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domenica 27 gennaio 2019

Il cinema a volo d’uccello

di Alessandro Borgogno

C’è un cinema che è nato, è stato pensato e realizzato per essere visto su un grande schermo, in una sala buia, fermi al proprio posto e senza distrazioni. 

È tutto il cinema nato e cresciuto prima del sonoro e poi proseguito fino all'avvento delle tecnologie che ne hanno permesso la visione anche con altri strumenti, in altri contesti e con altri ritmi (la televisione prima, poi le videocassette, i dvd, i blue-ray e ora qualunque supporto digitale online, in streaming, on demand, con visioni racchiuse in schermi sempre più piccoli, casalinghi, minimi e ridotti fino a quello di uno smartphone). 

Quel cinema non siamo più abituati a viverlo, perché quando andiamo a vedere un film appena uscito in una sala, si tratta di una pellicola ormai realizzata con le tecnologie di oggi e pensata sapendo che la sua fruizione si moltiplicherà su cento altri supporti. A nessuno più viene in mente di fare una inquadratura come le panoramiche di Sergio Leone con un personaggio piccolissimo in un punto laterale della scena, perché su uno schermo non abbastanza grande si rischierebbe di non vederlo neanche.

Alfred Hitchcocks - The Birds
Alfred Hitchcocks - The Birds
A questo cinema appartengono tutti i film di Sir Alfred Hitchcock, maestro indiscusso della settima arte, regista monumentale che non solo ha realizzato decine di capolavori, ma che del cinema moderno ha codificato, dettato e reso plasticamente evidenti le regole fondamentali, la grammatica e la sintassi, il senso stesso della visione e del suo significato.

Era quindi imperdibile l’occasione di vedere sul grande schermo, ridistribuito eccezionalmente a seguito del restauro audio e video delle copie originali (dal progetto “Il Cinema ritrovato” portato avanti dalla Cineteca di Bologna, visto a Roma al “Nuovo Sacher” di Nanni Moretti il 21 Gennaio 2019) il suo più colossale incubo visionario, raggiungimento delle più alte vette del suo cinema sia per il livello di suspense, sia per la spettacolarità delle scene, sia per la penetrazione psicologica dei personaggi.

Parliamo ovviamente de “Gli Uccelli”, pazzesca impresa creativa e produttiva datata 1963, vero testamento artistico di uno dei più audaci e consapevoli geni della storia della narrazione cinematografica.

Difficile parlare ancora di un film sul quale è già stato detto quasi tutto e del quale anche qui si è già parlato, ma la visione in sala, inchiodati alla sedia con lo schermo enorme di fronte e i suoni che circondano lo spettatore fino allo sfinimento, lo rende un film nuovo di zecca, come una prima visione, anche a chi lo conosce a memoria per averlo visto e perfino studiato decine di volte (ebbene sì, io sono uno di quelli).


Tippi Hedren - Gli Uccelli
Tippi Hedren
La prima menzione va obbligatoriamente a Tippi Hedren, e a come il maestro la riprende. Vista sullo schermo, enorme, la sua eleganza si moltiplica. Anche inquadrata da lontano non perdi mai un dettaglio delle sue movenze e delle sue espressioni. In una delle prime scene compone un numero di telefono usando una matita per girare il disco dell’apparecchio (telefono anni ’60, naturalmente) ed è di una sensualità quasi imbarazzante.

E poi l’audio originale (con sottotitoli, ma per chi conosce il film a memoria perfino inutili) ci fa finalmente ascoltare la sua voce. Limpida, intensa e armonica. E del resto tutti gli attori, per tutto il film, parlano un inglese pulito e comprensibilissimo. In barba alla verosimiglianza, anche l’ubriacone del bar si esprime in modo corretto e scandisce le parole perfino con una sua eleganza. Eppure nulla suona falso. Altri tempi, ma per nulla invecchiati.

La lingua originale ci permette inoltre di cogliere anche molte finezze che inevitabilmente nel doppiaggio si perdono, una delle più famose (ne discutono anche Hitch e Truffaut nella famosa intervista) riguarda gli uccellini in gabbia che attraversano tutta la storia, continuamente richiamati dai protagonisti col loro nome che in italiano sarebbe “Inseparabili” e tradotto (anche giustamente visto che il nome italiano avrebbe poco senso) semplicemente in “pappagallini”, ma che in inglese si chiamano molto più significativamente “Love birds”. E questo nome che diventa quasi un suono, “love birds”, risuona per tutto il film a fare da contrappunto anche sonoro sia utilizzato come doppio senso (a simboleggiare l’amore nascente o mancato fra i diversi personaggi) che come contrasto quasi sarcastico (tutti parlano continuamente di “uccelli d’amore” mentre tutto intorno altri uccelli scatenano tutto il loro odio). E tralasciamo anche le allusioni sessuali che sarebbero fin troppo facili.

Poi, già che si parla del suono, la colonna sonora. La visione al cinema amplifica e rende strabiliante una delle caratteristiche spesso dimenticate ma più clamorose del film: è totalmente privo di musica. Quasi portandoci a un realismo fuori dai canoni Hollywoodiani (non di oggi, ma di sempre) non c’è un solo momento del film che sia sottolineato da una qualsiasi melodia fuori campo. I suoni sono solo quelli delle scene che si susseguono, l’ambiente, le voci dei protagonisti, i rumori della cittadina e della natura, naturalmente le grida degli uccelli. Ma, come si sa, ciò non significa che il film non abbia una partitura, anzi ce l’ha proprio, dal primo all'ultimo secondo. Non a caso Bernard Hermann, storico compositore dei film del maestro, lavora anche qui come supervisore di altri due musicisti, Matthew Ross e Oskar Sala, perché tutta la colonna sonora e tutti i suoni sono progettati e applicati al film esattamente come le melodie di una sinfonia. Anche i silenzi (che infatti non sono mai semplice assenza di suono ma ronzii, deboli rumori, versi lontani) seguono uno spartito, hanno i loro momenti di adagio, di svelto, i loro crescendo, le loro pause. Un lavoro parallelo immenso e totalmente originale, che in sala si coglie in tutta la sua efficacia espressiva e narrativa.

The Birds storyboard
The Birds storyboard
Ancora, la maestria di Hitchcock (da ultimo grande maestro fra quelli nati col cinema muto, come amava ricordare Truffaut) si coglie appieno per tutta la prima parte del film laddove a fronte di pochi dialoghi molto densi ma anche spesso di circostanza, tutti i personaggi vengono presentati e analizzati nella loro più intima psicologia solo attraverso gli sguardi, i rapporti fra loro, i movimenti, il modo di inquadrarli, lo stato d’animo che la camera ci rivela costantemente, ancor più nei momenti in cui le loro parole dicono altro (un gioco in cui Sir Alfred aveva padronanza assoluta). Questo aspetto, forse ancor più delle grandi scene spettacolari, è uno di quelli che più ci guadagna nella visione al cinema. Uno sguardo obliquo, un lieve cambio di espressione che dura magari pochi fotogrammi, nella visione domestica e televisiva sono spesso destinati a perdersi (una distrazione, una telefonata, un oggetto della nostra stanza, un rumore fuori dalla finestra, lo spettatore che si alza un attimo per andare in bagno o per prendere qualcosa in frigo). Nella sala buia, inchiodati alla poltroncina, c’è solo il grande schermo. Nessun dettaglio si perde, e spesso sono dettagli sublimi.

Per gli stessi motivi anche momenti molto famosi e dei quali (quantomeno gli “esperti” o i fissati) conoscono ogni fotogramma, si rivelano amplificati e finalmente in tutta la loro genialità ed efficacia. Giusto per citarne uno, la scena in cui la madre di Mitch (una superba Jessica Tandy) arriva col pick-up alla fattoria di un suo vicino. Entra, vede le tazze rotte in cucina (associazione visiva diretta e folgorante con poche scene prima quando Hitch ci aveva mostrato, sempre mentre i dialoghi dicevano altro, il suo progressivo crollo psicologico nel raccogliere proprio i cocci delle tazzine nel salotto dopo l’invasione di uno stormo di passeri), scopre il proprietario ucciso in modo orribile dagli uccelli, fugge di corsa (tentando di urlare ma senza che le esca alcun suono dalla bocca, altra soluzione geniale e raggelante) risale sul furgoncino e corre via. 

Si sa, perché lo stesso Hitch lo racconta, che per questa scena fece bagnare la strada per l’arrivo del furgoncino in modo che arrivasse senza sollevare polvere. Questo gli ha permesso di riprendere la scena della fuga con la stessa inquadratura (da lontano) ma facendo sì che invece al momento di lasciare la fattoria il pick-up sollevasse grandi turbini polverosi dietro di sé. Con un transfert semplice, diretto e non equivocabile, anziché farci vedere un personaggio che arriva tranquillo e poi fugge in preda al panico, ci fa vedere un camioncino che arriva tranquillo e poi fugge agitato. Conoscevo questa scena a memoria (potrei disegnarla), ma vista sul grande schermo è davvero magnifica.

Nulla, ma proprio nulla, in più di due ore di film, è lasciato al caso, e ogni riferimento concettuale, visivo e anche simbolico nella visione in sala (che, non ci stanchiamo mai di ripeterlo, riporta il film nelle condizioni per cui era stato concepito e realizzato) risalta in modo inequivocabile: il tema dell’abbandono (Melanie abbandonata da piccola dalla madre, la madre di Mitch che ha il terrore di essere abbandonata dal figlio, la maestra a sua volta abbandonata da Mitch ma che non riesce a starne lontano); il percorso cristologico della protagonista da ricca sofisticata e viziata (“torna nella tua gabbia dorata, Melanie Daniels!” dice Mitch nella prima scena) al totale ribaltamento della sua condizione (lei finisce davvero in gabbia, nella cabina telefonica, circondata da uccelli che la attaccano) fino al martirio della scena finale; il celeberrimo tema della Visione (gli uccelli cavano gli occhi alle vittime, ogni scena si chiude con un personaggio che guarda “fuori”) del quale si coglie un dettaglio ancora più sottile grazie alla lingua originale, giacché i protagonisti dicono continuamente, e allusivamente, “capisco…”, che però in inglese è “I see”, e in questo modo con uno dei tanti doppi sensi che amava tanto il maestro londinese non fanno che ripetere “Io vedo”; l’incomunicabilità (i personaggi fra loro faticano a comprendersi per gran parte del film trovando forse i primi punti di contatto proprio al progredire dell’apocalisse, e in una delle tante scene madri gli avventori del ristorante non riescono ad avvisare l’uomo nel parcheggio del pericolo che sta correndo accendendosi un sigaro mentre scorre benzina sul piazzale); la frantumazione (dei rapporti, dell’equilibrio psicofisico delle persone, dei vetri, delle tazzine, perfino dei titoli di testa che si spezzettano al passaggio degli uccelli); e così via, si potrebbe proseguire per ore, ma tanto per non tralasciare uno dei temi di schiacciante attualità del film, il terribile momento in cui il terrore che attanaglia gli abitanti fuoriesce alla ricerca di un nemico e alfine identificandolo facilmente nello “straniero”, quando al ristorante la signora con i figlioletti terrorizzati esplode in una scena isterica accusando Melanie di tutto il male che li sta colpendo: “è colpa tua! È iniziato tutto da quando sei venuta tu! Tu non sei una di noi! Tu sei il male!”. E non c’è bisogno di dire altro.

Potter School - Bodega
Potter School - Bodega
Impossibile tuttavia non citare la scena della scuola, non fosse altro perché ne abbiamo anche già parlato più volte visto il “pellegrinaggio” sui luoghi del film.

Scena suntuosa che al cinema esplode in tutta la sua furia sinfonica: Overture, con Melanie che arriva alla scuola e poi si siede ad aspettare fuori vicino ai giochi dei bimbi; Adagio, con i primi piani di Melanie che fuma (alla faccia dell’attuale politically correct, come si potrebbe immaginare questa scena senza la sigaretta di Tippi?), la cantilena dei bambini che arriva attutita dalla classe, i corvi che iniziano a radunarsi dietro di lei; Crescendo, con la suspense tipica del maestro che si esprime con la progressione irregolare di un corvo, tre corvi, cinque corvi, dieci corvi e poi… ; Colpo di piatti (citazione per citazione) improvvisamente cento corvi!; Sospensione (suspense); Melanie entra a scuola, avvisa la maestra, la classe si prepara a uscire per scappare, i corvi sono fermi in silenzio; Presto, si sentono i passi dei bambini che iniziano a correre, i corvi si alzano improvvisamente tutti insieme e quel punto la sinfonia esplode con tutti gli strumenti in campo: la corsa dei bambini, l’attacco dei corvi, le urla, le grida degli uccelli, la violenza, il dettaglio degli occhiali rotti di una bimba sull'asfalto (dettaglio Ėjzenštejniano, e nuovo richiamo al tema della “visione”). 

Un incubo orchestrato alla perfezione. 

Non si finirebbe più ma almeno un’altra scena merita una menzione speciale, perché vissuta (non vista, vissuta) in sala raggiunge dei livelli quasi insostenibili. 

L’ultimo attacco alla casa, mentre i protagonisti sono tutti dentro (di nuovo in gabbia) barricati per resistere. L’attacco è totalmente sonoro, decisamente ispirato agli attacchi aerei della seconda guerra mondiale, ma la messa in scena e i suoni al cinema sono un attacco deliberato e prolungato ai sensi (e ai nervi) dello spettatore. Ma non bastasse questo, la camera inquadra le vittime con una precisione entomologica mentre si muovono alla ricerca di un riparo da una minaccia che non si vede. Per fare questo Hitch li riprende sempre con molto spazio davanti a loro (e sullo schermo lo spazio vuoto diventa enorme), per non farci mai dimenticare che stanno cercando di nascondersi da qualcosa che non c’è, e in questo modo ci mostra come non abbiano alcuna possibilità di mettersi in salvo. Non ci si nasconde da un suono, in qualunque angolo si tenti di accucciarsi. I loro movimenti sono senza senso, e il regista ce lo mostra senza alcuna pietà. Quella scena, inchiodati sulle poltrone del cinema (eguagliata in identificazione e disagio dello spettatore solo dalla scena madre de “la finestra sul cortile”) raggiunge livelli di partecipazione allucinanti. Si trema anche se la si conosce a memoria, salgono i brividi anche se sai già come andrà a finire, vorresti scappare ma non puoi, esattamente come loro.


La baia di Bodega Bay
La baia di Bodega Bay
Ultima nota doverosa per lo straordinario direttore della fotografia, Robert Burks
Fedele complice dei deliri visivi del genio londinese, lo ha seguito e assecondato con la sua maestria fin dal 1951 (con “L’altro uomo – Strangers on a train”) firmando un elenco di titoli che fa impressione: “Il delitto perfetto” (1954), “La finestra sul cortile” (1954), “L’uomo che sapeva troppo” (1956), “Il ladro” (1956), “La donna che visse due volte” (1958), “Intrigo internazionale” (1959), “Gli uccelli” (1963), “Marnie” (1964).  Per quei film, e per le esigenze di un regista come Hitchcock che ad ogni girato inventava cose nuove, occorreva continuamente trovare delle soluzioni per illuminare scene in teatro di posa che poi venivano montate con sfondi o altri trucchi per diventare scene all'aperto.

Virtuoso di posizionamento e diffusione delle luci, ricreare in modo artificiale la luce naturale del giorno era uno dei suoi “passatempi” preferiti. Se si guarda con occhio attento molte di quelle scene, ci si accorge (e non sempre) di quante siano le situazioni in cui si passa da una luce artificiale ad una naturale senza che quasi se ne abbia percezione o in quanti casi nella stessa immagine siano combinate insieme parti di diverse inquadrature riprese in condizioni completamente differenti (solo “Intrigo internazionale” è un luna park di piccoli trucchi ed effetti che per la gran parte sfuggono all'occhio proprio grazie alla capacità di Burks di uniformare la luce). 

Ma naturalmente è qui, nella follia de “Gli uccelli”, che raggiunge la sua vetta, e la visione in technicolor sullo schermo ce ne dà tutta la grandezza. “Gli uccelli” è un film pazzesco realizzato in un momento storico in cui era sostanzialmente impossibile realizzarlo. Un’impresa sbalorditiva sotto tutti i punti di vista (espressivo, tecnico, narrativo) che solo un regista come Hitchcock poteva intraprendere e solo un autore fotografico di pari genio e competenza poteva seguire assecondandolo e trovando ogni volta le soluzioni più adatte. Ogni trucco, ogni trovata fotografica e cinematografica utilizzata per quel film è stata inventata in quella occasione, per la prima volta (perfino l’utilizzo di cartoni animati sovrapposti a riprese reali, grazie alla consulenza di un altro grande, Ub Iwerks, genio dell’animazione proveniente direttamente dagli studi Disney). Elencarle tutte sarebbe impossibile, anche se non si può non citare la ripresa dall’alto di Bodega Bay mentre divampa l’incendio con i gabbiani che compaiono riempiendo piano piano lo schermo. È più di una ripresa “a volo d’uccello”. È, per la prima volta, “il punto di vista degli uccelli”.

La scena finale
La scena finale
E naturalmente a chiudere una “visione” così totalizzante da riempire la sala, esplode in tutta la sua magnificenza l’ultima inquadratura del film (un quadro che da solo potrebbe essere analizzato per la luce e per la composizione spendendoci settimane di discussione, e la cui importanza è già abbastanza evidenziata dalla scelta di Hitch di non far comparire neanche la scritta “The End” al termine del film, altra novità assoluta per l’epoca): un quadro vivente composto montando insieme decine di inquadrature diverseMai come sul grande schermo risulta evidente la celebre definizione dei critici Bruzzone e Caprara: “La magnifica atmosfera impressionista della scena finale cos'altro è se non l’incubo del Giudizio Universale tradotto in luce?

Lo so, siamo di parte ed esageriamo, volontariamente e coscientemente, perché siamo convinti che sia giusto farlo: la visione de “Gli Uccelli” di Alfred Hitchcock al cinema, sul grande schermo nella sala buia, è qualcosa di più della semplice visione di un grande film. È un’esperienza fuori dal comune.

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mercoledì 18 aprile 2018

Primavera digitale

Sono andata a vedere “Ready Player One” ultimissimo film del creatore di storie e sogni Steven Spielberg che sembra presentarci l’ennesima variazione sul tema del futuro distopico (e assai vicino, 2045) mettendo in scena una fuga dalla realtà totalmente tecnologica che si concretizza in un universo virtuale chiamato “OASIS”.

Quella che sembra (e in parte è) una brillante e divertente disamina dei pregi e i difetti del distacco dalla realtà ben presto si rivela anche per qualcosa di molto più sottile e dissacratorio: una carrellata pressoché infinita di citazioni e riferimenti alla cultura pop degli anni ‘80 e ’90: videogiochi, film, fumetti, disco-music e hard rock e chi più ne ha più ne metta. Nel fare questo, e affidando proprio alla conoscenza minuziosa di queste “arti minori” le soluzioni per risolvere il dramma di tutta la vicenda e del mondo intero, ci suggerisce di continuo che la cultura personale, il background, i riferimenti storici di ognuno di noi possono avere un valore estremamente alto, come del resto predicava spesso Umberto Eco (che miscelava anche nelle sue più dotte elucubrazioni i romanzi di alta letteratura ai fumetti più popolari, le considerazioni psicologiche e sociologiche più acute alle strisce dei Peanuts).


OASIS come XANADU?

Quarto potere, uno dei più grandi capolavori della storia del cinema inizia e finisce, con scene di straordinaria tecnica ed atmosfera, su un edificio che rappresenta e simboleggia aspetto, mole e personalità del protagonista della storia.

Come Charles Foster Kane è ispirato alla figura del miliardario William Hearst, così la sua principesca residenza chiamata Candalù (Xanadu in originale) altro non è che l’assurdo e fiabesco Hearst’s Castle, ancora esistente e visitabile sulle colline che dominano la costa californiana vicino Los Angeles. Ciò che Orson Welles fa di Xanadu, oltre ad usarla come sfondo di molte scene fondamentali, è presentarla letteralmente come la proiezione dell’ego e della multiforme personalità del suo ingombrante protagonista (interpretato da lui stesso, quindi volutamente ingombrante anche nel fisico). 
Il Castello enorme e labirintico diventa metafora fisica delle molte anime psicologiche di Kane, i saloni immensi e i corridoi infiniti rappresentano plasticamente l’inaccessibilità e l’incomunicabilità che via via prende possesso della sua vita e dei suoi rapporti umani.

Ecco. Proviamo a ripensare Charles Foster Kane come un nerd dei nostri giorni e avremo James Halliday e il suo mondo virtuale a cui chiunque può accedere, purché in possesso di visore e guanti aptici: OASIS parte da Orson Welles e arriva fino a Spielberg - passando per Kubrick e l’ Overlook Hotel - che a sua volta ricostruisce mondi dove i fantasmi diventano concreti e il virtuale e il reale diventano un tutt'uno.



www.danielbrowns.com
Credits: www.danielbrowns.com
E quando Samantha e Wade finalmente si incontrano nella vita reale, Janusz Kaminski  li inquadra nell'orto realizzato sul tetto di una Ville Planète ad alta intensità urbana - Columbus, Ohio, 2045 ma potrebbe essere il Bronx o la Banlieue - come due studenti qualunque della scuola di Stephen Ritz in attesa di una primavera che sembra non voler arrivare. 

E non so se dipende dalla nostra impazienza, o se il tempo delle stagioni è diventato un altro, se è diventato il tempo di Pinterest o di Instagram: è primavera quando nei nostri feed compaiono fiori di pesco e prati di margherite gialle, quando compaiono immagini che cercano di avvicinarsi alla realtà con la post produzione, e viene allora da chiedersi come sarà la stagione della rinascita per tutti i Wade e le Samantha, i Parzival e le Art3mis  cresciuti in metropoli iperconnesse e con un immaginario fatto di pixel.

Tecno-creatori di fiabe digitali

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Credits: www.danielbrowns.com
Poi ci fu quella volta che la tecnologia dei tubetti per i colori aiutò i pittori impressionisti ad afferrare il brivido della luce che cambia, perché permetteva di dipingere en plein air…

In ogni epoca, gli artisti hanno sempre usato i mezzi del loro tempo. Il pixel è l’equivalente moderno della pennellata. Mi sono ispirato anche dal design e dalla ricerca scientifica. Le mie fonti si trovano nella storia dell’arte. Le mie opere digitali proseguono lungo le linee della storia dell’arte del XIX e XX secolo. Molti artisti come Georges Seurat, Paul Cézanne o Claude Monet nel XIX secolo o Piet Mondrian, Victor Vasarely, Andy Warhol, Luciano Fontana, Yves Klein, o Nam June Paik nel ventesimo secolo, sono stati visionari e innovatori nel campo della pittura e non solo. Attraverso le loro varie indagini pittoriche e i loro approcci intellettuali, questi artisti, in un certo senso, per me prefigurano la Digital Art. (Miguel Chevalier)

E poiché mai si parte da una tela completamente bianca, sono i riferimenti che ognuno di noi coltiva per tutta la vita a creare il nostro paradiso artificiale, i nostri profeti e giardinieri

Un paradiso in cui la natura è un’altra cosa: è primavera digitale, è fiaba tecnologica, è Fractal Flowers, è Ultra-Nature, è Trans-Nature, è una nuova estetica che mescola arte e scienza, vita e morte, pixel con materiali, e abolisce ancora una volta i confini tra reale e virtuale per “liberare l’arte (l’uomo?) da ogni costrizione fisica, per trascendere i limiti della società contemporanea” e perché no, dell’Anima Mundi.


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venerdì 23 febbraio 2018

Il rosso e il nero, il prima e il dopo, l’ultimo

Uno dei vostri crimini è aver messo a nudo alcune pieghe del cuore umano troppo sporche per essere vedute… (Prosper Mérimée, Lettere licenziose a Stendhal (1830-1835))

LE DERNIER METRO - TRUFFAUTI titoli di testa de L’ultimo Metrò scorrono sullo schermo su uno sfondo rosso papavero e fino a ieri, sarebbero scivolati via senza grossi traumi ma oggi, nel dopo Cromorama, sappiamo che la sensazione che un colore ci suggerisce è legata al contesto e mai alla tinta, che quando un grande artista usa un colore lo fa per darci la sua visione del mondo, che il colore non è una mera registrazione di dati fisici

Sappiamo anche che vedere è una costruzione

E se vedere è una costruzione, l’intreccio della sceneggiatura con la mia personale e pregiudizievole (ri)costruzione, senza sapere nulla della storia, a partire dallo sfondo rosso dei titoli di testa, ha dato luogo ad una conclusione totalmente fasulla: ecco un rosso boudoir che evoca passione, eccitazione e che si sposa perfettamente con “l’ultimo” del titolo, quasi un richiamo a un “ultimo” famoso ballo et voilà! una nuova trama che non c’entra nulla, o quasi, con quello che viene raccontato sullo schermo (del resto nella costruzione del colore non conta l’armonia quanto avere una storia da raccontare:-)).

Eppure la scelta di una dominante rossafin dalle prime inquadrature, non può essere casuale: il rosso evoca forse il sangue, la guerra, le ferite di una nazione (la pellicola racconta le vicissitudini del Teatro Montmartre sotto l’occupazione tedesca)? Vuole suggerire una sensazione di angoscia, di claustrofobia (il regista e impresario ebreo, Lucas Steiner, resta nascosto fino all'ultima scena come un fantasma imprigionato nelle segrete del teatro)? 
LE DERNIER METRO - TRUFFAUT
LE DERNIER MÉTRO

In un’intervista rilasciata a Le Quotidien di Paris, nel giugno del 1980 Truffaut dice:
Le dernier métro è un film notturno. Bisognava considerare che l’impressione di quel periodo è spesso fatta di ricordi in bianco e nero, alla maniera delle foto e dei film d’epoca. Credo di aver risolto il problema parlandone molto con Nestor Almendros, prendendo delle decisioni con lui”.

Truffaut e Almendros (Barcellona, 1930 – New York, 1992), direttore della fotografia ingaggiato per la nona volta dal cineasta, decidono che i primi 45 minuti si svolgono di notte, al buio, per dare maggiormente l’idea di essere in guerra, sacrificando la verità storica (all'epoca in cui il film è ambientato alle dieci di sera era ancora chiaro) a una verità estetica. Del resto Almendros è uno dei maestri indiscussi del bianco e del nero, della luce e dell’ombra, anche se stavolta affida la dicotomia luce-tenebre al rosso-nero. E sarà forse un caso se la stessa coppia di colori è presente nella bandiera della Germania nazista?

L’atmosfera è dunque misteriosa, la passione velata, tutto si gioca sulla metà nascosta (“in te ci sono due donne” è l’immancabile lettura di ogni mano femminile che capita a tiro di Depardieu-Granger), sulla verità-finzione, sul significato ambiguo (il figlio della portinaia coltiva piantine di tabacco ma è facile immaginare che possa trattarsi di un altro tipo di vegetale), sul binomio buio-luce, su una realtà che non si staglia nitida ma si intravede appena, quasi  che Truffaut, facendo suo il rimprovero di Mérimée a Stendhal, avesse steso un tramonto sulle pieghe del cuore umano.

LE DERNIER METRO - TRUFFAUT
LE DERNIER MÉTRO

P.S. Di colori e di cinema abbiamo già scritto qua e là... :-)


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giovedì 26 maggio 2016

What next?

Perché i tecnici del suono, delle luci, delle reti, ecc., quelli insomma che arrivano per collegare il portatile al proiettore e sistemare il microfono hanno sempre vent'anni e i capelli rasta?  

La sala Petrassi dell’Auditorium ospita, nel primo fine settimana romano di bel tempo della stagione, Amedeo Balbi, astrofisico, divulgatore e scrittore e Roberto Battiston, presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana. 

Ancora un festival, stavolta delle scienze, e il tema della Lectio Magistralis di quest’afosa domenica, è affascinante: come il cinema guarda le stelle

C’è sempre stato un interesse molto forte del cinema verso l’Universo. Un rapporto strettissimo che parte da Viaggio nella Luna (1902, ispirato a “dalla terra alla luna” di Jules Verne) e continua con 2001 Odissea nello spazio (1968) che è in realtà un film sulla "ricerca di senso", e poi Apollo 13 (1995) che ha dato probabilmente origine a uno dei primi fenomeni virali e duraturi in tema di citazioni cinematografiche con la famosa frase: "Houston, we have a problem".

Da questo punto in poi fantasia, storia, scienza si incontrano

Il cinema di genere degli ultimi anni racconta storie non vere ma certamente verosimili: siamo andati sulla luna, sulla coda di una cometa, è stato misurato lo spazio interstellare, si parla di raggi cosmici, di antimateria, di buchi neri. “Non è più fantascienza - racconta Battiston - è scienza.” 

Una passione, quella del cinema per lo spazio, che torna prepotente negli ultimi anni con pellicole come Gravity (2013) in cui tutti i movimenti, le luci, i giochi sono calcolati dal computer - artigianato dell'illusione è stato definito - e ancora di più con Interstellar (2014), il film che è anche uno strepitoso tributo ad Albert Einstein. 

La storia è stata scritta da Kip Thorne un astrofisico (che potrebbe essere il prossimo premio Nobel per la fisica) che ha lavorato per 12 anni con il regista Nolan a partire dalla fisica nota, immaginando mondi possibili e basando il resto del racconto su quella speculativa (TesseractWormhole, ...). 

Con questo film si dice abbia dato addirittura un contributo al progresso scientifico grazie alla “visualizzazione” di alcune teorie.

Sulla necessità di “visualizzare” mi scontro quasi ogni giorno: per quanto si possano produrre documenti approfonditi, dettagliati e perfino approvati ci sarà sempre qualcuno che alla vista del prototipo o del Mockup cadrà da un pero.

La mia pregiudizievole idea dunque, indotta dal confronto quotidiano con utenti di applicazioni web recalcitranti alle parole che necessitano di “visualizzare” e la mia personale visione che riterrebbe invece sufficiente uno “sforzo di fantasia”, richiede un cambio di prospettiva: accettare che lo studio, l’approfondimento, la ricerca, l’intuizione, l’applicazione, la sperimentazione, l’ingegno, la creatività e la passione con cui ci adoperiamo ogni giorno per mostrare cose che altrimenti non saremmo in grado di far vedere non è (mai) fatica sprecata e potrebbe addirittura un giorno trasformarsi nella scintilla che ci farà fare il prossimo salto in avanti.
Robot di Metropolis (Fritz Lang, 1927) - Cinémathèque française di Parigi
Robot di Metropolis (Fritz Lang, 1927) - Cinémathèque française di Parigi

P.S. Sulla domanda in incipit non ho finora trovato risposta soddisfacente e sono ben accetti suggerimenti;-).


Per approfondimenti:

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mercoledì 4 novembre 2015

…e non giocava a dadi neanche Hitch

di Alessandro Borgogno

Torniamo su alcuni luoghi del delitto per riprendere il discorso intrapreso sulla scuola de “gli Uccelli” e sui luoghi della Provenza dipinti da Van Gogh.

Ci torniamo per fare un passo avanti, e per farlo andiamo a visitare (noi lo abbiamo fatto qualche anno fa viaggiando per la California) le ambientazioni scelte da Hitchcock per un altro dei suoi capolavori, forse il più sentito e sofferto dei suoi lucidi incubi: “Vertigo”, conosciuto da noi come “la Donna che visse due volte”, del 1958.

Ambientato a San Francisco e dintorni, il film ne rispetta scrupolosamente i luoghi sia nella localizzazione che nei tempi di narrazione. Oltre ai più famosi e conosciuti (Il Golden Gate, Lombard Street, il palazzo della Legion d’Onore al Lincoln Park) la storia ne utilizza, non solo come ambientazioni ma anche come veri e propri fulcri narrativi della vicenda, almeno altri due di assoluta suggestione e unicità.

Uno è la Mission Dolores, missione spagnola che dà anche il nome al distretto cittadino, e che se nella storia rappresenta il luogo di sepoltura della presunta antenata in cui crede di essersi reincarnata Kim Novak, nella realtà è un vero luogo storico di San Francisco, la probabile prima missione da cui fu fondata l’intera città. 

Ed è davvero un posto di grande suggestione. 

Fra le vie e le strade tipiche della metropoli californiana, improvvisamente si fa spazio questa piccola chiesa barocca, e dietro un semplice muro si apre un piccolo cimitero che diventa una inaspettata oasi di silenzio e tranquillità. Ci si entra, si passeggia piano e si lascia andare lo squadro sulle lapidi che riportano date vecchie di più di due secoli e che risalgono alla nascita della città. E’ evidente che Hitchcock ha tenuto in gran conto non solo l’aspetto scenografico e “misterioso” del luogo, ma il suo reale significato storico.
San Francisco, Mission Dolores


San Francisco, Mission Dolores


L’altro luogo è un’altra missione, e sta ad un centinaio di miglia a sud, fra San Francisco e Los Angeles. 

È San Juan Bautista, convento spagnolo situato lungo “El Camino Real”, interminabile teoria di missioni francescane (e di campane sante) che si snoda in un percorso continuo di quasi mille chilometri da San Francisco fino al confine con il Messico. Qui Hitch fa esplodere la sua storia, il rapporto fra i protagonisti e il dramma centrale di tutto il suo cupo e magnifico film, e qui ritorna nel finale per il clamoroso e raggelante epilogo. Per farlo effettua una sola manipolazione, ricreando un campanile che non c’è più (ma del quale testimonianze storiche sembrano confermare la precedente esistenza). 

Per il resto il luogo, isolato e magico, letteralmente fuori dal tempo, si presenta oggi come era al tempo in cui sir Alfred vi piazzò la cinepresa, e probabilmente come era anche cento e poi duecento anni prima. E Hitch mantiene realismo e precisione quasi documentaristiche anche nel far viaggiare l’auto dei protagonisti sulla strada alberata che porta alla missione, e perfino nell’inquadrare l’incrocio dove si lascia la strada principale per entrare nel paesino spagnolo.
San Juan Bautista

San Juan Bautista

San Juan Bautista

Il pensiero che ci fa legare queste visite, e queste scoperte, al discorso fatto per Van Gogh è il seguente: come Van Gogh al massimo della sua espressione creativa e immaginifica rappresentò paesaggi rispettandone in modo quasi sorprendente proporzioni e prospettive, così Alfred Hitchcock al punto più alto della sua carriera, anche lui al massimo della sua espressione creativa e potendosi permettere qualunque fantasia e qualunque libertà, utilizzò luoghi reali e li raccontò rispettandone totalmente l’ubicazione, la topografia e il significato storico.

Per chi conosce a memoria il film, (ogni riferimento a chi scrive è puramente casuale) cercando e visitando quei luoghi si scopre addirittura che perfino i tempi di percorrenza e le distanze fra un posto e l’altro sono rispettati dal maestro del cinema in modo talmente rigoroso da contribuire a dare alla narrazione quel ritmo apparentemente più lento e più riflessivo che è anche uno dei tratti che distinguono quel film da molti suoi altri capolavori.

Insomma, senza azzardare spiegazioni che facilmente risulterebbero arbitrarie, ci è sembrato interessante  constatare come sia Van Gogh che Hitchcock, nel momento in cui la loro produzione artistica era più libera da costrizioni e vincoli (il pittore non aveva nessuno a contestare ciò che decideva di mettere o non mettere su tela, il regista era all’apice del suo successo e nessun produttore né sceneggiatore avrebbe mai potuto imporre, né contestare, qualunque scelta avesse deciso di fare), scelsero la disciplina e il rispetto attento e rigoroso della realtà che li circondava e che avevano deciso di raccontare.

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mercoledì 21 ottobre 2015

Il villino sul colle

Si dice che quelli che raccontano storie sono quelli che sanno ascoltare, perché raccontano storie che hanno già ascoltato. Spesso la voce che ascoltiamo è quella della nostra famiglia, dei nonni, genitori, cugini, la voce degli affetti più cari e dei luoghi della nostra vita.

Capita poi di affannarsi nella ricerca di suggestioni lontane, attratti dall'esotico, dall'inconsueto, dall'incantesimo e allora la voce narrante si affievolisce fin quasi a scomparire, ma basta un attimo di silenzio e il suono riemerge prepotente.

Sabato scorso ero alla commemorazione di Paolo Zapelloni alla Casa del cinema di Villa Borghese

Ho ascoltato raccontare la storia di un uomo “che aveva deciso di dedicare la sua vita ad una unica e immensa passione, il cinema. O ancora meglio i film” e ho percepito con molta chiarezza il mio attimo di silenzio e poi il ritorno di una voce: quella di una grande casa sul colle Aventino. 

Questa storia parte dunque da lontano, da due sorelle di una nobile famiglia ligure, Paola Bianca e Maria Luigia detta Lisa.

Poco prima della Grande Guerra, nel 1914, Bianca decise di venire a studiare a Roma lasciando le comodità del suo rango e abbandonando così la possibilità di sposare un nobiluomo di alto lignaggio. Lisa la seguì.

Bianca aveva vent'anni, era nata nel 1894.

Venne a Roma per studiare al Magistero (l’università di lettere dell’epoca per le donne, c’erano delle distinzioni allora:-)) contrariamente a quello che facevano le nobildonne del suo tempo e della sua estrazione. Ebbe come docente di Letteratura Pirandello, completò tutto il corso di laurea ma non fece la tesi. Decise di non laurearsi perché sapeva che un titolo non le sarebbe servito a niente, perché sapeva che la sua condizione le avrebbe impedito in ogni caso di lavorare. Era venuta a studiare al Magistero solo per imparare.

A Roma conobbe Cesare (dirigente del Comune di Roma) che però partì subito per la guerra del 15-18. Si sarebbero sposati al suo rientro, nel 1919. Ebbero 8 figli, 2 maschi e sei femmine che a loro volta hanno avuto, finora, in tutto circa 70 tra figli, nipoti, pronipoti (l’elenco si aggiorna di continuo). 

Ogni anno, due volte l’anno, a Natale e in Primavera (alla ricorrenza della sua nascita), tutta la famiglia si riunisce al Villino sul colle Aventino per rispettare la tradizione familiare fortemente voluta da Bianca. 

Tra lo scambio dei regali per i bambini e le chiacchiere delle sorelle le narrazioni corrono, si intrecciano, risuonano, alcune sfuggono, qualcuna si riesce ad afferrare. 

Una di queste è la storia di Paolo, il primo dei nipoti di Bianca, che ci teneva a ricordare di essere nato, per pochi giorni, quando in Italia c’era ancora la Monarchia. 

Paolo, detto Zap, l’uomo che guardava i film.


Paolo Zapelloni - Ritratto di famiglia



Approfondimenti:

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domenica 12 ottobre 2014

Case nel cinema

Il cinema, come arte visiva e narrativa, non ha mai potuto prescindere dalle case, dai giardini, dagli ambienti indispensabili a far muovere personaggi e far vivere storie.

Più raro è che una casa, o parte di essa, diventi personaggio al pari degli altri, quando non addirittura protagonista assoluto. Non più solo indispensabile scenografia quindi, ma elemento visivo e narrativo di primo piano. Qualcuno lo ha fatto, qualcuno ci è riuscito. 

A partire dal più grande, Sir Alfred. Ne abbiamo già parlato qui, qui e qui

Ma non è finita, state connessi:-).

Case nel cinema, Alfred Hitchcock


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