domenica 26 ottobre 2014

Appendice: Wim Wenders e l’archicinema

La prima immagine che affiora alla mente pensando al connubio cinema+architettura è quella di Gary Cooper nei panni dell’architetto Howard Roark, ispirato a Frank Lloyd Wright, che nel film La fonte meravigliosa fa saltare in aria un suo edificio perché non realizzato come voleva. Era il 1949. Dopo questa data l'architettura è stata per lo più ignorata dai registi.”

Potevo finire qui la lettura dell’inutile articolo di Geoffrey Macnab dell’Independent da cui è tratto l’inciso ma provo, per completezza, ad arrivare in fondo.
Confermo la prima impressione, articolo superfluo e  inattendibile su Le Cattedrali della Cultura (in questi giorni al Milano Design Film Festival) e Wim Wenders, curatore della serie, che a sua volta sembra non trovare di meglio che affermare che “il cinema usa gli edifici come sfondi non come personaggi.”
Il cinema usa gli edifici come sfondi e non come personaggi?
Ci vengono in mente, di getto e in ordine sparso: la villa di Kane in Quarto Potere di Orson Welles e la casa ispirata a Wright nel finale di Intrigo internazionale di Hitchcock, il palazzo e cortile di La finestra sul cortile, (e anche un Hitch più vecchio, la casa maniero di Rebecca la prima moglie, protagonista assoluta della storia), e poi Psycho, Amityville Horror, Poltergeist… E l'albergo di Shining di Kubrick, La casa dalle finestre che ridono e Il nascondiglio di Pupi Avati, la villa del bambino urlante di Profondo Rosso, il condominio romano dell'era fascista di Una giornata particolare o La Terrazza di Ettore Scola. E ancora La camera verde di Truffaut…
E se non bastassero questi esempi, le Kontaminazioni e gli approfondimenti di questo blog  per confutare l’argomento, stay tuned, abbiamo ancora qualcosa da raccontarvi nei prossimi postJ.

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venerdì 24 ottobre 2014

La casa dell’assassino. Sir Alfred a Covent Garden

In uno degli ultimi ruggiti della sua strabiliante carriera di regista, nel 1972, Hitchcock tornò nella sua Londra e piazzò la cinepresa nel bel mezzo di Covent Garden, quando era ancora il principale mercato di frutta e verdura della capitale inglese.

Il mercato sarebbe stato smantellato di lì a pochi anni, e in molti considerano Frenzy non solo uno dei tanti capolavori del maestro del brivido (Hitch ci precipita stavolta in un vortice di violenza e sesso, facendoci seguire un antipatico innocente che si dibatte come una mosca nella tela di un ragno intessuta da un simpatico assassino psicopatico che strangola giovani donne) ma anche uno straordinario documentario sul quartiere prima della sua definitiva trasformazione.
Ciò che interessa noi però, è che anche qui Hitch utilizza una casa in modo del tutto particolare. E’ la casa dell’assassino (che ci fa conoscere dopo dieci minuti di film). E’ proprio di fronte a Covent Garden (dove l’assassino lavora). E diventa il luogo dove viene commesso uno degli omicidi.
Ed è proprio la casa, e solo quella, che il regista decide di farci vedere mentre accade l’orrido e l’irreparabile. Segue per le scale assassino e vittima fino al primo piano della tipica casa londinese (assai simile a quella di Baker Street, per intenderci), ce li fa vedere mentre entrano in casa, e poi indietreggia, scende le scale e se ne va in retromarcia verso l’uscita mentre cala il silenzio. E continua, esce dal portone e a quel punto irrompono i rumori della strada e del mercato, si vede la gente che cammina, passeggia, lavora. Continua ad allontanarsi e ormai vediamo anche la finestra del primo piano, dietro la quale sappiamo che si sta consumando un orrore. Ma non vediamo e non sentiamo nulla se non i rumori della strada, che coprono e copriranno anche le urla della sfortunata vittima, se mai riuscirà ad urlare. La scena è magnifica, carrellata all’indietro di assoluto virtuosismo e rigore espressivo senza pari.

La casa è sempre lì, ripulita e restaurata, ma ben riconoscibile.

P.S. Essendo il mercato di Covent Garden il centro fisico del film, tutta la narrazione segue il cibo. Frutta, verdura, patate (in una scena memorabile), pub, immangiabili manicaretti da Nouvelle Cuisine cucinati dalla moglie del commissario, gustosi panini col prosciutto in autogrill frequentati dai camionisti.
Con sfumature meno autentiche ma altrettanto festose il cibo a Covent Garden continua ad essere oggi protagonista con i suoi negozi di delicatessen, le sue caffetterie, Tea House o Luxury chocolates… Per turisti appassionati di ghiottonerie e, of course, di cinemaJ.


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venerdì 17 ottobre 2014

Hopper, Hitchcock, James Dean e il gotico Americano

Nel 1960 Alfred Hitchcock mette in piedi, con pochi soldi e la sua troupe televisiva, un film in bianco e nero destinato a cambiare per sempre l’idea di thriller e di horror.

Da lì in poi Psycho, il piccolo gioiello con Antony Perkins e Janet Leight, avrebbe riscritto le coordinate narrative e visive di qualunque storia avesse aspirato ad emozionare gli spettatori con la tensione e la paura.

Fra le mille invenzioni del genio londinese, ci fu anche quella di identificare la casa sulla collinetta con la presenza-assenza della terribile madre di Norman Bates. Lei non si sarebbe vista, il suo medium sarebbe stato in tutto e per tutto la casa, incombente, minacciosa, misteriosa ed inquietante nelle forme e nei chiaroscuri. Per ottenere un personaggio con una personalità degna del ruolo, Hitch si affidò ad uno stile architettonico ancora in voga all'epoca e che aveva avuto grande diffusione nei decenni precenti.

Si tratta del cosiddetto gotico americano, o californiano, mai davvero codificato come tale e più spesso indicato come "secondo impero americano", le cui forme avevano avuto grande fortuna in ville e villini della west coast.
Oltre all’architettura Hitch, da grande esperto del “visibile” quale era, ha sempre tenuto d’occhio l’arte e le sue tendenze (non dimentichiamo che scritturò direttamente Salvator Dalì per le scenografie del sogno/incubo in “Io ti salverò” del 1945) traendo ispirazione, nel caso di Psycho, dall’opera di un pittore americano di primissimo ordine, Edward Hopper, mai davvero inserito in nessuna corrente se non quella personalissima del proprio stile, che almeno vent’anni prima aveva ritratto proprio la casa perfetta per Hitch.

L’aveva messa vicino ad una ferrovia (“The House on the railway”), scorciandola leggermente dal basso in modo da renderla incombente e inquietante quel tanto che bastava. La luce, i tagli di ombre, tutto già nel quadro di Hopper concorreva a dare a quella casa non solo dignità di personaggio (era infatti, altrettanto originalmente, unico e solitario soggetto del quadro) ma anche personalità forte e multipla. E fu così che il grande regista inglese ottenne anche l’effetto di mostrare al mondo, riprodotta in tre dimensioni e animata da un sinistro soffio vitale, la casa dipinta tanti anni prima dal grande pittore americano.

Hopper, House by the Railroad -  Hitchcock, Psyco

In appendice, vi suggeriamo di cercare altre influenze della apparentemente semplice e innocente casa dipinta da Hopper. Quella di Psycho è la più celebre ma ad esempio, nel guardare la famosissima immagine di James Dean ne “il Gigante” del 1956, giustamente concentrati sul giovane attore maledetto nel suo momento di massima gloria, pochi forse hanno davvero mai notato la casa sullo sfondo…

Hopper, House by the Railroad -  Hitchcock, Psyco - Stevens, The Giant

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domenica 12 ottobre 2014

Case nel cinema

Il cinema, come arte visiva e narrativa, non ha mai potuto prescindere dalle case, dai giardini, dagli ambienti indispensabili a far muovere personaggi e far vivere storie.

Più raro è che una casa, o parte di essa, diventi personaggio al pari degli altri, quando non addirittura protagonista assoluto. Non più solo indispensabile scenografia quindi, ma elemento visivo e narrativo di primo piano. Qualcuno lo ha fatto, qualcuno ci è riuscito. 

A partire dal più grande, Sir Alfred. Ne abbiamo già parlato qui, qui e qui

Ma non è finita, state connessi:-).

Case nel cinema, Alfred Hitchcock


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martedì 7 ottobre 2014

Umanità schizofrenica?

Mi è capitato ultimamente di assistere ad un servizio televisivo sulla inesorabile scomparsa dei vecchi quartieri di Shangai, i cosiddetti shikumen, con l’avanzare dei New District e dell’aspirazione ad uno stile di vita moderno e “occidentale”.

La maggior parte di questi storici sobborghi sovraffollati con le loro casette in mattoni grigi, stipiti in pietra, porte sempre aperte sui cortiletti interni con spazi e servizi condivisi, in cui viveva solo qualche decennio fa più dell’80% della popolazione urbana, sembrano infatti destinati ad essere rasi al suolo e sostituiti dagli altissimi grattacieli espressione e testimonianza dello sviluppo economico cinese, fatto salvo quei pochi scampati alla distruzione e trasformati in quartieri di tendenza con gallerie d’arte, bar e ristoranti.
Man mano che il servizio presentava il nuovo modello del vivere urbano individualista e appartato di Shangai, riflettevo che invece la vecchia Europa riscopre (periodicamente) le Comuni del passato, pur nella moderna accezione di quartiere iper-ecologico e alternative-chic.
L’ultimo esempio è quello di Berlino, città laboratorio di tendenza, che sta progettando su iniziativa dei tre ex imprenditori trasgressivi della notte berlinese inventori e gestori del mitico Bar 25, un nuovo quartiere diverso da ogni altro, a Holzmarkt sulle rive della Sprea.
Il quartiere avrà case a più piani ma in legno e super ecologiche, da affittare per non più di tre anni. Non saranno ammesse lavatrici, tutti useranno lavanderie comuni, anche i frigoriferi avranno solo un uso collettivo. Uno spazio sul tetto delle abitazioni servirà ad allevare i pesci i cui escrementi verranno utilizzati per la concimazione di spazi verdi e le coltivazioni di verdure fai da te, gli abitanti saranno tenuti a partecipare attivamente alla vita di quartiere, compresa la manutenzione del verde pubblico.
Non entro nel merito, lascio ad altre voci più autorevoli di questo blog le considerazioni antropologiche sull’argomento, anche perché devo confessare che tutte le volte che qualcuno dice di  volersi trasferire in campagna, a contatto con la natura, coltivando la terra per il proprio sostentamento ecc. ecc. non posso fare a meno di pensare a Maria Antonietta e al suo Domaine de la ReineJ.


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mercoledì 1 ottobre 2014

Siete davvero sicuri che un pavimento non possa essere anche un soffitto?

…Io non penso ad una casa come a una caverna imbottita e tappezzata; concepisco la casa come una macchina d’abitazione, un processo vitale, una cosa viva, dinamica, che cambia secondo l’umore di chi vi abita, non un morto catafalco statico e ipertrofico. Ma perché dobbiamo lasciarci inceppare dalle concezioni congelate dei nostri avi? Qualunque idiota con una infarinatura di geometria descrittiva può disegnare una casa tradizionale. La geometria statica di Euclide è forse la sola matematica? Dobbiamo gettare completamente alle ortiche la teoria Picard-Vessiot? E dei sistemi modulari che ne facciamo? Per non dir nulla di tutto ciò che ti suggerisce la stereochimica. Possibile che non ci sia posto in architettura per la trasformazione,  omomorfologia, le strutture azionali?


Robert Heinlein, La casa nuova

La mostra di M.C. Escher al Chiostro del Bramante suggerisce mondi visionari in cui anche la forza di gravità che ci costringe a vivere in cubi è superata da invenzioni spiazzanti, create dal genio di quest’artista-intellettuale, molte delle quali ispirate dall’osservazione del paesaggio e dei borghi  Italiani, dalla campagna senese ai monti antropomorfi di Pentadattilo, così diversi dalle piatte distese olandesi.
Con le sue rappresentazioni simboliche, costruzioni prospettiche e illusioni ottiche Escher muove figure impossibili: un flusso d’acqua che dall’alto mette in moto il mulino sottostante che a sua volta spinge lo scorrimento acqueo verso un canale che, zigzagando, ritorna, contro le leggi della gravità, all’inizio della rapida. In cima a due torri poliedri stellati di Keplero, realizzati con la compenetrazione di solidi platonici (Cascata,1961).
Escher introduce i solidi platonici o altri poliedri semiregolari in raffigurazioni fantastiche e in universi paralleli pluridimensionali e ricorre soprattutto al dodecaedro stellato, dotato di "perfettamente ordinata bellezza”. La geometria del resto si è da sempre intromessa, spesso con risultati sorprendenti, nelle arti figurative (da Leonardo ai cubisti) con la rappresentazione di figure geometriche, poligoni piani, poliedri spaziali.
Forza di gravità, solidi platonici, relatività, magia, ricerca psicologica e filosofica…
Difficile rimanere indifferenti alle infinite suggestioni di Escher e non lasciarsi conquistare dall’idea che solo coloro che tentano l’assurdo raggiungeranno l’impossibile, soprattutto in un tempo in cui vincere la forza di gravità o giocare con le geometrie sembra essere aspirazione riservata quasi esclusivamente ai moderni architetti e ai loro enormi cubi, ancorati a piloni di cemento su scogliere battute dal vento, con le immancabili grandi vetrate che guardano la linea dell’infinito.
Non posso fare a meno di immaginare questi proprietari-architetti intenti a seguire il volo solitario di un gabbiano mentre sparisce all’orizzonte, incurante, lui si, dei cubi, di Escher e della forza di gravità… ;-).
 


Per approfondimenti http://www.mcescher.com/

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