mercoledì 30 marzo 2016

Happy Birthday Starbucks!

Pioveva a dirotto la mattina che arrivammo a New York. 

Usciti dalla Grand Station avevamo due necessità impellenti: un cappuccino e ripararci dalla pioggia.

È finita che il primo ricordo che ho di New York è quello di una giovane donna elegante in fila davanti a me da Starbucks: altezza media, longilinea, chignon basso, décolleté con tacco sottile, un tubino nero e l’aria indaffarata: businesswomen between 25-40 years old. Quando si dice la personificazione del target.

Mi sono sempre chiesta se non fosse una trovata di mister Schultz  o dell’ufficio del turismo, come i pescatori con cappello di paglia in barca a remi nei canali della Loira.

Il primo ufficiale del “Pequod” era Starbuck, nativo di Nantuket e quacchero di discendenza. Era un uomo lungo e serio, e benché fosse venuto al mondo su una costa ghiacciata, sembrava adattissimo a sopportare i climi caldi, essendo la sua carne dura come una galletta biscottata. (Herman Melville, Moby Dick).

Si dice che il nome Starbucks derivi da questo passaggio di uno dei più grandi capolavori mai scritti, del resto se il primo negozio fu aperto il 30 marzo 1971 a Seattle da due insegnanti e uno scrittore, qualcosa di più di  Kaffeina o Bar Sport era lecito aspettarselo.

Non è solo caffè, è Starbucks

Starbucks come lo conosciamo oggi è opera di Howard Schultz che nel 1987 ha rilevato l’azienda e l’ha ricreata trasformando un piccolo business locale in uno dei leader dell’industria del caffè. Oggi il gruppo conta oltre 17.000 punti vendita distribuiti in 49 paesi.

Non facciamo caffè e lo serviamo alle persone: diamo un servizio alle persone attraverso il caffè. Chiunque può aprire un bar ma il nostro business è basato sulla creazione di una connessione emotiva durevole tra di noi e con i nostri Clienti

Qualità del prodotto, qualità del servizio offerto: è la scommessa di Starbucks. Il clima è piacevole come a casa, l’ambiente è luxury ma accessibile e curato in ogni particolare: l’arredo è concepito sia per il relax (divani e poltrone) sia per lo studio e il lavoro (tavoli attorno ai quali ci si può trovare a discutere), la musica è in tema con il target e la sensazione di benessere, così come la pulizia, gli accessori, le fragranze diffuse, l’utilizzo gratuito di connessione wi-fi  e di prese di corrente per ricaricare i pc. 
Fonte: http://www.slideshare.net/thedoers/md-0100-modello-di-business
In My Starbucks Idea

Se l’obiettivo è l’engagement, uno dei modi scelti da Starbucks è senz'altro quello di condividere. Ma condividere cosa? Le fasi sviluppo di nuovi prodotti o servizi ad esempio, oppure un’idea da votare, discutere o sviluppare attraverso il sito, che si tratti di dare preferenza al latte non zuccherato o agli sconti per chi utilizza la propria tazza per ridurre la produzione di rifiuti.

Ma in questo tempo interconnesso Starbucks nella mia idea è anche e soprattutto racconto.

Lo scorso anno ho definitivamente eletto tra i miei preferiti di Parigi quello di Place Blanche perché intimamente legato all'esperienza  (connessione emotiva?) di un momento di pausa e benessere: sorseggiare un tè caldo (il caffè all'estero lo evito anche da Starbucks :-)) guardando il Moulin Rouge al tramonto, con le luci che piano piano si accendono mentre arriva il buio. Ne parlo qui ma ho naturalmente postato e condiviso sui profili social la mia customer experience;  amici in viaggio a Berlino mi hanno regalato la tazza di Starbucks che ho postato su Instagram menzionando il brand, condividendo su Facebook e taggando gli stessi amici che a loro volta mi avevo taggata mentre prendevano il loro frappuccino in terra di Germania… Senza contare pin e repin vari. 

L’Italia è ancora (per poco?) uno dei paesi Starbucks-free e non solo per l’off ma anche per l’on line: non esistono profili social dedicati alla versione italiana di Starbucks, né su Twitter né su Facebook né altrove e non c'è un sito web locale.

Ma possiamo veramente dire che Sturbucks non c’è se entra nel racconto, nelle bacheche, nelle board, nei tweet di migliaia di persone con cui in qualche modo condivide, appunto, esperienza e relazione

È il solito Grande Interrogativo: “mi si nota di più se non vengo oppure se vengo e me ne sto in un angolo…?” :-)

Mah… se fossi nei panni di Mister Schultz, con quel nome e la sirena a due code nel logo, valuterei seriamente l’idea di far approdare Starbucks nelle quattro Repubbliche marinare: Amalfi, Genova, Pisa e Venezia ;-)


Vista del Moulin Rouge da Starbucks - 5 Place Blanche, 75009 Paris, Francia
Vista del Moulin Rouge da Starbucks - 5 Place Blanche, 75009 Paris, Francia

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martedì 22 marzo 2016

L'Aquila era bella

di Alessandro Borgogno

Quando ho sentito, in piena notte, le porte della cabina armadio che sbattevano, quando mi sono alzato e ho acceso la televisione per capire dove fosse quel terremoto così forte da sentirsi anche a Roma, e quando ho saputo che capitava all'Aquila, il primo pensiero, anzi la prima immagine che mi è venuta alla mente, è stata una bicicletta

Anzi quattro biciclette

Avevo, e ho, dei ricordi straordinari collocati fra le strade e le montagne de L’Aquila, a partire da una casa di famiglia fra quelle montagne (anch'essa terremotata, e in quel momento non sapevo ancora quanto), a una trentina di chilometri dal capoluogo.
Da quando avevo circa quattordici anni conosco quei posti e anche quella città, ci sono stato molte volte. 

Fra i tanti ricordi, diciamo pure giovanili, ce ne sono di particolarmente cristallini, pieni di luce e di aria pulita. Il primo che è venuto in mente, mentre seguivo le notizie della devastazione notturna appena avvenuta, apparteneva a un’estate trascorsa con altri tre amici, girando fra quei monti e quelle valli a cavallo di quattro biciclette. 
In particolare mi è saltata alla mente una follia: partire una mattina dal paesino sull'Altopiano delle Rocche per arrivare fino a L’Aquila, trenta chilometri più a Nord, ma soprattutto circa settecento metri più in basso, senza preoccuparci di come avremmo fatto a risalire su, per trenta chilometri di tornanti. 

Ho ricordato la discesa in bici, sfrecciando lungo il fianco del massiccio con tutta la valle verde ai nostri piedi, costellata di piccoli paesi, castelli e case magnificamente arroccate sugli spuntoni di roccia; una discesa da togliere il fiato, col vento fresco nonostante l’estate che ci tagliava la faccia, e giù giù, senza cartine e senza navigatori satellitari, fino ad arrivare davanti al cartello che diceva “L’Aquila”. Una città così particolare già dal nome, che si permette tutt'ora di tenere l’articolo come fosse più di una città, un concetto, un sentimento

Ho ricordato una foto con autoscatto davanti alla meravigliosa basilica di Collemaggio, un gotico che commuoverebbe anche i sassi, con Dario che, dopo aver fatto partire il meccanismo della sua Olympus (meccanico, quello che faceva bzzzzzzzzzz), correva come un matto per arrivare insieme a noi che eravamo già pronti, e riuscire a mettersi in posa anche lui prima che l’otturatore facesse cla-clack, perché, per poter prendere anche tutta la basilica, la macchina fotografica la dovemmo mettere lontana, in mezzo al prato. 

E noi sotto la facciata della basilica, con le quattro biciclette, fieri trionfatori della nostra impresa di fantastici discesisti. Non ricordo neanche se l’ho più vista quella foto. Se era venuta bene o se Dario era finito immortalato di spalle, mentre correva come un centometrista per raggiungerci. Era scontato non poter risalire con le bici. Era una salita pazzesca, e non eravamo ciclisti. Eravamo quattro ragazzi con quattro biciclette.

Ho ricordato le richieste di indicazioni sul capolinea dei pullman che avrebbero potuto riportarci su, e una mitica sceneggiata fatta a Piazza San Bernardino (quante volte, poi, vista distrutta in quei giorni nei telegiornali) – dov'era appunto il capolinea - per convincere i già convinti autisti abruzzesi a farci caricare le biciclette dentro i pullman, con la scusa che io mi sentivo male e non potevo tornare su in bici. 

Ho ricordato la scena di me che facevo il gesto di aiutare a caricare le bici nella pancia del pullman e Dario in un furore recitativo shakespeariano che mi urlava «non rompere il cazzo tu, stai buono che stai male…». Sceneggiata pietosa, assolutamente non credibile, ma che aveva divertito tutti. Eravamo risultati simpatici, e ci hanno riportato su volentieri. Gente sincera, gli abruzzesi. Gente vivace e intelligente, gli aquilani. 

E poi, con queste quattro biciclette che non mi uscivano più dalla testa, nei giorni successivi ho detestato chi continuava a dire che quello “non era il momento delle polemiche”. E invece era proprio quello, perché è nei momenti di maggiore emozione che si può anche suscitare il maggiore sdegno, la maggiore reazione, la più forte protesta per tutte le cose che non vanno, che non sono andate. Per i ritardi, gli abusi, la cementificazione criminale,  la mancanza totale di prevenzione che hanno provocato, quelle sì, la gran parte di morti e di devastazioni. 

E mentre in quei giorni tanti, troppi, sembravano concedere spazio solo al dolore in un coro quasi unanime, io continuavo a sentirmi su quella bicicletta, lanciato in discesa per i tornanti e liberandomi con un doloroso grido di rabbia,  perché, sfrecciando di nuovo lungo il fianco di quelle montagne, tentavo di riportare alla luce dei ricordi che sono – erano sì sbriciolati e sepolti sotto tonnellate di macerie, ma non da una scossa di terremoto, bensì dalla sempre infinita arroganza degli uomini, dalla loro colpevole indifferenza, dalla totale mancanza di rispetto per ogni regola, per ogni diritto, per ogni dignità. 

E mentre ricordavo pensavo che se a me, che non sono abruzzese e non ho avuto morti in famiglia né proprietà devastate, ugualmente questi piccoli ricordi legati a quei luoghi aprivano ferite così profonde e mai più rimarginabili, solo ricordandole potevo sperare di dare il mio contributo misero e insignificante alla comprensione delle ferite devastanti aperte in tutti coloro che la notte di quel 6 aprile,  ai piedi del Gran Sasso, hanno perso qualcosa, o tutto.

Così, quando sento parlare del terremoto dell’Aquila, ma anche ogni volta che salgo su una bicicletta - sempre più di rado in realtà - finisce che tutto questo mi torna alla mente.

E ogni volta piango di dolore per L’Aquila e per l’Abruzzo, terra superba popolata da gente magnifica, che mai mi ha fatto sentire straniero o estraneo alle sue meraviglie.

E ogni volta piango di rabbia per l’Italia, ancora colpevolmente incapace di rispettare se stessa, la sua gente migliore e le sue cose più preziose.


Una bella bici che va...


Questo racconto è pubblicato nel libro Una bella bici che va... 
un progetto di Isabella Borghese che raccoglie le esperienze, 
i ricordi e le ispirazioni che questo mezzo, 
da sempre vicino all'uomo, 
ha creato e suscita.

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martedì 1 marzo 2016

L’arte non insegna nulla, tranne il senso della vita

Durante la pausa pranzo del corso di Emanuela Pulvirenti a Finestre sul Cortile apprendo, da una delle insegnanti presenti, che la storia dell’arte non è più materia di studio negli istituti per il turismo.

Ho un sobbalzo che per poco non mi fa andare di traverso il wurstel vegano. 

Chiedo conferma incredula, ammutolisco e anche ora, a distanza di qualche giorno, ammetto che mi viene complicato non vomitare fiele su questa pagina. Faccio respiri profondi e provo a dire pacatamente 10 buoni motivi per cui la trovo un’aberrazione.

È una stronzata perché

1. Perché viviamo in un mondo in cui saper leggere e interpretare le immagini è vitale
2. Perché dopo La Gioconda, Il bacio di Klimt e forse la ragazza afgana di Steve McCurry le immagini con forza iconografica sono diventate una risorsa scarsa
3. Perché in ogni opera ci sono molteplici narrazioni da sgranare: di una ricerca, di un’epoca, di una tecnologia, di una storia e della storia privata dell’artista
4. Perché da più di 30.000 anni l’umanità imbratta muri, tele e qualunque altra superficie disponibile. Ci sarà un motivo
5. Perché la cornice non è mai una sola e (spesso) una è quella del nostro schermo
6. Perché occorre conoscenza e profonda consapevolezza del contesto per perseguire la legalità 
7. Perché altrimenti saremmo come cani al guinzaglio che urinano sui muri
8. Perché la bellezza rende la vita degna di essere vissuta
9. Perché chiudere una trattativa economica citando l’asparago di Manet, vuoi mettere?
10. Perché fa vendere più moto

Una simile decisione in un paese come il nostro dove il turismo è una risorsa fondamentale per la valorizzazione del territorio e per la creazione di posti di lavoro è peccato mortaleAncora di più oggi che le tecnologie digitali permettono di comunicare con estrema facilità esperienze attraverso le  immagini.

Ancora di più se uno Stato che dovrebbe essere ormai sempre di più a vocazione digitale impastoia proprio coloro che più di ogni altro costituiscono i pilastri fondanti del nostro futuro, proprio quelli a cui viene chiesto di formare il pensiero critico delle nuove generazioni

Ancora di più se la stessa formazione degli insegnanti è carente, complicata dalla burocrazia, inadatta a fornire gli strumenti che servono per stare non al passo con  i tempi, ma un passo avanti. Perché un conto è quello che sai fare, un conto è quando quello che sai fare non basta.

Mi sono resa conto di aver istintivamente definito Emanuela Pulvirenti una guida. È questo che chiediamo alla scuola e ai buoni insegnanti: di guidarci in un mondo dove la complessità aumenta ogni minuto che passa.

Ma non bastano le eccezioni e non bastano le persone dotate di buona volontà: al corso c’erano insegnanti che venivano da Napoli o dalla Puglia, che hanno pagato di tasca propria, che hanno impiegato il loro tempo libero per mettersi in discussione, per imparare a loro volta, per girare il foglio.

Con l’incoerenza che contraddistingue questo periodo storico chiediamo agli insegnanti di essere visionari, di cambiare il mondo, di amare i nostri figli come se fossero i propri e andiamo poi alla ricerca di #petaloso nei trattati di botanica del 600. 

Credo invece che valga per l’insegnamento quello che vale per l’arte: i grandi del passato erano figli del loro tempo, al tempo di Leonardo era la norma occuparsi di molte discipline: pittura, matematica, botanica, scienze naturali, architettura... Ho chiesto ad Emanuela: cosa è normale per la nostra epoca? Lo sapremo tra un centinaio d’anni, mi ha risposto. :-)

Bon… in un centinaio d’anni possiamo ancora farcela a mandare tutto a puttane.

P.S. Per analizzare un'opera d'arte in tre mosse trovate qui un caso pratico.


Emanuela Pulvirenti e Anna Pompilio
Nella foto: Emanuela Pulvirenti e Anna Pompilio


P.P.S Il titolo del post è una citazione di Henry Miller

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