Visualizzazione post con etichetta Fotografia. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Fotografia. Mostra tutti i post

giovedì 23 maggio 2019

Il gioco dell'arte


di Alessandro Borgogno

“Andiamo Watson, il gioco è cominciato!”


È una frase iconica, uno di quei colpi di genio che i grandi scrittori inanellano nei loro scritti e che rendono ancora più immortali le loro creazioni. 

È la frase che Sherlock Holmes dice spesso al suo amico fidato quando si inizia la caccia al colpevole di qualche nuovo e inspiegabile delitto. Ed è in quel “è cominciato” che risiede il genio. Improvvisamente, talvolta senza che ce ne siamo ancora resi conto, ci dice che non stiamo vivendo una prefazione, un preludio, una preparazione. Ci dice che la corsa è già iniziata, siamo già in partita e probabilmente siamo già alla rincorsa, dobbiamo recuperare con l’astuzia, l’ingegno, la rapidità di pensiero e di azione per raggiungere un colpevole che già sta sfuggendo. Raggiungerlo, superarlo, fermarlo e consegnarlo alla giustizia. È una frase che in mezza riga ci precipita nel vivo di un’avventura che non ci lascerà più il fiato fino alla sua conclusione, spesso spettacolare, a volte imprevedibile e a volte grottesca, mai banale e scontata.

La frase, giustamente e inevitabilmente, non ce la risparmia neanche Luana Petrucci nella sua messa in scena, per il laboratorio teatrale ragazzi “Carpe Diem – Teatro e altre arti”, di una ennesima e inedita avventura (per gli appassionati, un “apocrifo”, e d’autore) del grande detective dilettante di Londra.

Sabato 18 e domenica 19 maggio, al teatro Grassi di Marino, abbiamo potuto seguire “Sherlock Holmes e il caso dell’ape tatuata”, un lavoro di Luana e dei suoi fenomenali ragazzi che ha riportato sul palcoscenico le gesta, i tic, le manie, le geniali intuizioni e la grande lotta al crimine del più grande investigatore della storia della letteratura.

Ne scrivo necessariamente una recensione di parte, non solo perché conosciamo Luana e i suoi ragazzi e li seguiamo ormai da anni sempre con maggiore piacere e soddisfazione, ma anche perché in questo caso la scrittrice e regista mi ha anche voluto coinvolgere fin dal concepimento del copione - approfittando della mia passione quasi patologica per l’opera di Conan Doyle - per consigli, indicazioni, suggestioni, e poi per la mia parallela passione fotografica, tanto da utilizzare proprio le mie foto (scattate a Londra al 221b di Baker Street, dove la fenomenale casa-museo di Sherlock materializza la fantasia letteraria in una realtà ormai indistinguibile dalla finzione; e alle cascate Reichenbach in Svizzera, teatro di uno dei più epici scontri della storia della letteratura poliziesca) per trovarvi atmosfere e indicazioni per la bellissima scenografia realizzata da Sara Botti e Sauro D'Annibali e illuminata e “sonorizzata” di volta in volta dall'oscuro ma preziosissimo lavoro di Franco Schettini e farle diventare scenografie esse stesse, proiettate sullo sfondo del palcoscenico a ricreare e richiamare gli ambienti nei quali si muovono i molti personaggi della storia. Un’emozione nell'emozione che ancora una volta Luana è riuscita a regalarmi.

Non sarò obiettivo quindi, ma anche a volerlo essere sarebbe impossibile non ammirare il lavoro appassionato e rispettosissimo di tutta la compagnia nel curare ogni minimo particolare della scena o del carattere dei personaggi, nel dare loro nuova linfa e caratteristiche originali senza mai tradire i  prototipi, nel districarsi in una trama complessa e contorta imponendo sempre agli spettatori la giusta attenzione, e mantenendo per tutta la durata un ritmo costantemente “andante mosso”, alternando con ammirevole equilibrio le risate, il dramma, l’azione, la riflessione, il grottesco e il tragico.

Per chi come il sottoscritto conosce a memoria tutto il “canone” holmesiano e anche diverse sue “derivazioni”, ritrovare ad ogni angolo citazioni (quella in testa all'articolo è solo una delle più celebri), reinterpretazioni originali dei suoi casi più famosi o dei suoi personaggi più celebri, reinvenzioni ad incastro di alcuni fra gli elementi estratti con arguzia dalle sue storiche avventure, è stato davvero un piacere continuo.

Occorre però, e con piacere, spendere qualche parola per i formidabili ragazzi che Luana mette sul palcoscenico ogni volta di fronte a prove sempre più ardite e che ogni volta le affrontano e le superano con uno spirito e una determinazione non da semplici allievi, ma da veri attori maturi e consapevoli.

Partiamo naturalmente da Sherlock, impersonato dal giovanissimo Matteo Cippitelli che ne riproduce brillantemente tutte le manie e le nevrosi. Imperdibili le sue espressioni di noia o di insofferenza quando qualcuno dice o fa delle cose che lui considera perdite di tempo (come disperarsi per la morte del proprio marito:-)). Francesco De Fabiani nei panni del fido dottor Watson contrappunta di continuo, a volte anche solo con una presenza apparentemente silenziosa (ma sempre spettacolarmente espressiva) l’ingombrante protagonismo del detective, regalandoci scenette di coppia a volte davvero esilaranti, come la lotta furibonda con la pistola dove uno tenta di sparare, e l’altro cerca di impedirglielo, alla noiosa e saccente esperta di api (Edith Cragwell), interpretata da una bravissima e giustamente inquietante Benedetta Bulgarini, lanciata in una prolissa spiegazione scientifica in stile SuperQuark (con puntuale colonna sonora sulla quarta corda).

Imponente, ironico e minaccioso al punto giusto, Gioele Testa incarna un azzeccato professor Moriarty, il nemico giurato di Sherlock, il “Napoleone del crimine”, dotandolo di un trasformismo e di una presenza scenica che restano impresse. Con lui, complici sotto svariate mentite spoglie, una scoppiettante Flavia Lepizzera (ormai una delle presenze più costanti e significative nella compagnia) che dà vita alla presunta moglie della prima vittima (Olivia West) per poi rivelarsi astuta e pericolosa antagonista del Nostro e poi finire infine vittima essa stessa del grande criminale, in alcune delle scene più drammatiche e al tempo stesso divertenti, e una brillante e luminosa Ludovica Gosti nei panni dell’ambivalente giornalista Kitty Riley, anche lei manovrata dal malvagio Professore.

Nel via vai rutilante di personaggi che ruotano intorno alla vicenda e invadono di continuo il mitico appartamento di Baker Street, l’impeccabile Sofia Porfiri, una perfetta signora Hudson, entra ed esce, spolvera e serve il tè, e soprattutto critica, commenta e bacchetta l’ingestibile detective come forse solo a lei, fin dai racconti originali di Conan Doyle, è permesso fare. E con lei partecipano al carosello Moira Ulisse alias Mary Morstan, una convincente futura signora Watson che cerca in ogni momento di riportare i due coinquilini agli aspetti più umani e quotidiani della vita e dei rapporti fra le persone; Sofia Patrignanelli che nei panni di Betty Lamotte materializza una seconda (stavolta autentica) fidanzata della vittima che contribuisce in modo determinante a rendere ancora più ingarbugliata la matassa da svolgere; Sofia Padoan che interpreta il medico legale Molly Hopper, delicata e gentile a dispetto della sua professione, determinante nell'analizzare i dettagli dei cadaveri e animata da un rapporto di amicizia e “quasi” affetto del tutto particolare con l’intrattabile Sherlock; Sarah Simeoni che nel ruolo di Sybil, enigmatico personaggio che sa e vede molte cose ma le dice sempre in modo obliquo tanto da necessitare sempre di interpretazione, apre la storia entrando in scena cantando “Scarborough fair” e regalando subito a tutta la storia la sua atmosfera ambigua e piena di ombre; e poi i tre simpaticissimi “irregolari di Baker Street”, Wiggins, Tom e Tam, rispettivamente Lisa Bertinaria, Pietro D’Annibali e Amira Degli Esposti, sguinzagliati per le vie di Londra a cercare indizi fra la spazzatura, personaggi degni delle migliori comiche britanniche (che infatti Luana fa muovere sulle note di una delle classiche melodie usate nei vecchi film di Chaplin, mostrando ancora una volta il suo sconfinato e giustificatissimo amore per il grande Charlie, altro nome illustre del nutrito elenco di geni inglesi del cinema e della letteratura). 

Una parola in più per la piccolissima Lisa, che nei panni di Wiggins prende su di se anche il compito di raccontare in appositi intermezzi i rimandi e i collegamenti principali con l’opera originale di Conan Doyle, dando vita a quegli aspetti didattici e di diffusione delle conoscenze a cui Luana non rinuncia mai in ogni suo lavoro.

Infine, una menzione quasi “d’onore” per due delle “veterane” del gruppo (e parlare di veterane per delle ragazze davvero giovanissime fa sempre un po’ sorridere) che ormai sono davvero una sola cosa con la loro autrice e regista e ne rappresentano spesso le complici più consapevoli e consolidate; Claudia Moroni, con la consueta e dominante presenza scenica, si cala nei panni del personaggio forse più originale, una Hannah Doyle (che omaggia col suo cognome il creatore di tutto questo universo), mai esistita nei romanzi ma che racchiude brillantemente in un unico carattere l’ufficialità di Scotland Yard e dei Servizi Segreti inglesi e l’ingombrante figura del fratello Mycroft (che è uno dei tanti colpi di genio di Conan Doyle), riproducendone l’invadenza, la superbia, l’intelligenza sottile, la visione ampia e diversificata della realtà, e il modo un po’ sprezzante di trattare Sherlock come fosse uno che gioca con problemi di poca importanza mentre questioni ben più cruciali urgono di essere affrontate; Gaia Piatti, che invece impersona una versione quasi onirica della mitica Irine Adler, di eleganza e ambiguità fatali, che ormai risiede stabilmente nei pensieri di Sherlock e quando si materializza in scena sembra ancora essere l’unica a riuscire a metterlo davvero in difficoltà, confondendolo inevitabilmente con un carico quasi insostenibile di fascino e di intelligenza emanati in egual misura.

Sherlock Holmes e il caso dell’ape tatuata - Carpe Diem – Teatro e altre arti
Non posso non concludere con alcune considerazioni che ritengo davvero importanti: il lavoro di Luana, continuo e incessante, mette in circolo e in comunicazione fra loro energie e conoscenze brillanti e mai banali. Per questo è un lavoro prezioso e vitale, e per questo va sempre sostenuto ogni volta che se ne ha la possibilità. In questo specifico caso, avendo seguito e in parte vissuto “real time” anche concezione e sviluppo di questo progetto non posso evitare di pensare a quanti e quali punti di partenza sparsi nel tempo e nel spazio (anche geograficamente molto distanti) si sono intrecciati e infine coagulati in ciò che abbiamo visto e vissuto in questo weekend di teatro. Per quanto mi riguarda ci sono cose che partono dalla lontana passione letteraria e dalla mia simbiosi fotografica con i luoghi che visitiamo io e Anna durante i nostri viaggi, c’è un viaggio a Londra, dove proprio Anna mi volle portare,  e un altro recentissimo in Svizzera proprio sulle tracce di Sherlock, ci sono confronti di opinioni e di immagini con Luana, e anche messaggi scambiati questa estate durante le riletture dei testi di Doyle, c’è il suo modo di guardare le mie foto e di trarne ispirazioni e soluzioni per le sue creazioni, e poi copioni in bozza su cui scambiare opinioni, e ci sono molte altre cose ancor meno tangibili ma assolutamente necessarie a far circolare le idee, a contaminarsi di continuo perché dall'unione, a volte anche dalla confusione, di tutti questi elementi sparsi possa poi coagularsi qualcosa di nuovo e di assolutamente originale, qualcosa che finisce per arricchire tutti quelli che ne vengono a contatto.

Arricchiti e consapevoli che, appena finito un gioco, ce n’è già un altro pronto a cominciare.

E allora andiamo, Watson!


Altre foto dell'evento qui


venerdì 23 febbraio 2018

Il rosso e il nero, il prima e il dopo, l’ultimo

Uno dei vostri crimini è aver messo a nudo alcune pieghe del cuore umano troppo sporche per essere vedute… (Prosper Mérimée, Lettere licenziose a Stendhal (1830-1835))

LE DERNIER METRO - TRUFFAUTI titoli di testa de L’ultimo Metrò scorrono sullo schermo su uno sfondo rosso papavero e fino a ieri, sarebbero scivolati via senza grossi traumi ma oggi, nel dopo Cromorama, sappiamo che la sensazione che un colore ci suggerisce è legata al contesto e mai alla tinta, che quando un grande artista usa un colore lo fa per darci la sua visione del mondo, che il colore non è una mera registrazione di dati fisici

Sappiamo anche che vedere è una costruzione

E se vedere è una costruzione, l’intreccio della sceneggiatura con la mia personale e pregiudizievole (ri)costruzione, senza sapere nulla della storia, a partire dallo sfondo rosso dei titoli di testa, ha dato luogo ad una conclusione totalmente fasulla: ecco un rosso boudoir che evoca passione, eccitazione e che si sposa perfettamente con “l’ultimo” del titolo, quasi un richiamo a un “ultimo” famoso ballo et voilà! una nuova trama che non c’entra nulla, o quasi, con quello che viene raccontato sullo schermo (del resto nella costruzione del colore non conta l’armonia quanto avere una storia da raccontare:-)).

Eppure la scelta di una dominante rossafin dalle prime inquadrature, non può essere casuale: il rosso evoca forse il sangue, la guerra, le ferite di una nazione (la pellicola racconta le vicissitudini del Teatro Montmartre sotto l’occupazione tedesca)? Vuole suggerire una sensazione di angoscia, di claustrofobia (il regista e impresario ebreo, Lucas Steiner, resta nascosto fino all'ultima scena come un fantasma imprigionato nelle segrete del teatro)? 
LE DERNIER METRO - TRUFFAUT
LE DERNIER MÉTRO

In un’intervista rilasciata a Le Quotidien di Paris, nel giugno del 1980 Truffaut dice:
Le dernier métro è un film notturno. Bisognava considerare che l’impressione di quel periodo è spesso fatta di ricordi in bianco e nero, alla maniera delle foto e dei film d’epoca. Credo di aver risolto il problema parlandone molto con Nestor Almendros, prendendo delle decisioni con lui”.

Truffaut e Almendros (Barcellona, 1930 – New York, 1992), direttore della fotografia ingaggiato per la nona volta dal cineasta, decidono che i primi 45 minuti si svolgono di notte, al buio, per dare maggiormente l’idea di essere in guerra, sacrificando la verità storica (all'epoca in cui il film è ambientato alle dieci di sera era ancora chiaro) a una verità estetica. Del resto Almendros è uno dei maestri indiscussi del bianco e del nero, della luce e dell’ombra, anche se stavolta affida la dicotomia luce-tenebre al rosso-nero. E sarà forse un caso se la stessa coppia di colori è presente nella bandiera della Germania nazista?

L’atmosfera è dunque misteriosa, la passione velata, tutto si gioca sulla metà nascosta (“in te ci sono due donne” è l’immancabile lettura di ogni mano femminile che capita a tiro di Depardieu-Granger), sulla verità-finzione, sul significato ambiguo (il figlio della portinaia coltiva piantine di tabacco ma è facile immaginare che possa trattarsi di un altro tipo di vegetale), sul binomio buio-luce, su una realtà che non si staglia nitida ma si intravede appena, quasi  che Truffaut, facendo suo il rimprovero di Mérimée a Stendhal, avesse steso un tramonto sulle pieghe del cuore umano.

LE DERNIER METRO - TRUFFAUT
LE DERNIER MÉTRO

P.S. Di colori e di cinema abbiamo già scritto qua e là... :-)


Follow my blog with Bloglovin

venerdì 5 febbraio 2016

Signora, non si possono fare fotografie

La signora del titolo sono io, al Museo dell’Ara Pacis, in fila per Toulouse-Lautrec. 
Comincio subito con una sottile vena polemica e chiedo se per “sconto famiglia” s’intende: mamma-papà-bambino… Ottengo una riduzione di due euro perché pago con una Mastercard.

In mostra la collezione del Museo di Belle Arti di Budapest che comprende manifesti, illustrazioni, copertine di spartiti e locandine, alcune delle quali, recita uno dei pannelli, sono autentiche rarità perché stampate in tirature limitate, firmate e numerate e corredate dalla dedica dell'artista.

Ecco, i pannelli. Cosa ne faranno dei pannelli una volta che è tutto finito? Li buttano? Li riciclano? Li usano per arredarci casa?

Nell'attesa di un futuro ipertecnologico in cui si potranno consultare le informazioni dalla retina collegata direttamente a Wikipedia o da schermi trasferibili, prendo lo smartphone e scatto la foto a un pannello. Il mio gesto attira l’attenzione di un’addetta che si avvicina furtiva e felpata e con il cipiglio perentorio  della sorella maggiore di Occhi di Gatto bisbiglia: "Signora, non si possono fare fotografie"

Non so se è l’appellativo o se invece è il ritmo sussurrato della frase: Signora-virgola-pausa-negazione, sta di fatto che improvvisamente si profilano davanti ai miei occhi, i protagonisti di decine di film d’azione - da Bruce Willis a  Vin Diesel passando per Jean Claude Van Damme -  in cui il protagonista termina l’ impiegata del museo che si rivela essere un narcotrafficante e si chiama Kelly, proprio come la sorella maggiore di Occhi di Gatto.

La sedia del D'Orsay 

Ricordo almeno un’altra occasione in cui la mia pazienza, che ammetto essere pochina, fu messa a dura prova. Nel 2013, durante una visita al Musée d'Orsay, appuriamo che è severamente vietato fare foto e in quel momento la mia immaginazione sfrenata vede il Direttore del Museo mentre cerca di fermare il sangue che gli esce dal naso alla vista di Courbet immortalalo per sempre insieme a un bastone da selfie. 

Il divieto riguardava anche le bellissime sedute di design a disposizione del personale e alla prima inquadratura della sedia ci siamo beccati una ramanzina in francese, ma prima che il mio spirito bagarreuese avesse il sopravvento e mi mettesse definitivamente nei guai, sono stata fortunatamente distratta da Olympia.

Ora che ci penso anche in occasione della mostra di Henri Cartier-Bresson, sempre all’Ara Pacis, mi era sembrato alquanto ironico che non si potessero fare fotografie. 
Sedia design - Musèe d'Orsay


Signora, non si possono fare fotografie

Al di la della mia incazzatura vale forse la pena di riflettere un momento sulla fruibilità e sulle scelte di alcuni musei. Non solo i nostri, il panorama è abbastanza variegato anche all'estero. 

Personalmente cerco di approfittare di ogni occasione per visitare musei e mostre, forse anche per colmare una lacuna che arriva da lontano: quando iniziai a studiare storia dell’arte al liceo l’insegnate stava per andare in pensione ed era spesso assente per cui veniva sostituita da supplenti che si avvicendavano senza continuità e senza possibilità di portare a termine un programma serio. In seguito i miei studi sono andati in tutt'altra direzione, per cui resta alla volontà autodidatta l’approfondimento di un ambito che ritengo fondamentale per la formazione, la crescita personali, l’osservazione del mondo.

Perciò sì, mi incazzo come una iena se qualcuno mi impone di non fare foto a un pannello costringendomi a fare la fila per riuscire a leggere e prendere appunti, mi incazzo se la guida di un gruppo urla tanto da sovrastare l’audio dei video diffusi durante la mostra, mi incazzo perché non capisco come sia possibile che chi si circonda di bellezza non aspiri a condividerla e divulgarla, come si possa pensare di vivere in un mondo interconnesso ma incomunicabile, come si possa trascurare il fatto che la comunicazione è business e se pubblico su Instragram la foto di Miss Loïe Fuller, o ne racconto la storia struggente altri vorranno vederla o saperne di più.

Per inciso, Loïe Fuller attrice e danzatrice conturbante, ideatrice di danze avanguardiste basate sugli effetti combinati dei movimenti del corpo con vesti e bagliori di luci, morì di cancro probabilmente per le radiazioni ionizzanti emesse dal radium di cui erano intrise le ali di farfalla con le quali si esibiva e che rendevano fluorescenti i suoi spettacoli.


Miss L. Fuller

Le donne di Toulouse 

Toulouse Lautrec era un pittore e un incisore. Amava ritrarre le donne, molte erano prostitute.

Di lui Jean Bouret dice: con la sua opera, Lautrec libera il mondo della pittura da tutti i tabù correnti, come aveva fatto Caravaggio nel suo tempo, come aveva fatto Courbet. L’uomo che colloca il cavalletto nei postriboli, e nello stesso tempo solleva un angolo di sipario su una società fin allora nascosta, crea una tecnica pittorica nuova.

Le prostitute di Touluse-Lautrec vivevano nella clausura delle case di piacere di Montmartre e il ritratto che ne fa l’artista è quasi documentario: momenti di svago, istanti di intimità, di tenerezza. 

Talvolta invece portava il cavalletto nei Caffè o nei locali notturni e da lì ha continuato a tratteggiarle, incessante, fino alla morte. 

[…] Il pittore Toulouse-Lautrec in questi giorni è stato ricoverato in una casa di cura. […] Non vende più l’arte, non compra più l’amore: è beato. (Emile Lepelletier, L’Echo de Paris, 28 marzo 1899).

La dance au Moulin Rouge

La dance au Moulin Rouge è una delle opere presenti alla mostra.  

È datata 1897 e  ritrae due donne che ballano. Probabile, visto che non era inusuale in quel contesto, che le due fossero anche amanti. 

Mi piace pensare che si tratti di due donne libere. 

Mi piace pensare che la libertà possa essere perseguita in molti modi, anche aprendo le porte dei nostri musei, nelle forme e con le opportunità offerte dalla nuove tecnologie e non chiudendole a chiave, come i bordelli parigini della Belle Époque.


Henri de Toulouse Lautrec - La danse au Moulin Rouge





Follow my blog with Bloglovin