mercoledì 27 novembre 2019

La Vertigine dell’Ossessione


di Alessandro Borgogno



È come se io stessi percorrendo un lungo corridoio che è ricoperto di specchi... 
e alcuni frammenti di quegli specchi sono ancora là... 
e quando arrivo alla fine del corridoio non c'è altro che oscurità... 
e io so che, addentrandomi nell'oscurità, vado a morire...

(Madeleine)

Roma, Lunedì 25 Novembre 2019. Cinema “Nuovo Sacher”. Ore 20.00

La serata inizia con il Direttore della cineteca di Bologna, Gian Luca Farinelli con complice Nanni Moretti padrone di casa, che ci spiega come in realtà la pronuncia esatta sarebbe “Vèrtigo”, con l’accento sulla e, e non “Vertigo” come l’abbiamo sempre chiamato tutti (in Italia "La Donna che visse due volte"). È il giusto preludio alla visione di un film che, come sempre quando si ha la fortuna di vedere Hitchcock in una sala cinematografica sul grande schermo, si rivelerà un film nuovo rispetto a quello che comunque si conosce già a memoria, quasi lo si vedesse per la prima volta.

Come già la volta scorsa per “Gli uccelli”, anch’esso restaurato l’anno scorso dalla benemerita cineteca e restituito nel suo splendore per qualche giorno alla visione in sala, così anche stavolta il capolavoro psicoanalitico di Sir Alfred si rivela sotto luci totalmente nuove, e ancora una volta quella che potrebbe essere la semplice visione di un gran film si trasforma in una esperienza visiva, sonora ed emotiva difficilmente raccontabili, anche se noi ci proveremo lo stesso.

I brividi iniziano ai primi fotogrammi, quando i titoli di testa graficizzati da Saul Bass e musicati da Bernard Herrmann si animano con una zoomata che dopo alcuni dettagli di un volto femminile ci sprofonda in una pupilla che sullo schermo appare immensa. Siamo già precipitati nell’abisso, che diverrà via via un abisso psicologico, umano, ossessivo e totalizzante fino alle conseguenze più estreme: la spirale, che domina anche graficamente fin dai titoli, avvolge lo spettatore e lo trascina in un incubo apparentemente privo di vero terrore ma in realtà talmente oscuro da divenire insostenibile con il passare inesorabile dei minuti.

Il primo effetto, come sempre, viene dalla fenomenale fotografia di Robert Burks. La prima scena in notturna sui tetti di San Francisco, con tutta la città e la baia sullo sfondo, è un capolavoro di tonalità ombrose mescolate a una impressionante precisione dei dettagli. Da lì in poi i prodigi del mago della luce che ha illuminato tanti capolavori di Hitchcock verranno profusi a piene mani per tutta la pellicola, con effetti strabilianti e cromatismi carichi di simbolismo che giustamente sentirò definire dal mio compagno di visione “pittura in movimento”. Sul grande schermo la fotografia di Burks mostra tutta la sua grandezza per la ricchezza di dettagli che spesso in tv sfuggono, per la brillantezza dei colori e per i cambi di luce a volte sorprendenti e sempre funzionali all'effetto “magico” (si scoprirà andando avanti nella storia quanto sia “nera” questa magia” che la storia vuole trasmettere). Fra tutti, lo sfondo del ristorante che improvvisamente e inspiegabilmente si illumina al passaggio di Kim Novak, che viene immortalata alla sua prima apparizione in un profilo tanto perfetto da essere inquietante, e la vecchia libreria che all’uscita di James Stewart e Barbara Geddes, e che vediamo alle loro spalle attraverso la vetrina, passa da una oscura penombra ad una illuminazione a giorno.

Interminabile la serie di scene dove i colori assumono significati e dominano la scena per parlarci dei significati oscuri della storia. Su tutti, notoriamente, il verde. Dominante soffusa nelle scene del cimitero che verrà ripresa dall'insegna dell’Hotel a disegnare l’indimenticabile silhouette di Judy già immersa nel suo percorso di trasformazione e perdizione e che poi donerà ancora a lei la luce nebbiosa quando uscirà dal bagno definitivamente trasformata in Madeleine “di ritorno dal regno dei morti”. Brillante nel vestito che Madeleine sfoggia alla sua prima folgorante apparizione al ristorante, più cupo nella gonna indossata da Judy a passeggio per le vie di San Francisco, poco prima di sottoporsi alla orribile tortura della trasformazione da parte dell’ossessivo Scottie.
Vèrtigo - "La Donna che visse due volte" - Hitchcock
Il tema del doppio, ovviamente fra i principali percorsi narrativi del racconto, viene ribadito di continuo dalla presenza degli specchi, ma mai in modo sfacciato, tanto che la loro presenza si nota davvero soltanto al cinema. Nel negozio di fiori (inquadratura magnifica che con un campo-controcampo ribalta la visuale da ciò che vediamo noi a ciò che vede Stewart spiando da dietro la porta), nella camera d’albergo di Judy, nel negozio di vestiti, nel racconto degli incubi di Madeleine, e poi il quadro nella galleria, anch’esso in realtà uno specchio che riflette Madeleine, identica nell'acconciatura, nella posa, nella collana.

Inutile pensare di riassumere ora i cento elementi notevoli di un film sul quale sono stati già scritti (giustamente) interi libri. La visione sul grande schermo però riporta obbligatoriamente all'attenzione alcuni aspetti che mai, pur avendolo visto già decine di volte, erano stati così lampanti.

Ad esempio la maestria narrativa di Sir Alfred che per intere sequenze anche lunghissime (come il pedinamento di Scottie a Madeleine in giro per San Francisco) manda avanti la storia riempiendola di particolari indispensabili senza far pronunciare mai una sola parola ai personaggi. Sequenze intere da film muto, dove tutto ci viene raccontato da movimenti, sguardi, cenni, linguaggio del corpo, topografia della città, atmosfere, inquadrature e colori.

Gli sguardi. Sul grande schermo gli occhi chiarissimi di James Stewart sono impressionanti, quasi alieni. E lo sguardo obliquo di Kim Novak, che guarda spessissimo fuori campo, lateralmente, come sempre timorosa di qualcosa che possa arrivare “da fuori”, “da altrove”, a minacciarla. Ciò che avverrà davvero proprio nell'ultima scena, preannunciato proprio dal suo ultimo, ormai ben conosciuto anche allo spettatore, sguardo “all'indietro”.


Vèrtigo - "La Donna che visse due volte" - Hitchcock
Vèrtigo - "La Donna che visse due volte" - Hitchcock

I luoghi. Ho già avuto modo di scrivere quanto ogni singola location del film sia un luogo straordinario anche nella realtà. Nel nostro viaggio in California i pellegrinaggi hitchcockiani sono stati una costante: abbiamo dormito sulla stessa strada, qualche numero più in là, dell’albergo che oggi giustamente si chiama “Vertigo Hotel”; siamo arrivati ai piedi del Golden Gate più per Vertigo che per vedere davvero il ponte dal quel punto lì (e comunque non a caso da quel punto la prospettiva è straordinaria); e poi naturalmente i due luoghi più magici: Mission Dolores e Mission San Juan Bautista, ancora oggi identici a come li ha ripresi il Maestro. Letteralmente fuori dal tempo perché nessuna ambientazione del film è minimamente casuale, ogni luogo ha il suo significato fondamentale per la narrazione, perché lo ha anche nella realtà. 

Vèrtigo - "La Donna che visse due volte" - Hitchcock
Sono luoghi storici, rimasti tali nonostante la tendenza americana a cancellare il passato a scapito del continuo rinnovamento. E come tali Hitch li usa e Barks li fotografa. Rivederli sullo schermo, sentircisi di nuovo immersi come si stesse nuovamente sul posto è stata una sensazione unica che si è andata ad aggiungere all'emozione già vibrante della visione in sala. E sempre riguardo ai luoghi e al quasi perenne peregrinare che caratterizza il film (“da soli si può andare in giro, in due si va sempre da qualche parte” dice Madeleine in una frase memorabile) è sempre sorprendente riscoprire il realismo applicato da Hitch in questo film (proprio lui, storicamente nemico della “verosimiglianza” nel cinema): le distanze, i tempi di percorrenza, la successione delle strade cittadine ed extracittadine, i movimenti e i passaggi dei personaggi da un luogo all'altro… tutto è maniacalmente vero, e anche i tempi di percorrenza lo sono, rendendo spesso alcune sequenze apparentemente “lente” (ma non lo sono, ovviamente, sono “giuste”). Anche questi aspetti si possono ancora oggi constatare visitando San Francisco e i luoghi specifici del film, e sul grande schermo tutto questo appare ancora più chiaro e lucidissimamente applicato dal Maestro.


Vèrtigo - "La Donna che visse due volte" - HitchcockVèrtigo - "La Donna che visse due volte" - Hitchcock

Vèrtigo - "La Donna che visse due volte" - HitchcockVèrtigo - "La Donna che visse due volte" - Hitchcock
Vèrtigo - "La Donna che visse due volte" - Hitchcock
Vèrtigo - "La Donna che visse due volte" - Hitchcock
Vèrtigo - "La Donna che visse due volte" - Hitchcock
Gli attori. Notoriamente Hitchcock tirava fuori il meglio dai suoi attori, considerando anche con quanta cura li sceglieva e li preparava per le parti da interpretare. Oltre al piacere di sentire le loro voci originali che confermano come non si è mai grandi attori per caso, vederli nella dimensione a loro consona regala sorprese e delizie continue. Non si può non restare estasiati da Kim Novak che brilla gigantesca sullo schermo come mai potrebbe anche sul miglior televisore. Enigmatica, sensuale fino al limite della decenza, sinuosa e sfuggente, vagamente assente e poi improvvisamente partecipe anima e corpo. 

Per tornare ai suoi sguardi, impressionante quello che sfodera al risveglio nel letto di James Stewart quando viene ridestata dal suono del telefono, in uno dei gioielli hitchcockiani di racconto per immagini dove le parole non hanno importanza mentre i movimenti e gli sguardi non solo narrano ma portano alla luce i pensieri dei personaggi. Il gioco di occhiate ci dice, mentre Stewart pronuncia poche frasi di circostanza al telefono, che lei si è svegliata ora e non sa dove si trova, che quell'uomo non sa chi sia, che capisce in quel momento di trovarsi nel letto di uno sconosciuto, completamente nuda, e che evidentemente lui l’ha spogliata e messa a letto. Tutto con due sguardi e tre inquadrature. Vertigine nella vertigine. Le scene successive, quando appare vestita della sola vestaglia di lui e cammina a piedi scalzi sulla moquette, non possono essere descritte. E forse ancora più impressionante è la performance di James Stewart, che qui Hitch trasforma lentamente e inesorabilmente in un maniaco ossessivo. Lui, il buono per eccellenza, che restava buono anche quando faceva il pistolero dei western, diventa sotto i nostri occhi un individuo sempre più pericoloso, sempre più scollato dalla realtà e perfino sempre più violento. Una trasformazione (ennesimo inganno pensare che l’unica trasformazione del film sia quella di Judy in Madeleine imposta da Scottie, la trasformazione di quest’ultimo da uomo tranquillo e disincantato a ossessivo torturatore psicologico è davvero impressionante) che lascia inquieti e non si placa dopo la fine del film.


Vèrtigo - "La Donna che visse due volte" - Hitchcock

Vèrtigo - "La Donna che visse due volte" - HitchcockVèrtigo - "La Donna che visse due volte" - Hitchcock

La violenza. A questa davvero non ero preparato nonostante la conoscenza pregressa (maniacale anch'essa, senza dubbio). Mai in nessuna visione domestica mi era stata trasmessa in modo così penetrante e a tratti insopportabile la violenza psicologica che cresce via via nel corso della storia fino alla esplosione finale. E men che mai proprio la scena finale mi era apparsa così terribilmente dura, feroce, brutale. Al fascino di chi conosce la storia e anche tutte le sacrosante metaletture (prima fra tutti quella, conosciutissima, che voleva Vera Miles destinataria della parte a cui poi dovette rinunciare per sopraggiunta maternità, e che quindi pose Kim Novak nei confronti di Hitch esattamente come Judy nei confronti di Scottie, una donna che deve trasformarsi in un’altra che esiste solo nella testa di lui, ulteriore vertigine) si sovrappone un disagio tutto fisico, reale, nel vedere i tormenti inflitti ad una donna che finisce per accettarli per amore ma anche per senso di colpa (giustificato, il che ci pone nella ulteriore condizione di difficoltà nel non poter mettere tutto il bene da una parte e tutto il male dall'altra). Il tema del doppio diventa così esplosivo, anche in tutti gli altri aspetti della storia: Lui è stato incastrato in modo freddo e spietato, e quindi tendiamo a simpatizzare per lui, ma poi diventa un odioso tormentatore capace di torture psicologiche feroci, e non sappiamo più come difenderlo; lei è innamorata e questo la rende fragile, empatizziamo con lei quando subisce i tormenti di Scottie, ma è stata lo strumento consapevole di un crimine orribile che è in fondo anche la causa della follia di lui, e anche qui non sappiamo più da che parte stare. Hitch non ci consola e non ci lancia salvagente, siamo di soli di fronte ad un incubo senza via di uscita (e non la avremo neanche dopo la parola fine). 

Impressionante rendersi conto di come Sir Alfred abbia parlato in questo modo, nel 1958, di argomenti che solo oggi sono davvero diventati presenti nel dibattito pubblico. Scottie è uno Stalker che arriva fino alle soglie del femminicidio (e in fondo nonostante la meccanica apparentemente casuale e sfortunata dell’ultimo dramma, di questo si tratta comunque), ma Hitch non ci racconta semplicemente la storia di un criminale, lo fa diventare tale sotto i nostri occhi, raccontandocelo dall'interno, e senza darci soluzione: non si esce più dalla spirale. 

La scena finale poi, come si diceva, è davvero violenta e la violenza diventa anche tangibile. Il trascinamento di Judy su per le scale provoca fastidio fisico allo spettatore, il volto di James Stewart è trasfigurato in espressioni di vera cattiveria. Non c’è più amore nel suo sguardo, non c’è più traccia di quelle lacrime appena accennate ma brillanti che illuminavano i suoi occhi in un'altra indimenticabile scena che sul grande schermo diventa stupefacente (quando la vede uscire dal bagno finalmente trasformata di nuovo in Madeleine) e capiamo che anche in quel momento non c’era vero amore se non per se stesso e per la propria ossessione, così come ora salendo le scale del campanile il suo sguardo trasmette solo odio e volontà di sopraffazione. L’unico amore che esprime è quello per la riconquistata padronanza di sé (destinata giustamente a durare poco) e per il presunto controllo sui propri demoni.


Vèrtigo - "La Donna che visse due volte" - Hitchcock
Così la tragedia finale, che è sempre apparsa particolarmente "cattiva", dopo la visione dell’intero incubo proiettata così come era stata pensata e realizzata (anche nelle dimensioni) diventa l’unico finale possibile, inevitabile e ineludibile.
Ci si trova davanti ad un effetto quasi identico, ma per certi aspetti anche peggiore, a quello già vissuto proprio a proposito del precedente restauro hitchcockiano: la scena finale de “Gli uccelli”, Melanie attaccata nella soffitta, altro non è che uno stupro, e anche la scena finale di Vertigo lo è. Hitchcock ci sta mostrando da 50 anni James Stewart (James Stewart! Il vicino di casa che tutti vorremmo avere!) che violenta una donna fino alle più orribili e tragiche conseguenze!

Si potrebbe continuare all’infinito, come infinita è la spirale. I capolavori sono tali proprio perché le letture e le scoperte sono destinate a non avere fine.
Quello che si può ancora dire è che questo genere di visione spazza via ogni volta in un sol colpo la sensazione di “nostalgia” che a volte accompagna anche i più convinti appassionati di cinema nei confronti di certi capolavori del passato. 

Film come questi non sono semplicemente opere d’arte perché hanno una patina “mitica” o perché ci si sorprende di quali virtuosismi siano stati capaci gli autori nonostante mezzi tecnici a dir poco primitivi rispetto a quelli odierni. 
In realtà quel che ci si trova a guardare sono opere totalmente fuori dal tempo e da ogni classificazione, e non stupisce che all'epoca non siano subito piaciute e abbiano avuto bisogno di anni per essere comprese, perché la loro ricchezza, complessità, originalità e spessore sono ancora oggi difficilissimi da trovare anche nelle opere più moderne e apparentemente più ardite. Pochissimi attori avrebbero il coraggio di interpretare personaggi del genere, e ancor meno registi sarebbero in grado di fare film così, per non parlare di produttori disposti a finanziarli. La verità è che, oggi come allora, artisti e opere d’arte brillano di luce propria rispetto alla media delle creazioni, anche delle migliori, perché è rarissimo trovare insieme in una unica creazione artistica così tante componenti ai massimi livelli di espressione. Questo è uno di quei rari casi, perché Hitchcock era un artista totale, e Vertigo è un’opera d’arte che ancora oggi impressiona e stupisce.

Poter ancora ammirare opere come queste nel loro splendore originale è una fortuna che ha un valore inestimabile.



giovedì 23 maggio 2019

Il gioco dell'arte


di Alessandro Borgogno

“Andiamo Watson, il gioco è cominciato!”


È una frase iconica, uno di quei colpi di genio che i grandi scrittori inanellano nei loro scritti e che rendono ancora più immortali le loro creazioni. 

È la frase che Sherlock Holmes dice spesso al suo amico fidato quando si inizia la caccia al colpevole di qualche nuovo e inspiegabile delitto. Ed è in quel “è cominciato” che risiede il genio. Improvvisamente, talvolta senza che ce ne siamo ancora resi conto, ci dice che non stiamo vivendo una prefazione, un preludio, una preparazione. Ci dice che la corsa è già iniziata, siamo già in partita e probabilmente siamo già alla rincorsa, dobbiamo recuperare con l’astuzia, l’ingegno, la rapidità di pensiero e di azione per raggiungere un colpevole che già sta sfuggendo. Raggiungerlo, superarlo, fermarlo e consegnarlo alla giustizia. È una frase che in mezza riga ci precipita nel vivo di un’avventura che non ci lascerà più il fiato fino alla sua conclusione, spesso spettacolare, a volte imprevedibile e a volte grottesca, mai banale e scontata.

La frase, giustamente e inevitabilmente, non ce la risparmia neanche Luana Petrucci nella sua messa in scena, per il laboratorio teatrale ragazzi “Carpe Diem – Teatro e altre arti”, di una ennesima e inedita avventura (per gli appassionati, un “apocrifo”, e d’autore) del grande detective dilettante di Londra.

Sabato 18 e domenica 19 maggio, al teatro Grassi di Marino, abbiamo potuto seguire “Sherlock Holmes e il caso dell’ape tatuata”, un lavoro di Luana e dei suoi fenomenali ragazzi che ha riportato sul palcoscenico le gesta, i tic, le manie, le geniali intuizioni e la grande lotta al crimine del più grande investigatore della storia della letteratura.

Ne scrivo necessariamente una recensione di parte, non solo perché conosciamo Luana e i suoi ragazzi e li seguiamo ormai da anni sempre con maggiore piacere e soddisfazione, ma anche perché in questo caso la scrittrice e regista mi ha anche voluto coinvolgere fin dal concepimento del copione - approfittando della mia passione quasi patologica per l’opera di Conan Doyle - per consigli, indicazioni, suggestioni, e poi per la mia parallela passione fotografica, tanto da utilizzare proprio le mie foto (scattate a Londra al 221b di Baker Street, dove la fenomenale casa-museo di Sherlock materializza la fantasia letteraria in una realtà ormai indistinguibile dalla finzione; e alle cascate Reichenbach in Svizzera, teatro di uno dei più epici scontri della storia della letteratura poliziesca) per trovarvi atmosfere e indicazioni per la bellissima scenografia realizzata da Sara Botti e Sauro D'Annibali e illuminata e “sonorizzata” di volta in volta dall'oscuro ma preziosissimo lavoro di Franco Schettini e farle diventare scenografie esse stesse, proiettate sullo sfondo del palcoscenico a ricreare e richiamare gli ambienti nei quali si muovono i molti personaggi della storia. Un’emozione nell'emozione che ancora una volta Luana è riuscita a regalarmi.

Non sarò obiettivo quindi, ma anche a volerlo essere sarebbe impossibile non ammirare il lavoro appassionato e rispettosissimo di tutta la compagnia nel curare ogni minimo particolare della scena o del carattere dei personaggi, nel dare loro nuova linfa e caratteristiche originali senza mai tradire i  prototipi, nel districarsi in una trama complessa e contorta imponendo sempre agli spettatori la giusta attenzione, e mantenendo per tutta la durata un ritmo costantemente “andante mosso”, alternando con ammirevole equilibrio le risate, il dramma, l’azione, la riflessione, il grottesco e il tragico.

Per chi come il sottoscritto conosce a memoria tutto il “canone” holmesiano e anche diverse sue “derivazioni”, ritrovare ad ogni angolo citazioni (quella in testa all'articolo è solo una delle più celebri), reinterpretazioni originali dei suoi casi più famosi o dei suoi personaggi più celebri, reinvenzioni ad incastro di alcuni fra gli elementi estratti con arguzia dalle sue storiche avventure, è stato davvero un piacere continuo.

Occorre però, e con piacere, spendere qualche parola per i formidabili ragazzi che Luana mette sul palcoscenico ogni volta di fronte a prove sempre più ardite e che ogni volta le affrontano e le superano con uno spirito e una determinazione non da semplici allievi, ma da veri attori maturi e consapevoli.

Partiamo naturalmente da Sherlock, impersonato dal giovanissimo Matteo Cippitelli che ne riproduce brillantemente tutte le manie e le nevrosi. Imperdibili le sue espressioni di noia o di insofferenza quando qualcuno dice o fa delle cose che lui considera perdite di tempo (come disperarsi per la morte del proprio marito:-)). Francesco De Fabiani nei panni del fido dottor Watson contrappunta di continuo, a volte anche solo con una presenza apparentemente silenziosa (ma sempre spettacolarmente espressiva) l’ingombrante protagonismo del detective, regalandoci scenette di coppia a volte davvero esilaranti, come la lotta furibonda con la pistola dove uno tenta di sparare, e l’altro cerca di impedirglielo, alla noiosa e saccente esperta di api (Edith Cragwell), interpretata da una bravissima e giustamente inquietante Benedetta Bulgarini, lanciata in una prolissa spiegazione scientifica in stile SuperQuark (con puntuale colonna sonora sulla quarta corda).

Imponente, ironico e minaccioso al punto giusto, Gioele Testa incarna un azzeccato professor Moriarty, il nemico giurato di Sherlock, il “Napoleone del crimine”, dotandolo di un trasformismo e di una presenza scenica che restano impresse. Con lui, complici sotto svariate mentite spoglie, una scoppiettante Flavia Lepizzera (ormai una delle presenze più costanti e significative nella compagnia) che dà vita alla presunta moglie della prima vittima (Olivia West) per poi rivelarsi astuta e pericolosa antagonista del Nostro e poi finire infine vittima essa stessa del grande criminale, in alcune delle scene più drammatiche e al tempo stesso divertenti, e una brillante e luminosa Ludovica Gosti nei panni dell’ambivalente giornalista Kitty Riley, anche lei manovrata dal malvagio Professore.

Nel via vai rutilante di personaggi che ruotano intorno alla vicenda e invadono di continuo il mitico appartamento di Baker Street, l’impeccabile Sofia Porfiri, una perfetta signora Hudson, entra ed esce, spolvera e serve il tè, e soprattutto critica, commenta e bacchetta l’ingestibile detective come forse solo a lei, fin dai racconti originali di Conan Doyle, è permesso fare. E con lei partecipano al carosello Moira Ulisse alias Mary Morstan, una convincente futura signora Watson che cerca in ogni momento di riportare i due coinquilini agli aspetti più umani e quotidiani della vita e dei rapporti fra le persone; Sofia Patrignanelli che nei panni di Betty Lamotte materializza una seconda (stavolta autentica) fidanzata della vittima che contribuisce in modo determinante a rendere ancora più ingarbugliata la matassa da svolgere; Sofia Padoan che interpreta il medico legale Molly Hopper, delicata e gentile a dispetto della sua professione, determinante nell'analizzare i dettagli dei cadaveri e animata da un rapporto di amicizia e “quasi” affetto del tutto particolare con l’intrattabile Sherlock; Sarah Simeoni che nel ruolo di Sybil, enigmatico personaggio che sa e vede molte cose ma le dice sempre in modo obliquo tanto da necessitare sempre di interpretazione, apre la storia entrando in scena cantando “Scarborough fair” e regalando subito a tutta la storia la sua atmosfera ambigua e piena di ombre; e poi i tre simpaticissimi “irregolari di Baker Street”, Wiggins, Tom e Tam, rispettivamente Lisa Bertinaria, Pietro D’Annibali e Amira Degli Esposti, sguinzagliati per le vie di Londra a cercare indizi fra la spazzatura, personaggi degni delle migliori comiche britanniche (che infatti Luana fa muovere sulle note di una delle classiche melodie usate nei vecchi film di Chaplin, mostrando ancora una volta il suo sconfinato e giustificatissimo amore per il grande Charlie, altro nome illustre del nutrito elenco di geni inglesi del cinema e della letteratura). 

Una parola in più per la piccolissima Lisa, che nei panni di Wiggins prende su di se anche il compito di raccontare in appositi intermezzi i rimandi e i collegamenti principali con l’opera originale di Conan Doyle, dando vita a quegli aspetti didattici e di diffusione delle conoscenze a cui Luana non rinuncia mai in ogni suo lavoro.

Infine, una menzione quasi “d’onore” per due delle “veterane” del gruppo (e parlare di veterane per delle ragazze davvero giovanissime fa sempre un po’ sorridere) che ormai sono davvero una sola cosa con la loro autrice e regista e ne rappresentano spesso le complici più consapevoli e consolidate; Claudia Moroni, con la consueta e dominante presenza scenica, si cala nei panni del personaggio forse più originale, una Hannah Doyle (che omaggia col suo cognome il creatore di tutto questo universo), mai esistita nei romanzi ma che racchiude brillantemente in un unico carattere l’ufficialità di Scotland Yard e dei Servizi Segreti inglesi e l’ingombrante figura del fratello Mycroft (che è uno dei tanti colpi di genio di Conan Doyle), riproducendone l’invadenza, la superbia, l’intelligenza sottile, la visione ampia e diversificata della realtà, e il modo un po’ sprezzante di trattare Sherlock come fosse uno che gioca con problemi di poca importanza mentre questioni ben più cruciali urgono di essere affrontate; Gaia Piatti, che invece impersona una versione quasi onirica della mitica Irine Adler, di eleganza e ambiguità fatali, che ormai risiede stabilmente nei pensieri di Sherlock e quando si materializza in scena sembra ancora essere l’unica a riuscire a metterlo davvero in difficoltà, confondendolo inevitabilmente con un carico quasi insostenibile di fascino e di intelligenza emanati in egual misura.

Sherlock Holmes e il caso dell’ape tatuata - Carpe Diem – Teatro e altre arti
Non posso non concludere con alcune considerazioni che ritengo davvero importanti: il lavoro di Luana, continuo e incessante, mette in circolo e in comunicazione fra loro energie e conoscenze brillanti e mai banali. Per questo è un lavoro prezioso e vitale, e per questo va sempre sostenuto ogni volta che se ne ha la possibilità. In questo specifico caso, avendo seguito e in parte vissuto “real time” anche concezione e sviluppo di questo progetto non posso evitare di pensare a quanti e quali punti di partenza sparsi nel tempo e nel spazio (anche geograficamente molto distanti) si sono intrecciati e infine coagulati in ciò che abbiamo visto e vissuto in questo weekend di teatro. Per quanto mi riguarda ci sono cose che partono dalla lontana passione letteraria e dalla mia simbiosi fotografica con i luoghi che visitiamo io e Anna durante i nostri viaggi, c’è un viaggio a Londra, dove proprio Anna mi volle portare,  e un altro recentissimo in Svizzera proprio sulle tracce di Sherlock, ci sono confronti di opinioni e di immagini con Luana, e anche messaggi scambiati questa estate durante le riletture dei testi di Doyle, c’è il suo modo di guardare le mie foto e di trarne ispirazioni e soluzioni per le sue creazioni, e poi copioni in bozza su cui scambiare opinioni, e ci sono molte altre cose ancor meno tangibili ma assolutamente necessarie a far circolare le idee, a contaminarsi di continuo perché dall'unione, a volte anche dalla confusione, di tutti questi elementi sparsi possa poi coagularsi qualcosa di nuovo e di assolutamente originale, qualcosa che finisce per arricchire tutti quelli che ne vengono a contatto.

Arricchiti e consapevoli che, appena finito un gioco, ce n’è già un altro pronto a cominciare.

E allora andiamo, Watson!


Altre foto dell'evento qui


domenica 14 aprile 2019

Vendere casa al tempo di Amazon

Quando abbiamo cominciato a pensare alla vendita della nostra casa di famiglia mi sono resa contro fin da subito che era forse necessario per la mia salute mentale fare un piano;-).

L’acquisto o la vendita di una casa è un processo lungo  e complesso, che richiede montagne di scartoffie, valutazioni attente, il coinvolgimento di professionisti, comunicazione puntuale, accurata gestione delle visite e potrei continuare... 

La compravendita di una casa necessita soprattutto di spendere in maniera proficua il poco tempo che normalmente ognuno può dedicare all'incontro tra domanda e offerta (un mio amico prima di comprare casa ne ha visitate una sessantina) così mi sono detta che operando con assoluta trasparenzaeliminando qualche passaggio e semplificando per quanto possibile questa fase del processo c’era forse speranza di uscirne quantomeno indenne;-) per cui:

1. Le principali informazioni relative all'immobile sono sintetizzate in questa pagina.
2. L'agenzia di zona può fornire tutta la documentazione necessaria, rispondere a richieste di approfondimento sulle caratteristiche della proprietà o fissare un appuntamento per un sopralluogo.

Avvertenza: è una grande casa di campagna indipendente con giardino e terreni, se nella vita preferite fare altro che guidare un trattorino o instagrammare conserve bio fermatevi pure qui:-).

Dove si trova
Ubicazione immobile via Mezzano Sora (FR)



L’immobile si trova nel comune di Sora, a 5 minuti in auto dal Centro Commerciale “La Selva” e poco distante dall'ingresso della superstrada Sora – Frosinone. 

Si tratta di una grande casa indipendente sviluppata su tre livelli con annesso giardino circostante, ampio spazio esternoterreno agricolo in parte adibito a uliveto per altri 6000 mq perfettamente organizzati.

L’immobile, a cui si accede con un comodo viale d’ingresso, è stato progettato per ricavarne due appartamenti autonomi e trasformarlo facilmente in villa bi-famigliare. 

Viale d'accesso



Stato dell'immobile
Immobile via Mezzano 30B Sora FR
Una delle due unità è ristrutturata e abitabile da subito, la seconda è in corso di costruzione.

L’appartamento al primo piano è costituito da: ingresso, corridoio, cucina, ampio salone, tre grandi camere da letto, servizi, balconi. 

L’appartamento al secondo piano ha pianta simile ma si presta ad accogliere le diverse esigenze dei futuri proprietari. 

Al piano terra altre tre stanze, oltre al garage e cantina, possono essere adibite agli usi che si desidera.

Uliveto

Giardino

Servizi, luoghi di interesse, potenzialità
Immersa nel verde e nel silenzio, la posizione ne garantisce un ottimo equilibrio tra desiderio di tranquillità e accesso ai principali servizi: in 5/10 minuti si raggiungono negozi, ristoranti, pub, pizzerie, cinema, farmacie, servizi pubblici (ospedali, cliniche, ASL, …) e luoghi di svago: il lago di Posta Fibreno con la sua isola galleggiante naturale, la cascata di Isola del Liri, la Certosa di Trisulti, l’ Acropoli di Arpino, l’Abbazia di Casamari, l'Abbazia di Montecassino, il Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise. 

Informazioni
Master casa Studio Immobiliare

Foto

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martedì 12 marzo 2019

Otto marzo 2019

Edoardo De Angelis - Auditorium Parco della Musica
Edoardo De Angelis - Foto di Vittorio Santi
C’è questo signore garbato, Edoardo De Angelis, sul palco della Sala Petrassi dell’Auditorium Parco della Musica di Roma. 

Alle sue spalle un bellissimo pianoforte a coda, su un lato un dipinto del maestro Natino Chirico: Roma, città aperta.

È l’otto marzoSi parla e si canta di donne e per le donne.



Insieme a Edoardo si alternano sul palco Fabrizio EmigliFrancesco Anselmo, Alberto Laruccia, Davide MottolaCarlo Valente e David William Caruso (Vinile).

Ho avuto la ventura di conoscere Edoardo De Angelis in occasione di una serie di eventi al Maxxi la scorsa primavera e da quel momento cerco di seguire le briciole di pane che generosamente lascia per quelli che come me si avvicinano timidamente a questo mondo di tradizioni, riferimenti, esercizio, cultura (o controcultura:-))... È un mondo che parte da quei “vinili” ascoltati dieci, cento, mille volte da adolescenti imberbi in stanzette chiuse a chiave o forse da più lontano ancora: quelli bravi lo definiscono cantautorato

Io sono arrivata più tardi, quando le stanze degli adolescenti erano ormai tappezzate di poster dei Duran Duran e le canzoni si ascoltavano con il walkman, dunque per me Edoardo De Angelis e le sue briciole di pane sono soprattutto occasione per raccogliere piccoli frammenti, corpuscoli che si incastrano nei pertugi e sedimentano strati di consapevolezza.

C’è tuttavia un altro aspetto che mi colpisce e su cui penso valga la pena riflettere: il famigerato networking che sembra nato appena ieri con Internet e con cui di questi tempi si riempiono gli scaffali delle librerie. 

Edoardo De Angelis è un modello ante litteram di quello di cui si predica un po’ ovunque, in qualunque professione, in qualunque contesto: la necessità di fare rete e creare relazioni durature perché quello che ci insegna con l’esempio di tutta una vita questo signore che intona su un palco “Anna è un nome bellissimo” è proprio la generosità, l’intuito, la passione, l’orgoglio di saper riconoscere il talento e il coraggio di esserne mentore, senza chiedere in cambio nient’altro che parole, musica e colori.

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domenica 27 gennaio 2019

Il cinema a volo d’uccello

di Alessandro Borgogno

C’è un cinema che è nato, è stato pensato e realizzato per essere visto su un grande schermo, in una sala buia, fermi al proprio posto e senza distrazioni. 

È tutto il cinema nato e cresciuto prima del sonoro e poi proseguito fino all'avvento delle tecnologie che ne hanno permesso la visione anche con altri strumenti, in altri contesti e con altri ritmi (la televisione prima, poi le videocassette, i dvd, i blue-ray e ora qualunque supporto digitale online, in streaming, on demand, con visioni racchiuse in schermi sempre più piccoli, casalinghi, minimi e ridotti fino a quello di uno smartphone). 

Quel cinema non siamo più abituati a viverlo, perché quando andiamo a vedere un film appena uscito in una sala, si tratta di una pellicola ormai realizzata con le tecnologie di oggi e pensata sapendo che la sua fruizione si moltiplicherà su cento altri supporti. A nessuno più viene in mente di fare una inquadratura come le panoramiche di Sergio Leone con un personaggio piccolissimo in un punto laterale della scena, perché su uno schermo non abbastanza grande si rischierebbe di non vederlo neanche.

Alfred Hitchcocks - The Birds
Alfred Hitchcocks - The Birds
A questo cinema appartengono tutti i film di Sir Alfred Hitchcock, maestro indiscusso della settima arte, regista monumentale che non solo ha realizzato decine di capolavori, ma che del cinema moderno ha codificato, dettato e reso plasticamente evidenti le regole fondamentali, la grammatica e la sintassi, il senso stesso della visione e del suo significato.

Era quindi imperdibile l’occasione di vedere sul grande schermo, ridistribuito eccezionalmente a seguito del restauro audio e video delle copie originali (dal progetto “Il Cinema ritrovato” portato avanti dalla Cineteca di Bologna, visto a Roma al “Nuovo Sacher” di Nanni Moretti il 21 Gennaio 2019) il suo più colossale incubo visionario, raggiungimento delle più alte vette del suo cinema sia per il livello di suspense, sia per la spettacolarità delle scene, sia per la penetrazione psicologica dei personaggi.

Parliamo ovviamente de “Gli Uccelli”, pazzesca impresa creativa e produttiva datata 1963, vero testamento artistico di uno dei più audaci e consapevoli geni della storia della narrazione cinematografica.

Difficile parlare ancora di un film sul quale è già stato detto quasi tutto e del quale anche qui si è già parlato, ma la visione in sala, inchiodati alla sedia con lo schermo enorme di fronte e i suoni che circondano lo spettatore fino allo sfinimento, lo rende un film nuovo di zecca, come una prima visione, anche a chi lo conosce a memoria per averlo visto e perfino studiato decine di volte (ebbene sì, io sono uno di quelli).


Tippi Hedren - Gli Uccelli
Tippi Hedren
La prima menzione va obbligatoriamente a Tippi Hedren, e a come il maestro la riprende. Vista sullo schermo, enorme, la sua eleganza si moltiplica. Anche inquadrata da lontano non perdi mai un dettaglio delle sue movenze e delle sue espressioni. In una delle prime scene compone un numero di telefono usando una matita per girare il disco dell’apparecchio (telefono anni ’60, naturalmente) ed è di una sensualità quasi imbarazzante.

E poi l’audio originale (con sottotitoli, ma per chi conosce il film a memoria perfino inutili) ci fa finalmente ascoltare la sua voce. Limpida, intensa e armonica. E del resto tutti gli attori, per tutto il film, parlano un inglese pulito e comprensibilissimo. In barba alla verosimiglianza, anche l’ubriacone del bar si esprime in modo corretto e scandisce le parole perfino con una sua eleganza. Eppure nulla suona falso. Altri tempi, ma per nulla invecchiati.

La lingua originale ci permette inoltre di cogliere anche molte finezze che inevitabilmente nel doppiaggio si perdono, una delle più famose (ne discutono anche Hitch e Truffaut nella famosa intervista) riguarda gli uccellini in gabbia che attraversano tutta la storia, continuamente richiamati dai protagonisti col loro nome che in italiano sarebbe “Inseparabili” e tradotto (anche giustamente visto che il nome italiano avrebbe poco senso) semplicemente in “pappagallini”, ma che in inglese si chiamano molto più significativamente “Love birds”. E questo nome che diventa quasi un suono, “love birds”, risuona per tutto il film a fare da contrappunto anche sonoro sia utilizzato come doppio senso (a simboleggiare l’amore nascente o mancato fra i diversi personaggi) che come contrasto quasi sarcastico (tutti parlano continuamente di “uccelli d’amore” mentre tutto intorno altri uccelli scatenano tutto il loro odio). E tralasciamo anche le allusioni sessuali che sarebbero fin troppo facili.

Poi, già che si parla del suono, la colonna sonora. La visione al cinema amplifica e rende strabiliante una delle caratteristiche spesso dimenticate ma più clamorose del film: è totalmente privo di musica. Quasi portandoci a un realismo fuori dai canoni Hollywoodiani (non di oggi, ma di sempre) non c’è un solo momento del film che sia sottolineato da una qualsiasi melodia fuori campo. I suoni sono solo quelli delle scene che si susseguono, l’ambiente, le voci dei protagonisti, i rumori della cittadina e della natura, naturalmente le grida degli uccelli. Ma, come si sa, ciò non significa che il film non abbia una partitura, anzi ce l’ha proprio, dal primo all'ultimo secondo. Non a caso Bernard Hermann, storico compositore dei film del maestro, lavora anche qui come supervisore di altri due musicisti, Matthew Ross e Oskar Sala, perché tutta la colonna sonora e tutti i suoni sono progettati e applicati al film esattamente come le melodie di una sinfonia. Anche i silenzi (che infatti non sono mai semplice assenza di suono ma ronzii, deboli rumori, versi lontani) seguono uno spartito, hanno i loro momenti di adagio, di svelto, i loro crescendo, le loro pause. Un lavoro parallelo immenso e totalmente originale, che in sala si coglie in tutta la sua efficacia espressiva e narrativa.

The Birds storyboard
The Birds storyboard
Ancora, la maestria di Hitchcock (da ultimo grande maestro fra quelli nati col cinema muto, come amava ricordare Truffaut) si coglie appieno per tutta la prima parte del film laddove a fronte di pochi dialoghi molto densi ma anche spesso di circostanza, tutti i personaggi vengono presentati e analizzati nella loro più intima psicologia solo attraverso gli sguardi, i rapporti fra loro, i movimenti, il modo di inquadrarli, lo stato d’animo che la camera ci rivela costantemente, ancor più nei momenti in cui le loro parole dicono altro (un gioco in cui Sir Alfred aveva padronanza assoluta). Questo aspetto, forse ancor più delle grandi scene spettacolari, è uno di quelli che più ci guadagna nella visione al cinema. Uno sguardo obliquo, un lieve cambio di espressione che dura magari pochi fotogrammi, nella visione domestica e televisiva sono spesso destinati a perdersi (una distrazione, una telefonata, un oggetto della nostra stanza, un rumore fuori dalla finestra, lo spettatore che si alza un attimo per andare in bagno o per prendere qualcosa in frigo). Nella sala buia, inchiodati alla poltroncina, c’è solo il grande schermo. Nessun dettaglio si perde, e spesso sono dettagli sublimi.

Per gli stessi motivi anche momenti molto famosi e dei quali (quantomeno gli “esperti” o i fissati) conoscono ogni fotogramma, si rivelano amplificati e finalmente in tutta la loro genialità ed efficacia. Giusto per citarne uno, la scena in cui la madre di Mitch (una superba Jessica Tandy) arriva col pick-up alla fattoria di un suo vicino. Entra, vede le tazze rotte in cucina (associazione visiva diretta e folgorante con poche scene prima quando Hitch ci aveva mostrato, sempre mentre i dialoghi dicevano altro, il suo progressivo crollo psicologico nel raccogliere proprio i cocci delle tazzine nel salotto dopo l’invasione di uno stormo di passeri), scopre il proprietario ucciso in modo orribile dagli uccelli, fugge di corsa (tentando di urlare ma senza che le esca alcun suono dalla bocca, altra soluzione geniale e raggelante) risale sul furgoncino e corre via. 

Si sa, perché lo stesso Hitch lo racconta, che per questa scena fece bagnare la strada per l’arrivo del furgoncino in modo che arrivasse senza sollevare polvere. Questo gli ha permesso di riprendere la scena della fuga con la stessa inquadratura (da lontano) ma facendo sì che invece al momento di lasciare la fattoria il pick-up sollevasse grandi turbini polverosi dietro di sé. Con un transfert semplice, diretto e non equivocabile, anziché farci vedere un personaggio che arriva tranquillo e poi fugge in preda al panico, ci fa vedere un camioncino che arriva tranquillo e poi fugge agitato. Conoscevo questa scena a memoria (potrei disegnarla), ma vista sul grande schermo è davvero magnifica.

Nulla, ma proprio nulla, in più di due ore di film, è lasciato al caso, e ogni riferimento concettuale, visivo e anche simbolico nella visione in sala (che, non ci stanchiamo mai di ripeterlo, riporta il film nelle condizioni per cui era stato concepito e realizzato) risalta in modo inequivocabile: il tema dell’abbandono (Melanie abbandonata da piccola dalla madre, la madre di Mitch che ha il terrore di essere abbandonata dal figlio, la maestra a sua volta abbandonata da Mitch ma che non riesce a starne lontano); il percorso cristologico della protagonista da ricca sofisticata e viziata (“torna nella tua gabbia dorata, Melanie Daniels!” dice Mitch nella prima scena) al totale ribaltamento della sua condizione (lei finisce davvero in gabbia, nella cabina telefonica, circondata da uccelli che la attaccano) fino al martirio della scena finale; il celeberrimo tema della Visione (gli uccelli cavano gli occhi alle vittime, ogni scena si chiude con un personaggio che guarda “fuori”) del quale si coglie un dettaglio ancora più sottile grazie alla lingua originale, giacché i protagonisti dicono continuamente, e allusivamente, “capisco…”, che però in inglese è “I see”, e in questo modo con uno dei tanti doppi sensi che amava tanto il maestro londinese non fanno che ripetere “Io vedo”; l’incomunicabilità (i personaggi fra loro faticano a comprendersi per gran parte del film trovando forse i primi punti di contatto proprio al progredire dell’apocalisse, e in una delle tante scene madri gli avventori del ristorante non riescono ad avvisare l’uomo nel parcheggio del pericolo che sta correndo accendendosi un sigaro mentre scorre benzina sul piazzale); la frantumazione (dei rapporti, dell’equilibrio psicofisico delle persone, dei vetri, delle tazzine, perfino dei titoli di testa che si spezzettano al passaggio degli uccelli); e così via, si potrebbe proseguire per ore, ma tanto per non tralasciare uno dei temi di schiacciante attualità del film, il terribile momento in cui il terrore che attanaglia gli abitanti fuoriesce alla ricerca di un nemico e alfine identificandolo facilmente nello “straniero”, quando al ristorante la signora con i figlioletti terrorizzati esplode in una scena isterica accusando Melanie di tutto il male che li sta colpendo: “è colpa tua! È iniziato tutto da quando sei venuta tu! Tu non sei una di noi! Tu sei il male!”. E non c’è bisogno di dire altro.

Potter School - Bodega
Potter School - Bodega
Impossibile tuttavia non citare la scena della scuola, non fosse altro perché ne abbiamo anche già parlato più volte visto il “pellegrinaggio” sui luoghi del film.

Scena suntuosa che al cinema esplode in tutta la sua furia sinfonica: Overture, con Melanie che arriva alla scuola e poi si siede ad aspettare fuori vicino ai giochi dei bimbi; Adagio, con i primi piani di Melanie che fuma (alla faccia dell’attuale politically correct, come si potrebbe immaginare questa scena senza la sigaretta di Tippi?), la cantilena dei bambini che arriva attutita dalla classe, i corvi che iniziano a radunarsi dietro di lei; Crescendo, con la suspense tipica del maestro che si esprime con la progressione irregolare di un corvo, tre corvi, cinque corvi, dieci corvi e poi… ; Colpo di piatti (citazione per citazione) improvvisamente cento corvi!; Sospensione (suspense); Melanie entra a scuola, avvisa la maestra, la classe si prepara a uscire per scappare, i corvi sono fermi in silenzio; Presto, si sentono i passi dei bambini che iniziano a correre, i corvi si alzano improvvisamente tutti insieme e quel punto la sinfonia esplode con tutti gli strumenti in campo: la corsa dei bambini, l’attacco dei corvi, le urla, le grida degli uccelli, la violenza, il dettaglio degli occhiali rotti di una bimba sull'asfalto (dettaglio Ėjzenštejniano, e nuovo richiamo al tema della “visione”). 

Un incubo orchestrato alla perfezione. 

Non si finirebbe più ma almeno un’altra scena merita una menzione speciale, perché vissuta (non vista, vissuta) in sala raggiunge dei livelli quasi insostenibili. 

L’ultimo attacco alla casa, mentre i protagonisti sono tutti dentro (di nuovo in gabbia) barricati per resistere. L’attacco è totalmente sonoro, decisamente ispirato agli attacchi aerei della seconda guerra mondiale, ma la messa in scena e i suoni al cinema sono un attacco deliberato e prolungato ai sensi (e ai nervi) dello spettatore. Ma non bastasse questo, la camera inquadra le vittime con una precisione entomologica mentre si muovono alla ricerca di un riparo da una minaccia che non si vede. Per fare questo Hitch li riprende sempre con molto spazio davanti a loro (e sullo schermo lo spazio vuoto diventa enorme), per non farci mai dimenticare che stanno cercando di nascondersi da qualcosa che non c’è, e in questo modo ci mostra come non abbiano alcuna possibilità di mettersi in salvo. Non ci si nasconde da un suono, in qualunque angolo si tenti di accucciarsi. I loro movimenti sono senza senso, e il regista ce lo mostra senza alcuna pietà. Quella scena, inchiodati sulle poltrone del cinema (eguagliata in identificazione e disagio dello spettatore solo dalla scena madre de “la finestra sul cortile”) raggiunge livelli di partecipazione allucinanti. Si trema anche se la si conosce a memoria, salgono i brividi anche se sai già come andrà a finire, vorresti scappare ma non puoi, esattamente come loro.


La baia di Bodega Bay
La baia di Bodega Bay
Ultima nota doverosa per lo straordinario direttore della fotografia, Robert Burks
Fedele complice dei deliri visivi del genio londinese, lo ha seguito e assecondato con la sua maestria fin dal 1951 (con “L’altro uomo – Strangers on a train”) firmando un elenco di titoli che fa impressione: “Il delitto perfetto” (1954), “La finestra sul cortile” (1954), “L’uomo che sapeva troppo” (1956), “Il ladro” (1956), “La donna che visse due volte” (1958), “Intrigo internazionale” (1959), “Gli uccelli” (1963), “Marnie” (1964).  Per quei film, e per le esigenze di un regista come Hitchcock che ad ogni girato inventava cose nuove, occorreva continuamente trovare delle soluzioni per illuminare scene in teatro di posa che poi venivano montate con sfondi o altri trucchi per diventare scene all'aperto.

Virtuoso di posizionamento e diffusione delle luci, ricreare in modo artificiale la luce naturale del giorno era uno dei suoi “passatempi” preferiti. Se si guarda con occhio attento molte di quelle scene, ci si accorge (e non sempre) di quante siano le situazioni in cui si passa da una luce artificiale ad una naturale senza che quasi se ne abbia percezione o in quanti casi nella stessa immagine siano combinate insieme parti di diverse inquadrature riprese in condizioni completamente differenti (solo “Intrigo internazionale” è un luna park di piccoli trucchi ed effetti che per la gran parte sfuggono all'occhio proprio grazie alla capacità di Burks di uniformare la luce). 

Ma naturalmente è qui, nella follia de “Gli uccelli”, che raggiunge la sua vetta, e la visione in technicolor sullo schermo ce ne dà tutta la grandezza. “Gli uccelli” è un film pazzesco realizzato in un momento storico in cui era sostanzialmente impossibile realizzarlo. Un’impresa sbalorditiva sotto tutti i punti di vista (espressivo, tecnico, narrativo) che solo un regista come Hitchcock poteva intraprendere e solo un autore fotografico di pari genio e competenza poteva seguire assecondandolo e trovando ogni volta le soluzioni più adatte. Ogni trucco, ogni trovata fotografica e cinematografica utilizzata per quel film è stata inventata in quella occasione, per la prima volta (perfino l’utilizzo di cartoni animati sovrapposti a riprese reali, grazie alla consulenza di un altro grande, Ub Iwerks, genio dell’animazione proveniente direttamente dagli studi Disney). Elencarle tutte sarebbe impossibile, anche se non si può non citare la ripresa dall’alto di Bodega Bay mentre divampa l’incendio con i gabbiani che compaiono riempiendo piano piano lo schermo. È più di una ripresa “a volo d’uccello”. È, per la prima volta, “il punto di vista degli uccelli”.

La scena finale
La scena finale
E naturalmente a chiudere una “visione” così totalizzante da riempire la sala, esplode in tutta la sua magnificenza l’ultima inquadratura del film (un quadro che da solo potrebbe essere analizzato per la luce e per la composizione spendendoci settimane di discussione, e la cui importanza è già abbastanza evidenziata dalla scelta di Hitch di non far comparire neanche la scritta “The End” al termine del film, altra novità assoluta per l’epoca): un quadro vivente composto montando insieme decine di inquadrature diverseMai come sul grande schermo risulta evidente la celebre definizione dei critici Bruzzone e Caprara: “La magnifica atmosfera impressionista della scena finale cos'altro è se non l’incubo del Giudizio Universale tradotto in luce?

Lo so, siamo di parte ed esageriamo, volontariamente e coscientemente, perché siamo convinti che sia giusto farlo: la visione de “Gli Uccelli” di Alfred Hitchcock al cinema, sul grande schermo nella sala buia, è qualcosa di più della semplice visione di un grande film. È un’esperienza fuori dal comune.

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