Uno dei vostri crimini è aver messo a nudo alcune pieghe del cuore umano troppo sporche per essere vedute… (Prosper Mérimée, Lettere licenziose a Stendhal (1830-1835))
I titoli di testa de L’ultimo Metrò scorrono sullo schermo su uno sfondo rosso papavero e fino a ieri, sarebbero scivolati via senza grossi traumi ma oggi, nel dopo Cromorama, sappiamo che la sensazione che un colore ci suggerisce è legata al contesto e mai alla tinta, che quando un grande artista usa un colore lo fa per darci la sua visione del mondo, che il colore non è una mera registrazione di dati fisici. Sappiamo anche che vedere è una costruzione.
E se vedere è una costruzione, l’intreccio della sceneggiatura con la mia personale e pregiudizievole (ri)costruzione, senza sapere nulla della storia, a partire dallo sfondo rosso dei titoli di testa, ha dato luogo ad una conclusione totalmente fasulla: ecco un rosso boudoir che evoca passione, eccitazione e che si sposa perfettamente con “l’ultimo” del titolo, quasi un richiamo a un “ultimo” famoso ballo et voilà! una nuova trama che non c’entra nulla, o quasi, con quello che viene raccontato sullo schermo (del resto nella costruzione del colore non conta l’armonia quanto avere una storia da raccontare:-)).
Eppure la scelta di una dominante rossa, fin dalle prime inquadrature, non può essere casuale: il rosso evoca forse il sangue, la guerra, le ferite di una nazione (la pellicola racconta le vicissitudini del Teatro Montmartre sotto l’occupazione tedesca)? Vuole suggerire una sensazione di angoscia, di claustrofobia (il regista e impresario ebreo, Lucas Steiner, resta nascosto fino all'ultima scena come un fantasma imprigionato nelle segrete del teatro)?
LE DERNIER MÉTRO |
In un’intervista rilasciata a Le Quotidien di Paris, nel giugno del 1980 Truffaut dice:
“Le dernier métro è un film notturno. Bisognava considerare che l’impressione di quel periodo è spesso fatta di ricordi in bianco e nero, alla maniera delle foto e dei film d’epoca. Credo di aver risolto il problema parlandone molto con Nestor Almendros, prendendo delle decisioni con lui”.
Truffaut e Almendros (Barcellona, 1930 – New York, 1992), direttore della fotografia ingaggiato per la nona volta dal cineasta, decidono che i primi 45 minuti si svolgono di notte, al buio, per dare maggiormente l’idea di essere in guerra, sacrificando la verità storica (all'epoca in cui il film è ambientato alle dieci di sera era ancora chiaro) a una verità estetica. Del resto Almendros è uno dei maestri indiscussi del bianco e del nero, della luce e dell’ombra, anche se stavolta affida la dicotomia luce-tenebre al rosso-nero. E sarà forse un caso se la stessa coppia di colori è presente nella bandiera della Germania nazista?
L’atmosfera è dunque misteriosa, la passione velata, tutto si gioca sulla metà nascosta (“in te ci sono due donne” è l’immancabile lettura di ogni mano femminile che capita a tiro di Depardieu-Granger), sulla verità-finzione, sul significato ambiguo (il figlio della portinaia coltiva piantine di tabacco ma è facile immaginare che possa trattarsi di un altro tipo di vegetale), sul binomio buio-luce, su una realtà che non si staglia nitida ma si intravede appena, quasi che Truffaut, facendo suo il rimprovero di Mérimée a Stendhal, avesse steso un tramonto sulle pieghe del cuore umano.
LE DERNIER MÉTRO |
P.S. Di colori e di cinema abbiamo già scritto qua e là... :-)
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