preferibilmente in legno chiaro.
  • La foto di Kate Moss agli esordi, per intenderci quella del servizio sulla spiaggia di “The Face” che ha mandato definitivamente in soffitta gli anni 80 (al contrario dei 60 che sopravviveranno, a detta di qualcuno, almeno fino al prossimo concerto di addio dei Pooh).


  • L’ uccello nero (il Vitra Eames House Bird by Charles and Ray Eames. Un piccione, pare, ma secondo me non gli somiglia per niente).


  • Questo onnipresente “sguardo”  (dal blog di Elisabeth Heier, interior designer,  stylist e blogger).


Per quelli che invece vogliono un interno veramente di tendenza, meglio poggiare l’opera dove capita. Ho provato anch’io: ho messo una stampa su una sedia all’ingresso con il risultato che chiunque viene a trovarci chiede: “ma devi attaccarlo quel quadro?” ;-)

Un abbraccio
Anna

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giovedì 8 ottobre 2015

La maison au bord de mer: E.1027

Uno dei motivi di rammarico del mio ultimo viaggio è stata la rinuncia a due delle tappe pianificate per il primo giorno.

La prima tappa è legata all’immagine di un distinto signore inglese seduto nel suo giardino di Mentone, le Clos du Peyronnet.

Il giardino è privato ma visitabile su prenotazione e per giorni, prima della partenza, avevo fantasticato di passeggiare insieme al tramonto, nel parco della sua villa, chiacchierando piacevolmente mentre mi mostrava con orgoglio le fioriture estive fino alla meravigliosa pergola con un glicine centenario che da solo vale l’attraversamento di mezzo stivale. 
Sir William Waterfield

Nella realtà, in quel pomeriggio al crepuscolo, la scena era più o meno la seguente: incolonnati in un fiume di auto al confine tra Italia e Francia, il conducente procedeva a passo d’uomo e imprecava contro un’algida donzella alla guida di un Hummer con targa tedesca (non si sa se per la mole del mezzo o per la targa tedesca) che cercava, per imperscrutabili motivi, di tagliare in diagonale la fila davanti a noi. Alla mia ipotesi che forse doveva raggiungere il Telepass la risposta (del conducente) è stata più o meno: “no, è che vuole rompe’ li cojoni…”. Potere della sintesi. 
Così ho detto mentalmente “arrivederci” a  Sir William Waterfield, incrociando le dita affinché resti arzillo e in buona salute, almeno fino al prossimo giro in costa azzurra.

La seconda tappa della mia ottimistica mappa prevedeva invece la visita a quel capolavoro di modernismo che Eileen Gray costruì a Roquebrune-Cap-Martin per il suo giovane amante polacco, la E.1027.

La villa, come la sua proprietaria, ha una storia appassionante.

E.1027

Eileen Gray (Enniscorthy, 9 agosto 1878 – Parigi, 31 ottobre 1976) discendente di una ricca famiglia irlandese è stata una talentuosa pioniera del design e dell’estetica dell’ International Style o Movimento Moderno (insieme a Le Corbusier, Ludwig Mies van der Rohe, Walter Gropius, Frank Lloyd Wright e Alvar Aalto), fu una delle prime studentesse ammesse alla  Slade School of Fine Art, una delle prime donne a sfoggiare un taglio “alla maschietto”, a fumare in pubblico, a sedere nei caffè, a guidare l’auto. Fu una delle prime ad affrontare un volo in aeroplano e a 80 anni suonati pare volesse comprarsi una Vespa.

Negli anni 20 del novecento aprì un atelier a Parigi e cominciò a realizzare mobili in legno e lacca che ebbero uno straordinario successo, un traguardo reso ancora più sorprendente dal fatto che il mondo della progettazione e della produzione industriale di inizio novecento non era certo popolato da tailleur e tacchi a spillo. 

Qualche anno dopo (1924),  incontrò Jean Badovici, architetto e intellettuale di quindici anni più giovane di lei, direttore della rivista L’Architecture vivante con cui iniziò una liaison e lo studio di una villa au bord de mer in Costa Azzurra, la E. 1027 appunto, così denominata per la combinazione numerica delle iniziali dei due amanti.

Fin qui una donna colta, ricca, libera, anticonformista e disinibita, indipendente, di talento e dichiaratamente bisessuale che progetta secondo canoni rigorosamente “moderni” (toit terrasse, pilotis, fenêtre en longueur,…) e con passione quasi ossessiva (per tre anni alloggiò in un piccolo appartamento a Roquebrune, dedicandosi anima e corpo al cantiere) una casa per il suo Jean.

Qualche anno dopo, nel 1938, come in ogni feuilleton che si rispetti, i due si lasciano.

Ed è a questo punto della storia che entra in gioco una delle figure più influenti dell’architettura del secolo scorso, il maestro del Movimento moderno, il padre dell’urbanistica contemporanea, uno dei primi fautori del razionalismo architettonicomonsieur Le Corbusier,  amico di Badovici che invitato da quest’ultimo, decide di mettersi a dipingere sui muri candidi della villa

Nudo.

Otto murales con disegni sessisti che ironizzano sulla bisessualità della Gray e sulla natura del suo rapporto con l’amante. E si fa fotografare mentre lo fa. Selfie ante litteram, con pisello al vento.

Eileen Gray si dice non amasse gli spazi neutri e freddi di Le Corbusier ma evidentemente condivideva con quest’ultimo la stessa ossessione per la E.1027.

Eileen, dopo i graffiti, non mise mai più piede nella Villa. 

Morì all’età di novantotto anni nel suo appartamento di rue Bonaparte a Parigi mentre la maison au bord de mer dopo essere stata abbandonata, usata per le esercitazioni di tiro dall’esercito tedesco, svuotata da un proprietario morfinomane trovato morto (ucciso dal giardiniere) sul pavimento del soggiorno (o della veranda) e depredata dai vandali, nel 1998 fu finalmente dichiarata monumento storico. Ironia della sorte proprio per via dei graffiti di Le Corbusier. 

I graffiti sono stati restaurati e la villa, ristrutturata, è oggi aperta al pubblico.

Di tutta la storia è stato realizzato anche un film “The price of desire” di Mary McGuckian che aprirà quest’anno la rassegna del Milano Design Film Festival
E.1027

E.1027

E.1027 - Disegni Le Corbusier

E.1027

E.1027 - Disegni Le Corbusier

E.1027

E. 1027

E. 1027

E. 1027

E. 1027 - Disegni Le Corbusier

E. 1027 - Disegni Le Corbusier

Fonti e approfondimenti:
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giovedì 1 ottobre 2015

Il labirinto di bambù e altre storie

Nel film Shining, sceneggiato da un romanzo di Stephen King, Kubrick introduce un elemento che non è presente nel libro: il labirinto.



Nella finzione cinematografica il labirinto simboleggia la mente del protagonista che sembra aver smarrito il filo di Arianna e la propria volontà razionale.

Il labirinto, con la sua simbologia e la sua intricata struttura che ricorda le impenetrabili circonvoluzioni del cervello, rinvia così inevitabilmente ai grovigli della psiche, ai mostri inquietanti che si nascondono al suo interno, agli enigmi che celano verità terribili e spaventose.” (Salvatore Campo,  Shining, Borges e il labirinto 2/2).

Ma il video racconta anche un’altra storia: quella del Labirinto della Masone, il parco culturale progettato da Franco Maria Ricci nella sua tenuta a Fontanellato, nei pressi di Parma, con gli architetti Pier Carlo Bontempi e Davide Dutto. Un dedalo che copre sette ettari di terreno, realizzato interamente con piante di bambù di specie diverse. 

Al centro, una piazza di duemila metri quadrati contornata da porticati e ampi saloni è pronta per ospitare manifestazioni ed eventi culturali mentre una cappella a forma piramidale ci ricorda che percorrere un labirinto è camminare nella transitorietà della vita umana verso la fede salvifica, senza perdersi nei meandri della perdizione e senza cedere alla tentazione del male.

Da sempre il labirinto parla della rischiosa complessità del mondo, di vita, di morte, di bene e male, di perdizione e redenzione; parla anche di solitudine, di angosce e paure, di misteri occulti e segreti gelosamente custoditi.” (Iliana Borrillo, Il labirinto come simbolo del viaggio entro e oltre il limite).

La scelta del bambù, dovuta alla passione del proprietario per questa pianta, finisce per avere un singolare effetto: il fogliame nasconde completamente la planimetria del labirinto, anche dalla visuale dalla terrazza. Si sale fino in cima muniti di obiettivi e armati di pregiudizio, pronti ad abbracciarne con lo sguardo il disegno, ad immortalarne l’immagine “globale” nel tentativo, ancora una volta, di riconciliare il limite e l’illimitato rappresentando l’infinito nello spazio finito di una foto o di una mappa. 

E invece… 
Parma, Labirinto della Masone

Il video iniziale di questo post racconta dunque di un labirinto nell’accezione moderna del termine, svuotato di significati simbolici (l’illusione di sospendere il tempo, il potere dell’uomo di domare il caos e dominare la natura, …) e in cui si entra pagando un biglietto d’ingresso, accompagnati da una mappa e con un numero da chiamare in caso di smarrimento; un luogo di svago e divertimento il cui percorso tuttavia non si compie uscendo ma continua all’infinito, nei collegamenti successivi, nelle parole scritte e affidate all’ultimo labirinto, quello del terzo tipoParole che troveranno un filo, ma non di Arianna, parole nomadi in sentieri erratici che si incrociano, si sovrappongono, si superano, si biforcano, si avvicinano, si allontanano senza compiutezza, girano a vuoto verso vicoli ciechi, vagano in mondi infiniti fuori e dentro di noi, in quell’ intrigo che supera il confine fisico della natura e riesce finalmente a realizzare la propria immortalità, fuori dal tempo. 

Dopo il labirinto classico unicursale che si srotola dall’ingresso al centro, e il labirinto manieristico o Irrweg, ricco di scelte alternative e vicoli ciechi,  il labirinto di terzo tipo è una rete, in cui ogni punto può essere connesso con qualsiasi altro punto. Una rete non può essere srotolata. […] estensibile all’infinito non ha né esterno, né interno. Poiché ogni suo punto può essere connesso con qualsiasi altro punto, e il processo di connessione è anche un processo continuo di correzione delle connessioni, la sua struttura sarebbe sempre diversa da quella che era un istante prima, e ogni volta si potrebbe percorrerla secondo linee diverse." (Umberto Eco, Dall’albero al labirinto. Studi storici sul segno e l’interpretazione.  Milano: Bompani, 2007). 
Parma, Labirinto della Masone

Parma, Labirinto della Masone

Parma, Labirinto della Masone

Parma, Labirinto della Masone

Parma, Labirinto della Masone

Parma, Labirinto della Masone


Approfondimenti:

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