venerdì 23 febbraio 2018

Il rosso e il nero, il prima e il dopo, l’ultimo

Uno dei vostri crimini è aver messo a nudo alcune pieghe del cuore umano troppo sporche per essere vedute… (Prosper Mérimée, Lettere licenziose a Stendhal (1830-1835))

LE DERNIER METRO - TRUFFAUTI titoli di testa de L’ultimo Metrò scorrono sullo schermo su uno sfondo rosso papavero e fino a ieri, sarebbero scivolati via senza grossi traumi ma oggi, nel dopo Cromorama, sappiamo che la sensazione che un colore ci suggerisce è legata al contesto e mai alla tinta, che quando un grande artista usa un colore lo fa per darci la sua visione del mondo, che il colore non è una mera registrazione di dati fisici

Sappiamo anche che vedere è una costruzione

E se vedere è una costruzione, l’intreccio della sceneggiatura con la mia personale e pregiudizievole (ri)costruzione, senza sapere nulla della storia, a partire dallo sfondo rosso dei titoli di testa, ha dato luogo ad una conclusione totalmente fasulla: ecco un rosso boudoir che evoca passione, eccitazione e che si sposa perfettamente con “l’ultimo” del titolo, quasi un richiamo a un “ultimo” famoso ballo et voilà! una nuova trama che non c’entra nulla, o quasi, con quello che viene raccontato sullo schermo (del resto nella costruzione del colore non conta l’armonia quanto avere una storia da raccontare:-)).

Eppure la scelta di una dominante rossafin dalle prime inquadrature, non può essere casuale: il rosso evoca forse il sangue, la guerra, le ferite di una nazione (la pellicola racconta le vicissitudini del Teatro Montmartre sotto l’occupazione tedesca)? Vuole suggerire una sensazione di angoscia, di claustrofobia (il regista e impresario ebreo, Lucas Steiner, resta nascosto fino all'ultima scena come un fantasma imprigionato nelle segrete del teatro)? 
LE DERNIER METRO - TRUFFAUT
LE DERNIER MÉTRO

In un’intervista rilasciata a Le Quotidien di Paris, nel giugno del 1980 Truffaut dice:
Le dernier métro è un film notturno. Bisognava considerare che l’impressione di quel periodo è spesso fatta di ricordi in bianco e nero, alla maniera delle foto e dei film d’epoca. Credo di aver risolto il problema parlandone molto con Nestor Almendros, prendendo delle decisioni con lui”.

Truffaut e Almendros (Barcellona, 1930 – New York, 1992), direttore della fotografia ingaggiato per la nona volta dal cineasta, decidono che i primi 45 minuti si svolgono di notte, al buio, per dare maggiormente l’idea di essere in guerra, sacrificando la verità storica (all'epoca in cui il film è ambientato alle dieci di sera era ancora chiaro) a una verità estetica. Del resto Almendros è uno dei maestri indiscussi del bianco e del nero, della luce e dell’ombra, anche se stavolta affida la dicotomia luce-tenebre al rosso-nero. E sarà forse un caso se la stessa coppia di colori è presente nella bandiera della Germania nazista?

L’atmosfera è dunque misteriosa, la passione velata, tutto si gioca sulla metà nascosta (“in te ci sono due donne” è l’immancabile lettura di ogni mano femminile che capita a tiro di Depardieu-Granger), sulla verità-finzione, sul significato ambiguo (il figlio della portinaia coltiva piantine di tabacco ma è facile immaginare che possa trattarsi di un altro tipo di vegetale), sul binomio buio-luce, su una realtà che non si staglia nitida ma si intravede appena, quasi  che Truffaut, facendo suo il rimprovero di Mérimée a Stendhal, avesse steso un tramonto sulle pieghe del cuore umano.

LE DERNIER METRO - TRUFFAUT
LE DERNIER MÉTRO

P.S. Di colori e di cinema abbiamo già scritto qua e là... :-)


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venerdì 9 febbraio 2018

Il violino di papà

di Alessandro Borgogno

Un’immagine per me indelebile della giovinezza di mio padre Lodovico lo vede in piedi, chioma al vento e sguardo profondo, nella cromatica appena sbiadita delle prime fotografie a colori, mentre suona il violino su un prato, fra le montagne della sua Cortina d’Ampezzo, con lo sfondo di un bosco e di una cima più lontana.

Era arrivato a suonarlo bene il violino, Lodovico, e lo suonava formando un gruppo con altri amici che si esibiva nella chiesa della Difesa, una delle due chiese principali di Cortina, quel paese che allora cominciava appena a diventare una cittadina popolosa e che poi sarebbe divenuto un luogo famoso in tutto il mondo. La chiesa non era la parrocchia principale di Cortina, quella poco sopra, sul corso, con il campanile che svetta su tutta la valle. Ma gli ampezzani dell’epoca finirono per frequentare molto di più la piccola chiesa più in basso, perché le messe erano assai più spettacolari. Si cantava, e c’erano quei ragazzi che suonavano. Nascerà in quegli anni il suo amore per la musica, e mentre suonerà il flicorno nella banda, continuerà per proprio conto a studiare il violino che gli piace molto di più, e il suo interesse non si fermerà a quella normalmente definita classica ma, avido di conoscenze, si estenderà a qualsiasi genere musicale. Nascerà anche l’amore per la letteratura, e quella fame di sapere che lo accompagnerà sempre. 

Leggeva, il piccolo Lodovico, leggeva tanto e leggeva tutto, e ciò che poi costruirà con le proprie forze nell'arco di tutta la sua vita, insieme ad una famiglia con moglie e tre figli di cui io sarò il terzo, sarà una biblioteca sconfinata che non smetterà mai di alimentare con nuovi libri e nuovi volumi. Tutto ciò che la scuola e lo studio non hanno potuto dargli, che la guerra e la povertà e la necessità di cominciare a lavorare fin da piccolo non gli hanno permesso di avere, se lo riprenderà da solo, senza l’aiuto di nessuno, pagina su pagina, copertina su copertina, dalla letteratura classica all'astronomia, dall'archeologia alla storia, dall'arte alle opere teatrali fino ai fumetti, nulla si lascerà sfuggire. Comprerà tutto, leggerà tutto, assorbirà tutto.

E avrà sempre con sé il violino, anche una volta arrivato a Roma e messa su famiglia. Ma da un certo punto in poi non lo suonerà più.

Per me quel violino in casa ha sempre rappresentato un ponte con qualcosa che avrei sempre e solo potuto intuire ma che mai avrei potuto davvero conoscere. Perché non ho mai sentito e mai sentirò mio padre suonarlo. Interrogato o sollecitato, ha sempre risposto con una delle sue tipiche leggende inconfutabili secondo la quale “ci sono solo due strumenti che se li lasci poi non puoi mai più riprendere, il corno e il violino”. Verità assoluta mai verificabile.

Eppure il violino è lì, ed è talmente carico di tutto quello che io non conosco e non potrò mai sapere della giovinezza di mio padre che non ha neanche importanza se sia davvero lo stesso che suonava da giovane oppure un altro arrivato dopo. Le leggende non necessitano di riscontri.

Talmente forte e ricorrente è sempre stato il desiderio di stabilirci un rapporto che alla fine qualche modo l’ho trovato anche io. Due volte l’ho usato per inserirlo in rappresentazioni del tutto mie. Una volta, forse ventenne, lo usai come oggetto di scena per un piccolo recital di canzoni scritte e cantate da me. Iniziavo la serata con il violino. 

Lo imbracciavo, facevo due note, poi la mia voce registrata fuori campo mi interrompeva dicendo “bè? Che ti sei messo in testa? Ora anche il violino?”. Così lo posavo, prendevo la chitarra, iniziavo a suonare e cantare le mie canzoni e non lo toccavo più fino alla fine.
Una quindicina di anni dopo lo ripresi. Lo usai per una scena di un cortometraggio che partecipò anche ad un concorso. Il film era discretamente surreale, comunque anche lì lo imbracciavo per pochi istanti, nella scena finale, ed accennavo una sonata in realtà doppiata sulla pista sonora da una vera incisione di un vero violinista. Finzione cinematografica anche evidente, come era giusto che fosse, anche perché io non lo so né mai lo saprò suonare.

Significativamente in tutti e due i casi l’ho utilizzato per poco più di un istante. 
Così come un istante è quello fissato per sempre dalla foto di mio padre che lo suona fra le montagne. 

E ancora oggi se mi fermo per un istante a pensare alla giovinezza di mio padre, il primo oggetto che mi viene in mente, senza sforzo, senza chiamarlo, è il suo violino. 
Il violino di papà - Cortina D'Ampezzo



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