Ieri sera ho trovato nella cassetta della posta il catalogo di una famosa azienda di cosmetici. In copertina tre bellissime donne sorridenti di età diverse e abbastanza indefinibili, di cui almeno una della generazione di mia madre, che di anni ne ha 65. Ageless marketing, si direbbe.
Si parla da tempo dell’invecchiamento della popolazione mondiale (entro il 2030 un miliardo di persone avrà più di 65 anni) e non si può non tenerne conto, a meno di non essere tra le aziende produttrici di cioccolatini che a giudicare dalle ultime campagne marketing sembra essere un prodotto destinato ad un pubblico non-anziano.
Giovanna Cosenza (in un bel saggio che trovate qui) ritiene che le barriere di età siano tra le più difficili da abbattere nei paesi più ricchi, assieme a quelle legate alla provenienza geografica e al genere sessuale. Anche su Internet Age, Sex e Location sono di solito le primissime domande con cui si comincia una chat, le coordinate minime (anche quando si mente spudoratamente).
È di questo mondo sfaccettato e multiforme che invecchia ma aspira al Trans-Age e coltiva fino all'ultimo interessi e divertissement, che qualcuno - governi, organizzazioni, aziende - comincia a preoccuparsi.
E quel qualcuno dovrà garantire l’economia della conoscenza, il soddisfacimento di bisogni primari e non, la risoluzione di problemi pratici: attraversare indenni estati roventi e inverni gelidi, utilizzare un mezzo pubblico progettato per chi si muove lento o con difficoltà di deambulazione, raggiungere facilmente il prodotto sullo scaffale, poter leggere un’etichetta che non sia scritta troppo piccola, coltivare la propria socialità e il tempo libero (cinema, musei, ristoranti, biblioteche, università, …), mantenersi in buona salute, non essere sepolti vivi nel cemento; dovrà proporre e sostenere nuovi modelli di ruolo (per noi signore possibilmente che non sia Milf), nuovi modelli di urbanistica sostenibili, nuovi modelli di verde urbano, nuovi modelli comunicativi; dovrà preservare il passato e la memoria; dovrà ripensare i consumi: si incrementeranno i sonniferi, le parafarmacie, i telecomandi, i corsi di pilates? Scompariranno le minigonne? Serviranno ancora le piste ciclabili? E il nonno vigile? Non si alzerà più nessuno in metropolitana? Smetteremo di tingerci i capelli?
Ma la cosa più difficile forse è immaginare che quei vecchi siamo noi. Noi che diciamo “perculare” e “spoilerare”, noi che cogliamo i segnali deboli, che ci innamoriamo ogni giorno per sempre su Internet e come mai prima infiliamo nelle chat sentimenti effimeri e assoluti che durano il tempo di una lucciola d’estate.
E allora quel qualcuno dovrà raccontare luoghi, città, paesi meno distopici e fantascientifici, luoghi popolati da quella umanità contraddittoria e sciagurata di cui tecnologie, innovazione, comunicazione, sono corollario e ausilio ma mai la questione principale. Che non è fatta di pixel instagrammati ma di ossa, carne, sangue, anima. E quella, si sa, non invecchia.
Per approfondimenti:
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Io sono quella che fugge.
Solo che non sono scappata dalla città come nel famoso film sulla vita, l'amore e le vacche ma il mio percorso è stato esattamente al contrario.
Posso annoverarmi tra i migranti, tra quelli che non restano, ma la domanda che mi frulla in testa da un po’ è: lo rifarei oggi, come 15 anni fa? Le motivazioni alla base della mia scelta, in primis la necessità di uscire da sistemi chiusi in se stessi, si possono considerare tutt'ora valide oppure andrebbero comprese, come qualcuno ha suggerito, tra le cazzate adolescenziali?
Si può decidere, senza rimpianti, di vivere in una grande città con tutti i suoi evidenti svantaggi? Traffico, difficoltà di parcheggio, inquinamento, mancanza di verde e contatto con la natura, burocrazia, indifferenza,… si può vivere immersi nella densità urbana, nei fotogrammi di Koyaanisqatsi e Blade runner? Non più migranti ma mutanti :-).
L’altra forte spinta alla fuga è sicuramente la necessità di trovare un impiego, ma oggi che siamo tecnologicamente abilitati a operare da qualunque posto, il lavoro diventa un pretesto?
Non solo.
[...] Oggi con pochi euro possiamo metterci in tasca un centinaio di grammi di plastica e tecnologia digitale. E sono pochi grammi che ci aprono la porta a un mondo fatto di nuove relazioni, di comunicazione, di accesso alla conoscenza. Di opportunità. Di sviluppo. […] (Lo diceva qualche anno fa Giuseppe Granieri in Potenza, città contemporanea).
Eppure.
Eppure il digital divide resta un tema attuale (per quanto se ne parli da un ventennio): una stima recente di Internet Live Stats situa la penetrazione globale della Rete al 40% circa della popolazione del pianeta. Una discreta percentuale non accede quindi al nuovo mondo e non si tratta, per dire, di portare i dirigibili in Africa ma di restare connessi a 90 km da Roma, anche in caso di vento forte. Altro che Knowledge economy.
E poi, se trascorriamo la maggior parte del nostro tempo davanti a uno schermo con la sigaretta accesa, che ce ne facciamo della natura fuori dalla finestra? Il giorno che dovessi pensare ad un percorso a ritroso voglio comprare una casa con giardino a Châtillon-sur-Cher per alzare gli occhi dal pc e guardare quantomeno un salice piangente, il fiume in lontananza e un airone cenerino immobile sulla riva.
E c’è sempre il forte rischio che la Ville Planète – la città mondo - come la definisce l’antropologo Augé, proprio per questa sua connotazione, si chiuda in se stessa replicando di fatto il problema da cui siamo partiti.
Come si esce da quest’impasse?
Non ho la pretesa di trovare, qui e ora, una soluzione. Tuttavia almeno per quanto riguarda chi scrive un pensiero a quelli che dicono: bisogna allargare la rete, ammetto di averlo fatto. Anche più di uno in verità.
Partendo quindi dal presupposto che è inutile distinguere tra “reale” e “virtuale”, posto che i piani li abbiamo mischiati da un pezzo, che proprio per questo abbiamo rivisto anche il nostro modo di pensare i luoghi, o i non-luoghi, posto che anche il tempo è un altro perché non abitiamo più un eterno presente ma esistiamo nell’ucronìa dei nostri feed, perché dovrei voler vivere fisicamente in una metropoli e virtualmente in una small town?
Soprattutto, chi può dire dove saremo tra altri 15 anni? E come cambieranno le regole del gioco? :-)
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di Alessandro Borgogno
Come spesso ci accade, torniamo sul luogo del delitto. Anzi dei delitti. Parlammo tempo fa, in questo post, delle case nel cinema e di come queste assumano un ruolo da protagonista in molti film giustamente famosi. Visitando Torino ne abbiamo approfittato per visitare alcuni di questi luoghi, in particolare quelli scelti da Dario Argento per il suo capolavoro thriller “Profondo Rosso”, del 1975.
Prima fra tutti, inevitabilmente, quella che nel film è chiamata “la villa del bambino urlante”, collocata dalla finzione cinematografica nei dintorni di Roma, ma che nella realtà si trova appunto sulle colline del capoluogo piemontese, a poche centinaia di metri dal Po e dal centro della città.
Dicevamo di lei: “…, quella villa, abbandonata ma custode di un segreto terribile, diventa per una parte importante del film assoluta protagonista, ed anche le musiche ineguagliabili di Gaslini e dei Goblin le assegnano un tema jazz-blues appositamente dedicato. La fanno vivere, muoversi, vibrare, e in qualche modo anche reagire ai tentativi di portare alla luce il suo mistero inconfessabile.”
Nel film appare abbandonata, ma in realtà era abitata anche negli anni settanta quando venne girato il film. Morto il proprietario che la fece costruire ospitò infatti a lungo un collegio femminile gestito dalle Suore della Redenzione, che per il periodo delle riprese furono mandate (suore e ragazze) in villeggiatura a Rimini a spese della produzione.
Chissà se dissero davvero alle suore soggetto del film e utilizzo che avrebbero fatto degli ambienti dove loro normalmente risiedevano.
Come spesso accade per i luoghi scelti dal cinema, la costruzione è notevole sotto molti aspetti. Costruita su incarico dell’industriale Alfonso Scott nel 1902 su progetto di Pietro
Fenoglio (uno degli architetti italiani più importanti della corrente Liberty) con la collaborazione di Gottardo Gussoni, è un esempio spettacolare di Liberty italiano, con una struttura complessa e movimentata, scalinate e incroci di piani e prospettive quasi a ricordare le architetture di Escher, ma a linee curve. Richiami neobarocchi e esplicite ispirazioni all'art-nouveau nordeuropea ne modellano bovindi e straordinarie finestre dove il dominio di ellissi e spirali di richiamo floreale ammorbidiscono la visione aumentandone però da ogni angolo la complessità (e, inutile negarlo, anche un certo senso di inquietudine).
Questo capolavoro “vivente” è stato acquistato da privati all’inizio del nuovo millennio, e restaurato con competenza ed attenzione. Essendo ormai una residenza privata non è quindi più visitabile, ahimè, però lo splendido stato di conservazione e la vista dall'esterno, circondata e protetta da un altrettanto magnifico parco-giardino, sono sufficienti a rendere il giusto omaggio al talento dell’architetto Fenoglio che la concepì e a quello del regista Argento che la scelse per materializzare i suoi incubi e per farli diventare anche i nostri.
La visita torinese ci ha permesso poi di proseguire sulle tracce dell’assassino, perché Argento utilizzò anche un altro luogo della città per alcune scene cruciali, e questo ci permette anche di fare una delle tante possibili “chiusure del cerchio”, soddisfacendo anche una delle altre nostre passioni, quella che cerca di accostare e mettere insieme architettura, cinema, fotografia e pittura.
Piazza C.L.N. , in pieno centro, con le sue fontane dalle enormi statue allegoriche dei fiumi (in particolare il Po) e i suoi portici e colonnati squadrati fa da scenario a molte scene del film. Il protagonista Mark (David Hemmings) vi abita e vi svolge diversi dialoghi importanti con il suo amico pianista Carlo (Gabriele Lavia). E soprattutto proprio in quel palazzo si svolge il primo orribile omicidio che scatena tutto l’intreccio. Mark lo vede proprio dalla strada in una delle finestre affacciate sui portici.
Infine, sempre sulla piazza, c’è anche il bar notturno dove Carlo suona il piano. Il Bar non esiste e non è mai esistito, lo fece costruire apposta Dario Argento per il film.
Ma così come per la casa di Psycho (come abbiamo raccontato qui) Hitchcock si ispirò probabilmente ad una casa ritratta in un famoso quadro di Edward Hopper, così Argento in questo caso fece ricostruire il bar incastrato sotto i portici torinesi ricreando esplicitamente struttura e luci di un altro ancor più famoso quadro di Hopper: “Nighthawks”, del 1942.
Il nome inventato per il film, “Blue bar”, con la parola “blue” ad indicare sia il colore che il significato musicale del termine “Blues” alludendo anche ad un particolare sentimento di tristezza e malinconia, pensiamo sarebbe piaciuto anche a Hopper.
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Il #giocodellecittà e #adotta1blogger
Quando Valeria mi ha proposto il #giocodellecittà, lei di Torino avrebbe raccontato il suo fine settimana a Roma, io di Roma avrei raccontato del mio Capodanno a Torino, ho detto “sì” senza esitazioni.
Con Valeria ci incontriamo da quasi un anno nei consueti percorsi digitali (social, blog, il gruppo Facebook #adotta1blogger, ...) ma non siamo ancora riuscite a vederci di persona, neanche nelle due occasioni in cui eravamo presenti nella stessa città, impossibilitate dai rispettivi impegni. Così abbiamo pensato di gemellarci :-).
Valeria è psicologa, psicoterapeuta e psicodrammatista junghiana e combina la professione con la passione per le arti visive - disegno, scultura, lavorazione della ceramica - con la scrittura e il teatro.
In fondo alla pagina il link ai suoi appunti di viaggio, di seguito i miei.
Del perché proprio Torino, ho detto in questo post.
L’albergo in cui abbiamo alloggiato ha una disposizione insensata degli spazi - bagno enorme, corridoio, ripostiglio – un terrazzo che affaccia sul fiume, un piccolo giardino, addobbato per l’inverno. Che poi l’inverno sembra quasi scomparso.
La fermata dell’autobus è poco distante e porta fino alla metro Rivoli (che io mi ostino a pronunciare con l'accento sull'ultima "i", come rue de Rivoli :-)). Il primo giorno sale una donna con passeggino e nipotina. Un fatto che sarebbe passato inosservato ai più, me compresa, se non fosse che offre il pretesto per una discussione, che si fa sempre più accesa, con un’altra passeggera, straniera dell’est. Quest’ultima afferma con forza la necessità, visto l’affollamento, di chiudere il passeggino perché la bambina è abbastanza grande mentre la nonna insiste che è ancora troppo piccola. Facile immaginare la reazione della maggior parte dei presenti, l’immediato sottolineare “straniera” e “ospite”, la sterile polemica che ne è seguita.
La bambina l’avevo guardata mentre stavamo aspettando l’arrivo dell’autobus, era adorabile, infagottata per far fronte al freddo inesistente, sorridente e curiosa. Non faccio fatica a immaginare che potesse somigliare alla figlia della donna che insisteva per far chiudere il passeggino. Quella che parlava era una madre umiliata mille volte da quella parola: ospite, la cui rabbia mascherata nella richiesta del rispetto delle norme non solo per gli stranieri ma per qualunque cittadino era profonda, dolorosa e la stava probabilmente trasmettendo ai propri figli, così come la nonna alla nipotina. “Avevo detto a tua madre che dovevamo andare a piedi” ha mormorato tra se e se. Con un brivido mi sono resa conto della reale portata di un episodio così apparentemente piccolo e quasi banale.
Ho scoperto in questo viaggio che a Torino è più facile incrociare un Malamute, un Border Collie o un Levriero Afgano che uno Yorkshire, che la musica è ovunque e il suono sinestetico di un violino che ti accompagna lungo un portico affollato di banchetti di libri ti fa desiderare di restare, che ci sono persone che cambiano la tua percezione delle cose così che un foglio che galleggia nel fiume può diventare una poesia…
Ho scoperto che si fanno molte code a Torino ma nessuna supera il livello di accettabilità, che ho stimato per i Torinesi in circa un’ora, che la fila più divertente è quella per prendere un bicerin nello stesso posto dove lo prendeva Cavour :-).
Ho scoperto, di me, che non voglio smettere di inseguire la bellezza, che la ricerca di un cappello ha più senso che trovarlo, che sono grata a chi mi fa superare il pregiudizio e alle amiche che incontro o che, di volta in volta, mi accompagnano in ogni nuovo viaggio.
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