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domenica 18 dicembre 2016

Il genio, l’architetto e il senso del non

Questo itinerario, o passeggiata, o racconto, è pronto da molti anni.
Forse addirittura
dall'anno dei miei esami di maturità, quando una tesina sulle piazze, i palazzi e le fontane di Roma mi portò a guardare meglio e con la dovuta attenzione i capolavori barocchi sparsi per le strade della mia città. 
(Alessandro Borgogno, Il Genio e l’Architetto)


La Roma degli anni ottanta che faceva capolino dalle parole e dagli schizzi di un ragazzo che ne percorreva le strade e le piazze con un blocco da disegno e un’idea in testa, doveva sembrare gloriosa e degna di essere celebrata. 
Il genio e l'architetto - Alessandro Borgogno, L'erudita
Il Genio e l'Architetto

Di acqua sotto i ponti (e per le fontane di Roma) ne è passata parecchia nel frattempo ma il ragazzo percorre ancora su e giù le strade strette, i colli, i vicoli, le torri della sua città, e forse deve sembrargli che non sta invecchiando bene, che è un po’ appannata, come gli schizzi conservati nel suo quaderno da disegno, eppure l’amore che li lega è ancora intatto e conserva tutta la purezza di quegli anni.

Questo libro è dunque prima di tutto una dichiarazione d’amore. Anzi più di una: per Roma e per l’Arte.

Perché il ragazzo con il quaderno da disegno scopre un giorno che le strade possono essere digitali, scopre la bellezza nell’ipertesto e poggia, per un attimo, la matita. E allora davvero la passione resta racchiusa nel pulviscolo di un’aula di un liceo che non esiste più, ammantata dall'incanto del ricordo. Finché un giorno, il ragazzo con il quaderno da disegno, si sveglia uomo al tempo del “non”.
Palazzo Barberini
Palazzo Barberini

Questo tempo, il tempo del non, è segnato da confini sfumati in cui esistono non mamme o non mariti,  in cui il non è diventato accezione positiva (non contiene olio di palma), in cui è necessario soprattutto rassegnarsi ai non ruoli. È un nuovo mondo mediceo, un nuovo rinascimento in cui la storia dell’arte la riscrivono gli informatici e l’informatica la riscrivono gli studenti di storia dell’arte, perché gli schizzi sui loro quaderni  sono il filo di Arianna che li guida nei nuovi labirinti.


E allora incontriamo, riaffiorate nelle parole di questo libro, la Fontana del Tritone, un busto di una bellezza scultorea, sul quale scorre prepotente e continua l’acqua di Roma, quella che arriva dagli acquedotti e sgorga al centro della città attraverso le mille aperture che mille scultori, e lui più di ogni altro, le hanno modellato attorno; la Fontana delle Api, piccolo gioiello di misura e fantasia, enorme conchiglia aperta all'interno della quale si raccoglie l’acqua, e sul suo bordo sono ad abbeverarsi delle api, simbolo ricorrente della famiglia Barberini; l' Estasi di Santa Teresa, scultura magnificamente complessa che si fonde con la scenografia e con le forme architettoniche delle volte e delle lanterne da dove la luce dorata entra a trafiggere e a sceneggiare in eterno l’irruzione dell’illuminazione divina; Sant’Andrea delle Fratte, che si innalza schiudendosi e richiudendosi come una enorme pianta carnivora che abbia appena ghermito un insetto; Sant’Ivo alla Sapienza, che si attorciglia nel cielo in una spirale destinata a non chiudersi mai; e poi ancora Apollo e Dafne,  San Carlo alle Quattro fontane, Sant’Andrea al Quirinale, Palazzo Montecitorio, L'Oratorio dei Filippini, L'Elefante Obeliscoforo, La Basilica di San Giovanni in Laterano, Piazza San Pietro, La Galleria prospettica di Palazzo Spada, San Giovanni Battista dei fiorentini, Santa Maria Maggiore…
Fontana del Tritone
Fontana del Tritone

Bernini, scrive l’autore, è prima di tutto uno scultore e Borromini è prima di tutto uno scenografo” ed è probabilmente per questo che continuano ad essere i protagonisti immortali di questa Roma Barocca.

I puristi della cultura potrebbero non essere d’accordo ma in fin dei conti direste che la Cappella Sistina era meglio che la dipingesse un pittore e non uno scultore? ;-)
Fontana dei Fiumi - Piazza Navona
Fontana dei Fiumi - Piazza Navona



Il genio e l'architetto è su Amazon e IBS


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mercoledì 22 giugno 2016

Giovanna corre

Le ribellioni individuali, posto che esistano, sono destinate al fallimento.
 (Guida alla Roma ribelle, Voland 2013)

Fatico un po’ a trovare una posizione e continuo a spostarmi nel poco spazio non occupato del muretto che circonda uno degli alberi di Piazzale Ponte Milvio, che svetta proprio di fronte al Bar-Libreria Pallotta. Evito per un pelo di finire su una macchia di liquido scuro non ben identificato. 
Libri&Bar Pallotta - Piazzale Ponte Milvio 21/24,RomaSaranno più o meno le dieci di sera, la libreria è aperta per Letti di notte, sul palco improvvisato nella piazzetta, con gli ospiti seduti su un vero letto, il cantore della serata presenta faticosamente una guida, tra le incursioni del Bus Challenge e gli intermezzi musicali di librai con il tamburo. Mi raggiungono, nonostante il rumore delle chiacchiere e della città, le parole ex snia e la mia attenzione ne è immediatamente catturata. Mi sposto più avanti per sentire meglio. 

Si parla della Guida alla Roma ribelle, un volume che racconta la vocazione sovversiva e libera di Roma attraverso luoghi sparsi un po’ ovunque nella città.

Questa parola, ribelle, mi appartiene come poche altre. "Fossi nata nel Medioevo ti avrebbero bruciata subito", ebbe a dire una volta mia madre:-). 

Nel tempo ho smesso di accapigliarmi con chiunque anche per futili motivi ma continuo a parteggiare per quelli che hanno vocazione alla rivolta, come Roma. La Roma ribelle. La Roma della memoria che parte da Menenio Agrippa e dalla Basilica di Massenzio, passa per Giordano Bruno, il cimitero acattolico, la Repubblica Romana, i quartieri popolari dove nacque e crebbe la resistenza, e arriva nelle piazze dei punk e degli artisti, nei punti di ritrovo dei movimenti studenteschi, nelle occupazioni delle case e nei luoghi di culturaLa Roma di chi vuole andare oltre la cortina fumogena dei luoghi comuni sedimentati nel tempo.

A questa città mai sconfitta e ai luoghi della sua ribellione dedico il racconto di Giovanna, donna anticonformista, ribelle e straordinaria, uno di quei racconti che riecheggiano lievi nelle piazze alberate in queste lunghe sere d’estate.
Libri&Bar Pallotta - Piazzale Ponte Milvio 21/24,Roma
Libri&Bar Pallotta - Piazzale Ponte Milvio 21/24,Roma

Giovanna corre
di Alessandro Borgogno

Giovanna cammina sul marciapiede.

Ha appena preso il pane in uno dei posti dove ogni tanto si trova, se si è pronti e si sa dove andare. Cammina a passo spedito lungo via Labicana, che scende larga e luminosa verso il Colosseo.

È una ragazzina di 16 anni, ma in quegli anni a Roma non si può essere ragazzini, perciò in realtà è già quasi donna. Ha ancora l’incoscienza naturale della sua età, ma ormai da tempo anche la coscienza del pericolo, della paura, del sacrificio.

La giornata è chiara e limpida, l’aria tiepida. Pochissimi rumori. Automobili, già rare, nessuna.

Ma che ci sia qualcosa nell’aria si sente da giorni, del resto è tanto che ormai a Roma ogni giorno accade qualcosa.

Non ha guardato il calendario prima di uscire, forse neanche lo aveva. Sa solo che ormai è giugno; e a Roma, a giugno, l’estate è già iniziata.

È il 4 Giugno del 1944.

Il Colosseo, le arcate aperte sul cielo, appare stanco. Soffre con la sua città e la sua gente da mesi in ostaggio dell’occupante, minacciata, torturata, inseguita, uccisa, affamata. Eppure, lì in fondo alla strada, si mostra sempre bellissimo. Per Giovanna e per tutti i romani, un motivo in più fra i tanti per voler continuare a vivere.

Il rumore dei motori è quasi improvviso. E’ ancora lontano ma nel silenzio rimbomba netto e minaccioso. Non sono aerei. Sono automezzi, camionette, camion.

Stanno arrivando da San Giovanni. Potrebbe essere un normale convoglio come ne passano tanti eppure c’è qualcosa di diverso. Come andassero più veloci, e non ordinati come al solito. E poi c’è un altro rumore insieme a quello dei motori, più intermittente e più sinistro.

Quando capisce che qualcosa che non va hanno già imboccato lo stradone. Li vede da lontano e distingue benissimo tutto, ha una giovane vista da lince. Jeep tedesche, inconfondibili. Ma diversamente dal solito, sembra stiano scappando inseguiti da qualcuno.

Ormai sono abbastanza vicini da distinguerne divise e facce. Il rumore che si sentiva erano raffiche di mitra. Staranno pure scappando, ma sventagliano con i mitra a destra a sinistra, verso i marciapiedi, incattiviti e feroci.

Capisce in un attimo che si trova proprio sulla loro strada, e che una di quelle raffiche è destinata a falciarla lì, sul marciapiede, proprio il giorno in cui Roma si prepara alla sua prima estate da città libera.

Rat-ta-ta-ta-ta-ta-ta.

La strada è lunga, dritta, e non ha traverse a portata di gambe. E allora fa la cosa che gli riesce meglio, che gli è sempre riuscita meglio.

Giovanna corre.



Tratto da: Un'estate a Roma, Giulio Perrone Editore


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mercoledì 8 giugno 2016

Il lago di Roma

Ufficialmente si chiama "Sandro Pertini" ma per gli abitanti del quartiere Pigneto-Prenestino, è il lago ex-Snia. Snia sta per Snia Viscosa la fabbrica che popolò quest'area della capitale negli Anni '20 in poi: oltre 2 mila operai, più del 50% donne, provenienti chi da altre regioni, chi dai borghi del centro. Poi nel 1954 la fabbrica venne chiusa (Ansa Magazine)

Hanno strane storie le ex fabbriche di Roma. 

Questa è proprio dietro casa. Dietro casa nell'accezione di chi a Roma vi abita, ovvero raggiungibile in un tempo inferiore alla mezz'ora, in un luogo dove per andare “ovunque” ci vuole minimo un’ora, escludendo la ricerca del parcheggio. 

Lo stabilimento Snia viscosa prima della crisi del ‘29 conta più di 2.300 addetti. 

Nel giro di un paio d’anni ne perde un migliaio e solo gli aiuti statali la salvano dal fallimento legando inesorabilmente la sua storia a quella del Regime fascista e della politica di guerra (produce, tra le altre cose, uniformi militari). Nel 1949 impiega ancora 1.600 operai, ridotti a 120 nel giro di pochi anni fino alla chiusura definitiva, avvenuta nel 1954.

Nel 1982 il complesso dell’ex fabbrica passa alla Società Immobiliare Snia S.r.l. che negli anni ’90 vende l’intera proprietà alla società Pinciana 188 S.r.l. (poi assorbita dalla Ponente 1978 S.r.l., proprietà di un noto palazzinaro romano) per farne un Centro commerciale. 

Nel 1992, poco dopo l’inizio dei lavori, uno sbancamento nel cantiere di circa 10 metri intercetta una falda acquifera e si forma un lago. Nel tentativo di liberarsi dell'acqua il costruttore la indirizza verso il collettore fognario, che però non ce la fa, allagando largo Preneste.

Infinite volte passo lungo questa arteria cittadina, in uno dei quartieri multietnici a più alta densità urbana di Roma, un amalgama di razze e di strade che si incrociano: via Prenestina, via di Portonaccio, via dell’Acqua Bullicante, il traffico è sempre congestionato, il transito del tram è continuo, un chioschetto sforna pane ciociaro cotto a legna... 

Allagare Largo Preneste. Che bella idea.

Da questo momento in poi l’intera faccenda si ingarbuglia parecchio, ma il lago dietro il muro di mattoni di Via di Portonaccio resiste, e da più di vent'anni centri sociali, comitato di quartiere, cittadini, WWF, Forum Territoriale Permanente del Parco delle Energie lottano per preservarlo dall'incuria e dalla corruzione.  

Lottano contro la mancanza di fondi per l’allestimento e la riqualificazione degli spazi verdi, lottano contro il ritorno delle gru e dei cingolati, contro il pericolo di “torri” di cemento, contro la burocrazia e il malaffare, lottano affinché si arrivi a una vera tutela con la trasformazione in monumento naturale e la demolizione degli abusi edilizi mai bonificati.

Nell'agosto 2014 una parte del lago (circa la metà) è stata annessa al Parco delle Energie ma i fondi stanziati per la sistemazione dell’area (500.000€) non sono mai stati resti disponibili e oggi è autogestito da tutti coloro che vogliono partecipare costruendo arredi, pannelli, pulendo l’area, mettendo a disposizione le proprie competenze e autofinanziato con la cassa di resistenza del 25 aprile.

Dall'ingresso del Parco delle Energie di via Prenestina il lago non si raggiunge. 

Superato il cancello parte un viale costeggiato sulla sinistra di edifici in disuso, a cui vegetazione e street art restituiscono un fascino vagamente nostalgico.  Più avanti un campo da Basket. Mentre osservo i ragazzi più grandi allenare i piccoli, una ragazza si stacca dal gruppo. Bellissima, tratti orientali, lunghi capelli neri, calze che terminano sul ginocchio con la forma di una testa di gatto, incedere annoiato. Sembra un manga, un’apparizione evocata da uno dei mondi colorati presenti in ogni angolo di questo strano parco. 


Lago Ex Snia, Roma - Street art

Lago Ex Snia, Roma - Street art
Lago Ex Snia, Roma - Parco delle Energie

Lago Ex Snia, Roma - Parco delle Energie

Lago Ex Snia, Roma - Parco delle Energie

S’intravede il tentativo di dare forma agli spazi verdi ma gli alberi piantati stentano a crescere, le panchine di legno sono quasi tutte rotte, i cespugli di lantana delle aiuole sono soffocate dalle erbacce, si direbbe la rivincita del jardin sauvage o del Terzo Paesaggio. Solo i giochi dei bambini risuonano delle loro grida divertite. Mi chiedo se i loro sguardi, crescendo, sentiranno di più la necessità di bellezza o se questo luogo li renderà ciechi all'abbandono e al degrado.

Un buco nella recinzione permette l’ingresso abusivo in un sottobosco di allori dove un sentiero cosparso di preservativi e fazzoletti di carta conduce a un affaccio. 
Lago Ex Snia, Roma - Parco delle Energie


Eccolo, in lontananza, il lago di Roma. Diecimila mq d’acqua, addirittura balneabile dicono. Da qui sembra una pozza ma è abbastanza per far galoppare la mia fantasia verso orti galleggianti, macchie rosa di fenicotteri, grandi cespugli di Buddleja, minuscoli giunchi palustri e qualche salice piangente, capanne di legno per l'osservazione degli uccelli, mercati coperti al posto delle vecchie fabbriche. 

Lago Ex Snia, Roma - Parco delle Energie



Lago Ex Snia, Roma - Parco delle Energie
E perché no? Una scuola di pittura en plein air! ;-)
Giverny - Giardino di Monet - Ninfee
Giverny - Giardino di Claude Monet - Ninfee




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giovedì 26 maggio 2016

What next?

Perché i tecnici del suono, delle luci, delle reti, ecc., quelli insomma che arrivano per collegare il portatile al proiettore e sistemare il microfono hanno sempre vent'anni e i capelli rasta?  

La sala Petrassi dell’Auditorium ospita, nel primo fine settimana romano di bel tempo della stagione, Amedeo Balbi, astrofisico, divulgatore e scrittore e Roberto Battiston, presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana. 

Ancora un festival, stavolta delle scienze, e il tema della Lectio Magistralis di quest’afosa domenica, è affascinante: come il cinema guarda le stelle

C’è sempre stato un interesse molto forte del cinema verso l’Universo. Un rapporto strettissimo che parte da Viaggio nella Luna (1902, ispirato a “dalla terra alla luna” di Jules Verne) e continua con 2001 Odissea nello spazio (1968) che è in realtà un film sulla "ricerca di senso", e poi Apollo 13 (1995) che ha dato probabilmente origine a uno dei primi fenomeni virali e duraturi in tema di citazioni cinematografiche con la famosa frase: "Houston, we have a problem".

Da questo punto in poi fantasia, storia, scienza si incontrano

Il cinema di genere degli ultimi anni racconta storie non vere ma certamente verosimili: siamo andati sulla luna, sulla coda di una cometa, è stato misurato lo spazio interstellare, si parla di raggi cosmici, di antimateria, di buchi neri. “Non è più fantascienza - racconta Battiston - è scienza.” 

Una passione, quella del cinema per lo spazio, che torna prepotente negli ultimi anni con pellicole come Gravity (2013) in cui tutti i movimenti, le luci, i giochi sono calcolati dal computer - artigianato dell'illusione è stato definito - e ancora di più con Interstellar (2014), il film che è anche uno strepitoso tributo ad Albert Einstein. 

La storia è stata scritta da Kip Thorne un astrofisico (che potrebbe essere il prossimo premio Nobel per la fisica) che ha lavorato per 12 anni con il regista Nolan a partire dalla fisica nota, immaginando mondi possibili e basando il resto del racconto su quella speculativa (TesseractWormhole, ...). 

Con questo film si dice abbia dato addirittura un contributo al progresso scientifico grazie alla “visualizzazione” di alcune teorie.

Sulla necessità di “visualizzare” mi scontro quasi ogni giorno: per quanto si possano produrre documenti approfonditi, dettagliati e perfino approvati ci sarà sempre qualcuno che alla vista del prototipo o del Mockup cadrà da un pero.

La mia pregiudizievole idea dunque, indotta dal confronto quotidiano con utenti di applicazioni web recalcitranti alle parole che necessitano di “visualizzare” e la mia personale visione che riterrebbe invece sufficiente uno “sforzo di fantasia”, richiede un cambio di prospettiva: accettare che lo studio, l’approfondimento, la ricerca, l’intuizione, l’applicazione, la sperimentazione, l’ingegno, la creatività e la passione con cui ci adoperiamo ogni giorno per mostrare cose che altrimenti non saremmo in grado di far vedere non è (mai) fatica sprecata e potrebbe addirittura un giorno trasformarsi nella scintilla che ci farà fare il prossimo salto in avanti.
Robot di Metropolis (Fritz Lang, 1927) - Cinémathèque française di Parigi
Robot di Metropolis (Fritz Lang, 1927) - Cinémathèque française di Parigi

P.S. Sulla domanda in incipit non ho finora trovato risposta soddisfacente e sono ben accetti suggerimenti;-).


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mercoledì 18 maggio 2016

Non chiamatelo “Festival”

Ho cominciato da qualche anno ad accumulare libri e riviste di giardinaggio, dépliant di eventi florovivaistici, cartoline botaniche, semi di zucca e cappelli di paglia. 

Man mano che la formazione è avanzata il Glicine è diventato “Wisteria Sinensis”, il Geranio: Pelargone, la Speronella: Delphinium e chiunque ormai accenni in mia presenza un moto di incertezza nel distinguere a occhio nudo un’infiorescenza apicale ad ombrello da una spiga scatena, come minimo, disapprovazione e biasimo.

Ça va sans dire, da diverse stagioni frequento fiere di settore, mercati, mostre, esposizioni e rassegne varie, armata di macchina fotografica, blocco per gli appunti e una lista di improbabili erbacee, rigorosamente perenni, che potrebbero allietare la mia affollata aiuola urbana, posto che qualcuna delle piante che vi dimora decida di abbandonare anzitempo questa valle di lacrime per lasciare spazio, che so, all'effetto cottage di una rarissima digitale purpurea.

Ora, si capisce facilmente che decidendo di andare anche quest’anno al Festival del Verde e del Paesaggio le mie aspettative erano piuttosto elevate ed è altrettanto facile immaginare che avrei potuto cominciare a recriminare ancor prima dello strappo del biglietto d’ingresso. Pioveva pure.
Auditorium Parco della Musica - Festival del verde e del paesaggio
Auditorium Parco della Musica - Festival del verde e del paesaggio

Tuttavia, anche gli spiriti più arruffati in alcune giornate sono più quieti e la potenziale diatriba sulla mancanza di spunti creativi dell’evento è sfociata in una riflessione più ampia: posto che visto uno, visti tutti (ma quelli che vanno ogni anno sulla Croisette penseranno la stessa cosa?) che si potrebbe fare per ravvivare un Festival ammesso che non si possa semplicemente proiettare nuovi film?
Auditorium Parco della Musica - Festival del verde e del paesaggio
Auditorium Parco della Musica - Festival del verde e del paesaggio

Come rendere il Festival del verde e del paesaggio diverso dall'anno prima? Ovviamente in questa simulazione non consideriamo limiti di budget e facciamo come se il Parco della Musica facesse parte dell’emirato di Abu Dhabi. ;-)

Partiamo da vincoli e opportunità.

1.Location. Non è che basta cambiare le tende all'auditorium, voglio dire quello è un complesso polifunzionale con una sua precisa personalità… ma se fosse possibile ad esempio ridefinire gli orari della mostra prevedendo che si faccia in notturna, dal tramonto all'alba, con le terrazze piene di vasi di bella di notte, un famosissimo Direttore delle luci - ma uno figo proprio! - e un paesaggista/architetto/progettista/musicista che aggiunga fontane, giochi d’acqua e naturalmente musica?

2.Espositori. Fermo restando che non si può non avere Barni, Raziel, L’erbario della Gorra e Il Lavandeto di Assisi, per aggiungere un pizzico di glamour internazionale, si potrebbe chiedere a un Clement o un Blanc di presenziare, così tanto per darsi un tono. E poi creare alternanza: definire un regolamento per cui nessuno può partecipare per due anni consecutivi e per ogni espositore “storico” consentire la partecipazione gratuita di “nuove leve”. Al bando invece gli stand di libri ma organizzare solo postazioni di Book-crossing.

3.Temi. Niente voli pindarici, non “territori espressivi nei quali una società manifesta la sua civiltà” ma temi banali, che so, Giardini del ‘600 con tutto lo staff in costume d’epoca. Farsi venire idee coatte, tipo droni che fanno riprese aeree continue che vengono proiettate su mega schermi e utenti che mandano ai droni le loro riprese dal parterre:-). Utilizzo del “girato” per un docu-film da presentare alla prossima Mostra del cinema: il primo film interamente girato da droni e pubblico insieme:-).

4.Eventi. Nessun evento pianificato ma spazi condivisi per l’organizzazione di incontri spontanei proposti dal pubblico, dalle presentazioni di libri agli addii al nubilato, senza distinzione, così che la futura sposa con giarrettiera tipo bandana faccia pendant con il professore di storia e il suo romanzo epistolare.

5.Bambini. Prevedere multe per genitori che non permettono ai bambini di rotolarsi negli spazi erbosi delle scarpate dell’Auditorium e già che ci siamo aggiungerei scivoli sorvegliati da personale addetto alle postazioni per i giochi.

6.Comunicazione. Qui c'è una nota dolente. Mentre passeggiavo tra gli stand resto incantata da una bancarella di deliziosi cappellini. Ne scelgo uno dopo molte indecisioni e mi accingo a provarlo, con mia sorella armata di macchina fotografica pronta  a immortalare il momento, quando l’artista ci gela con un: “sarebbe che non faccio fare fotografie”... Mi sforzo di pensare cosa potrebbe succedere a parte pubblicità gratuita per…l’opera. Qualcuno certo potrebbe rifare lo stesso cappellino a partire dalla foto, è un rischio serio, proprio ultimamente ho letto di una copia di un cilindro del ‘700 spacciata per originale. Ma a parte il copyright, l’aspetto più grave di tutta la faccenda è senza dubbio l’uso della locuzione “sarebbe che non”, per cui farei sottoscrivere apposita clausola di non uso agli espositori.

Insomma, il mio sarebbe più o meno così: poco Festival, mai che non. :-)
Auditorium Parco della Musica - Festival del verde e del paesaggio
Auditorium Parco della Musica - Festival del verde e del paesaggio



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giovedì 14 aprile 2016

Il tetto del Pantheon

"dimme er Patheon, no a rotonda!"


Uno degli interventi video del TEDxRoma di quest’anno dal titolo: "To create for the ages, let's combine art and engineering" era di Bran Ferren. 

Bran Ferren è quello che Emilie Wapnick potrebbe definire un multipotenzialista, un maestro delle arti e delle scienze, un uomo universale. La sua pagina Wikipedia lo descrive come un  “American technologist, artist, architectural designer, vehicle designer, engineer, lighting and sound designer, visual effects artist, scientist, lecturer, photographer, entrepreneur and inventor”. 

Nel suo speech la combinazione di arte e ingegneria riguarda un frammento sconfinato e incommensurabile del nostro passato. La prossima volta che ci passeggiate davanti diretti verso una granita al caffè con panna, fateci caso :-).

La storia è questa.

All'età di nove anni, andammo a Roma. Un giorno d'estate particolarmente afoso, visitammo un edificio a forma di tamburo che dall'esterno non era particolarmente interessante. Mio padre disse che si chiamava Pantheon: un tempio per tutti gli dei

Non sembrava così speciale dall'esterno, come dicevo, ma entrandoci, rimasi colpito da tre cose: prima di tutto, era piacevolmente fresco nonostante il caldo soffocante che c'era fuori. Era molto buio, l'unica fonte di luce era una grande apertura sul tetto. Mio padre mi spiegò che si chiamava Oculus, un occhio sul paradiso. E c'era qualcosa in quel posto, non sapevo perché, che lo rendeva speciale. Andando verso il centro, guardai il cielo attraverso l'Oculus. Era la prima chiesa in cui entravo che dava una visione non protetta tra Dio e l'uomo. Ma mi chiesi cosa sarebbe successo in caso di pioggia. Magari mio padre lo chiamava Oculus, ma di fatto era un grande buco nel tetto. Guardai per terra e vidi i canali di drenaggio  scavati nel pavimento di pietra. Mentre mi abituavo al buio, fui in grado di scoprire i dettagli nel pavimento e sui muri circostanti. Niente di particolare, solo qualche statua che si vede in tutta Roma. Sembrava che si fosse presentato lo scultore di turno della Via Appia con il suo campionario, lo avesse mostrato ad Adriano e Adriano avesse detto, "le prendiamo tutte”. :-)

Ma il soffitto era spettacolare

Roma, L' Oculus del Pantheon
L' Oculus del Pantheon 



Sembrava una cupola geodesica di Buckminster Fuller. Ne avevo viste altre, e Bucky era un amico di papà. Era moderna, tecnologica, impressionante, un'enorme apertura di 43 metri che non a caso era anche la sua altezza. Adoravo quel posto. Era veramente bello e diverso da tutto ciò che avevo visto in precedenza, quindi chiesi a mio padre, "Quando è stato costruito?" Mi disse, "Circa 2000 anni fa." E io dissi, "No, intendo il tetto." Davo per scontato che fosse un tetto moderno che era stato costruito perché l'originale era stato distrutto da qualche guerra lontana. Mi disse, "È il tetto originale."

Quel momento cambiò la mia vita.

Per me, le piramidi di Giza, che avevamo visitato l'anno precedente, certamente sono impressionanti, bel design, ma datemi un budget illimitato, 20 000 o 40 000 operai, e 20 o 30 anni per scolpire e trascinare blocchi di pietra per la campagna, e le piramidi le faccio anch'io. Ma nessuna forza bruta mette in piedi la cupola del Pantheon, né 2000 anni fa, né oggi. Casualmente, è ancora la più grande cupola non rinforzata che sia mai stata costruita

Per costruire il Pantheon ci sono voluti i miracoli. Per miracolo intendo cose che sono tecnicamente a malapena possibili, molto rischiose, e potrebbero non essere realizzabili oggi. Per esempio per renderlo strutturalmente possibile, hanno dovuto inventare cemento molto resistente e controllare il peso, modificare la densità dell'aggregato mentre innalzavano la cupola. Per la resistenza e la leggerezza, la struttura della cupola usava cinque anelli di cassettoni, di dimensione decrescente, che impartiscono una prospettiva molto enfatizzata al design. Era straordinariamente fresco all'interno grazie all'enorme massa termale, convettore naturale di aria che risale attraverso l'Oculus e un effetto Venturi quando il vento soffia in cima all'edificio. 

Scoprii per la prima volta che la luce stessa ha sostanza. Il fascio di luce che passava attraverso l'Oculus era sia bello che palpabile, e mi resi conto per la prima volta che si poteva progettare la luce. Non solo, ma che tutte le forme di design, di visual design, erano tutte irrilevanti senza, perché senza luce, non si può vedere niente. Mi resi anche conto che non ero il primo a pensare che quel posto fosse veramente speciale. Era sopravvissuto alla gravità, ai barbari, alle razzie, allo sviluppo e alla devastazione del tempo fino a diventare quello che credo sia l'edificio occupato più longevo della storia.
Roma, Pantheon - Vista della cupola dal Campidoglio
Pantheon - Vista della cupola dal Campidoglio

Roma, Pantheon - Esterno
Pantheon - Esterno

P.S. Nell'inciso iniziale un detto romano dovuto al fatto che la piazza del Pantheon per la toponomastica si chiama “Piazza della rotonda”. Da qui, se si dava appuntamento a qualcuno dicendogli “ci vediamo a Piazza della Rotonda” si poteva venire apostrofati in questo modo, come a dire “usa il nome comprensibile di quel luogo anziché un nome che non conosce nessuno”. Per estensione il modo di dire è diventato di utilizzo comune per dire a qualcuno “non fare giri di parole, chiama le cose col loro nome, sii più diretto e conciso”.


Fonti e approfondimenti:
L’intera conferenza è disponibile qui
TEDxRoma 2016 “Game Changers
Di spazio svelato dalla luce si parla in questo post di Didatticarte
Ancora sul Pantheon

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mercoledì 18 novembre 2015

Chi ha paura dell’effimero?

Gli esseri umani si inventano dei modi per poter sopravvivere al tempo della guerra... 
(Walter Veltroni, Renato Nicolini – Documentario sull'estate romana e sul meraviglioso urbano).

Nel 1977 Carlo ha vent'anni, frequenta l’università e una ragazza, Annamaria.

Roma nel 1977 è terra di Babilonia, una città difficile e pericolosa, la città degli anni di piombo, della lotta armata, della contestazione studentesca, del terrorismo, dei disordini, della strategia della tensione. I mezzi di comunicazione diffondono quotidianamente bollettini di guerra: esplosioni, attentati, violenti scontri di piazza. 

E morti.

Il 1° febbraio 1977 muore Guido Bellachioma, 22 anni, studente del collettivo di Lettere durante l’occupazione della Sapienza; il 21 aprile l’università è nuovamente occupata e muore l'allievo sottufficiale Settimio Passamonti colpito a morte; il 12 maggio durante una manifestazione contro la Legge Reale del 1975 sul fermo di polizia e l'uso di armi da parte delle forze dell'ordine muore, poco meno che ventenne, Giorgiana Masi colpita all'addome da un proiettile calibro 22 durante gli scontri tra dimostranti e polizia… “e poi primavera / e qualcosa cambiò, / qualcuno moriva / e su un ponte lasciò / lasciò i suoi vent'anni / e qualcosa di più...” (Stefano Rosso, Bologna '77);  il 30 settembre un gruppo di neofascisti uccide con un colpo di pistola Walter Rossi, studente universitario e militante di Lotta continua.



Nel 1977 esce al cinema Saturday Night Fever e il primo episodio di Guerre stellari.

Da Piazza Santa Maria Ausiliatrice nel quartiere Appio -Tuscolano, dove abitava con i genitori e i due fratelli, Carlo raggiungeva gli amici al centro, incurante del clima di guerriglia urbana, per bere una birra o tirare tardi, ma non troppo, sapendo che qualcuno avrebbe vegliato finché non avesse sentito la serratura girare di nuovo nella toppa.

Nel 1977 il sindaco di Roma è un torinese, Giulio Carlo Argan, storico dell’arte e studioso di fama internazionale. 

Indimenticato assessore alla cultura è Renato Nicolini.

Nicolini aveva un animo artistico, era architetto ma era più di tutto immaginifico, vulcanico e fanciullesco anche dopo aver raggiunto l’età avanzata, non badava troppo alla forma del vestire e i capelli vagavano arruffati inseguendo a stento la direzione delle idee, la voce non riusciva a star sempre dietro ai pensieri e così spesso i concetti erano sommersi da nuove parole e il discorso seguiva una direzione sghemba, un fiume in piena ma senza arroganza, anzi gli era rimasta una dose di incredulità, quella stessa di quando era stato catapultato a fare l’assessore capitolino a soli 34 anni.” (Claudio Gamba, La scomparsa di Giuseppe Chiarante e Renato Nicolini).
Renato Nicolini

Argan è sindaco in quegli anni drammatici, è sindaco quando viene rapito e ucciso Aldo Moro e quando il suo cadavere è ritrovato in via Caetani, eppure da mano libera al giovane assessore nel convincimento che la politica è al servizio dei cittadini, che la politica e la cultura si alimentano l’una dell’altra, che la città è il luogo di incontro tra le testimonianze del passato e la militanza culturale e politica nel  presente. Del resto il concetto di politica non viene proprio dalla città, dalla polis?

Renato Nicolini raccoglie la sfida, esce dalla sindrome dell’assedio e restituisce la città ai suoi cittadini: nel momento in cui la paura rischia di vincere inventa luoghi “neutri”, zone franche, mette insieme lunghe notti di cinema, maratone, festival della poesia, in un gioco in cui convive la tipica famiglia romana, il figlio dei fiori, l’intellettuale, il frequentatore di cineclub, il poeta e il proletario. Sono in 4000 a Massenzio per il Peplum e due anni dopo arrivano in migliaia da tutta Italia per il Festival dei Poeti di Castelporziano. 

Nel 1977 i romani migrano lungo le strade di una città in guerra e oltrepassano compatti le porte spalancate da Renato Nicolini: cinema, teatro, musica, arte, sapere, comunicazione, relazioni sociali, sperimentazione. Cultura interclassista, interdisciplinare, partecipata, cultura basata su uno spirito libertario, progressista e laico. Quello stesso spirito che qualcuno tenta ancora oggi, inutilmente, di soffocare con il sangue. Qualcuno, in seguito, l’ha definita cultura dell’effimero
Roma - Basilica di Massenzio

Incontro Carlo alla Feltrinelli di via Appia, poco lontano dai luoghi della sua giovinezza.
“Parlami di Nicolini …” dico. 
“Che vuoi sapere?”
“Della cultura dell’effimero”
“Una faccenda tremendamente seria...”

Stay tuned :-)


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venerdì 31 luglio 2015

Roma: giardino o cimitero abbandonato?

Vivo a Roma dal 2001. È la mia casa. Il luogo da dove osservo la linea dell’orizzonte.
Roma - Street Art, via Prenestina

È vero quello che si dice di questa città: è sporca, congestionata, inospitale, corrotta, criminale, burocrate, lobbista, provinciale, guidata da un sindaco marziano, al 52° posto nella classifica del World's Most Livable CitiesAltro che smart city.

La strada che percorro quotidianamente per andare al lavoro, negli inverni particolarmente piovosi si allaga in diversi punti, non di rado bisogna abbandonare la macchina e sperare di ritrovarla intatta al refluire delle acque. La manutenzione di mezzi pubblici, strade, aree verdi, infrastrutture tout court, sembra essere un concetto estraneo all’amministrazione capitolina. 

Il brutto, scrive Mantellini, è una specie di droga

In questi giorni di j’Accuse ho ripensato ai motivi per cui mi sono trasferita da una graziosa cittadina adagiata sul fiume Liri, incorniciata dai monti Simbruini, a due passi dal Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise e, sopratutto, se valgono sempre (che poi sono banalmente le motivazioni dei più: lavoro, affetti, opportunità sociali e culturali).

Certo fa caldo a Roma, c’è traffico e non ci sono parcheggi (rievoco un monologo di Joele Dix: “se trovo un parcheggio sotto casa piuttosto che prendere la macchina ne compro un’altra” :-)). Problema, almeno quest’ultimo, non del tutto irrisolvibile: potrei decidere di trasferirmi di nuovo in campagna, di comprare un box, di utilizzare solo i mezzi pubblici o il car sharing, alle brutte di muovermi a piedi o in bicicletta. 

Ma come si fa a non lamentarsi? Roma è bella ma non ci vivrei. Ecco. Questa frase mi sembra illuminante: mica è necessario stare tutti qui, si può benissimo decidere di andare altrove. 

Se poi si sceglie una metropoli analoga (che non sia Parigi;-)) la questione potrebbe ripresentarsi identica: come sostiene il fisico Geoffrey West  le città “sono solo una massa confusa di persone, che vanno a sbattere le une contro le altre e al massimo hanno in comune un paio di idee”.

Poi mi capita di sentire dei bravi milanesi che “spalano la neve” e penso a quanto sono stronzi invece questi romani che non fanno una benemerita mazza tutto il giorno, ma per non farlo devono per forza spostarsi in un preciso luogo dell’ozio e questo luogo dev’essere per forza un punto raggiungibile unicamente dal Grande Raccordo Anulare, motivo per cui a qualsiasi ora del giorno li trovi in fila a smadonnare. E solo perché a Roma non nevica abbastanza.

La verità è che gli stessi problemi li troviamo ovunque identici ed esatti, li portiamo con noi, sono il nostro bagaglio e risiedono essenzialmente nella generalizzata mancanza di rispetto per il bene pubblico.

Perché la qualità della (mia) vita potrebbe migliorare con pochi gesti: basterebbe non dico pettinare il muschio ma non occupare due parcheggi per riservarne uno al famigliare che arriva a casa più tardi, non costringermi a saltellare tra gli escrementi del cane lasciati a seccare sul cancelletto d’entrata, non scagliare il sacchetto dei rifiuti dal finestrino dell’auto in corsa affinché vada a schiantarsi ai piedi del cassonetto, non utilizzare balconi e pianerottoli come rimessa, trasformando in un campo profughi le aree comuni perché anche il bello, dico io, è una specie di droga.

Roma caput mundi nel malcostume diffuso dunque, ma attenzione
Nessuno si senta escluso.

P.S. La mia riconoscenza ad Annamaria Testa per avermi ispirato il titolo (e le riflessioni) di questo post a partire dai giardinieri:-). 

Roma - Street Art, Testaccio

Roma - Street Art - Alice Pasquini

Roma

Roma

Roma

Roma

Roma

Roma

Roma

Roma



Ispirazione e fonti:
Francesco De Gregori, La storia (dall’album Scacchi e Tarocchi)

Foto: scorci di Roma


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