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lunedì 13 aprile 2020

Now Here, Nowhere

È il 1996, più o meno in questo periodo dell’anno.

Cesare Pietroiusti - artista e attuale presidente di Palaexpo - è invitato a partecipare da uno dei curatori del Louisiana Museum of Modern Art di Copenaghen, Iwona Maria Blazwick, alla mostra Now Here per la sezione Work In Progress

A detta dell’artista il Louisiana Museum of Modern Art di Copenaghen era all'epoca (ma immagino che la sua vocazione sia rimasta tale anche in seguito) un museo perfetto e soprattutto vivibile. Intanto per la posizione: a mezz'ora da Copenaghen, poco distante anche da Malmö, immerso nel verde, con architetture perfettamente integrate nel paesaggio e, come se non bastasse, affacciato sulla costa dell’Øresund, nel Mar del Nord. Un museo destinato ad accogliere visitatori, famiglie, bambini, studenti con la promessa (mantenuta) di rendere memorabile la lunga permanenza. 

Un museo vivibile dunque e sulla falsariga di questa idea Pietroiusti propone a Iwona Maria una performance piuttosto inconsueta, a ripensarla oggi direi quasi profetica. 
L’arte del resto è sempre un passo avanti, perfino un passo avanti alle distopie.

La proposta, dicevo, consiste nel farsi murare in una sala del museo durante la settimana precedente l’inaugurazione: sette giorni in completo isolamento in una sala svuotata, un guscio con nulla dentro salvo un paio di prese elettriche. Trascorsi i sette giorni, la stanza è riaperta e resa accessibile al pubblico che può muoversi liberamente negli stessi spazi, in mezzo agli oggetti e a tutto quanto prodotto dall'artista e lasciato lì senza alterazione alcuna, diventando in tal modo, quegli stessi oggetti, oggetto dell’installazione.

Entra dunque nella sala vuota del museo portando con se sette gruppi di oggetti e li dispone in altrettanti angoli. Per prepararsi alla permanenza aveva chiesto a sette amici di fare ognuno una lista delle cose che avrebbero portato con se, dovendo sopravvivere per 24 ore in una situazione simile, e poi vi si era rigorosamente attenuto. Il primo giorno usa solo gli oggetti della prima lista, il secondo giorno quelli della seconda lista e così via. 

L’attività intorno alla sala murata continua rumorosa e frenetica per l’allestimento della mostra: un andirivieni incessante di operai, artisti, curatori, addetti alle pulizie, alla sorveglianza, alle consegne… La sera tutti se ne vanno, si spengono le luci, la stanza piomba nel silenzio. Così per sette giorni, un giorno dopo l’altro e sette notti, in compagnia di se stesso, dei propri pensieri e degli oggetti di qualcun altro. 

Più o meno a metà della reclusione comincia a vagheggiare e s’immagina un artista geloso che entra nella stanza per ammazzarlo, fare in sette pezzi il suo corpo per metterne ognuno in uno dei gruppi di oggetti che aveva disposto all'inizio della clausura. Controlla il terrore evocato dalla sua mente mettendosi in un ottavo angolo, il suo angolo, in cui erano posizionati gli unici oggetti personali che aveva deciso di portare con se: una borsa, un cavalletto, una macchina fotografica, dei rullini. Si mette nel suo angolo e ripete: sono un artista, sto partecipando a una mostra, è una performance

Allo scadere dei sette giorni, uscito dall'isolamento ha molta fame e per prima cosa mangia con molto gusto nella caffetteria del museo. Ci è voluto un po’invece per ricominciare a parlare con le persone. 

Fine della storia.

È il 2020, più o meno un mese fa.

Il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte dichiara la quarantena per contrastare il contagio dal Covid-19 e un’intera nazione (o larga parte di essa) diventa, suo malgrado, un enorme collettivo in un inedito esperimento sociale.

Più o meno da quel momento mi frulla in testa la storia che ho appena raccontato, quasi fosse il mio ottavo angolo, quello che può dare un senso all'intera faccenda. Che poi un senso non sono sicura di averlo trovato ma alcuni insegnamenti forse si. 

Il primo riguarda proprio gli oggetti. Quello che ci impedisce di diventare pazzi in una situazione estrema è banalmente avere un angolo in cui abbiamo riposto gli oggetti che per noi hanno un valore e che riescono a tenerci ancorati a una realtà, che pur essendo quella che non vorremmo vivere è pur sempre meglio dei nostri deliri. 

Il secondo riguarda il momento in cui si potrà uscire e il primo impulso sarà quello di soddisfare i nostri bisogni primari, ma allo stato attuale potrebbe non essere possibile anche stando “fuori” e il tentativo potrebbe avere conseguenze inaspettate. 

Quando finalmente sarà finita ne usciremo frastornati e dovremo velocemente rieducarci alla relazione mantenendo tuttavia il distanziamento sociale. Il che, è quasi un ossimoro. Guardarci e parlare attraverso lo schermo di un PC o di un telefonino rende oggi sicuro il nostro interagire, rende la relazione inodore, ma cosa ne facciamo di tutto il resto che manca? Una delle cose a cui ho pensato ascoltando il racconto della performance di Pietroiusti è stato esattamente sull'odore: che odore aveva la stanza dopo 7 giorni di vissuto, anche organico?

Il senso vivibile del Louisiana Museum of Modern Art di Copenaghen sta nel toccare le opere sparse in giardino, nel sedersi alla caffetteria o perdersi nei padiglioni rincorrendo i propri pensieri, nel sentire il vento e il profumo proveniente dal mare del Nord. 

Credo che il mondo, scriveva Riccardo Falcinelli qualche anno fa, non sia fatto per essere guardato ma per essere usato, cioè per entrarci in relazione, per chiederci cosa ci possiamo fare. Non sono sicura che a distanza di qualche luna e alla luce degli ultimi avvenimenti si possa continuare a dire la stessa cosa con la medesima nitidezza. 

Il mondo da mettere in relazione è oggi più di uno e forse bisogna semplicemente trovare modi inediti di metterli tutti in relazione con noi e tra di loro, ma se c’è qualcosa che racconta a me questa storia e che mi sprona a contornarmi di potos, riordinare i cassetti, alzarmi all'alba per andare chissà dove e poi stare qui, è nelle stesse parole dell’artista: l’operazione artistica può rappresentare un territorio di libertà e questa consapevolezza di libertà consente alle pluralità di pensare che il cambiamento è possibile.

Consente di pensare che il cambiamento è possibile e lo è perché qualcuno, un giorno, ha scelto liberamente di percorrere il mondo racchiuso in una stanza.


La "stanza ad Arles" dipinta da Van Gogh ricostruita dall'Art Institute di Chicago in occasione della mostra "Van Gogh’s Bedrooms" che, dal 14 febbraio al 10 maggio 2016, riunì le tre versioni del dipinto.

Approfondimenti


mercoledì 4 novembre 2015

…e non giocava a dadi neanche Hitch

di Alessandro Borgogno

Torniamo su alcuni luoghi del delitto per riprendere il discorso intrapreso sulla scuola de “gli Uccelli” e sui luoghi della Provenza dipinti da Van Gogh.

Ci torniamo per fare un passo avanti, e per farlo andiamo a visitare (noi lo abbiamo fatto qualche anno fa viaggiando per la California) le ambientazioni scelte da Hitchcock per un altro dei suoi capolavori, forse il più sentito e sofferto dei suoi lucidi incubi: “Vertigo”, conosciuto da noi come “la Donna che visse due volte”, del 1958.

Ambientato a San Francisco e dintorni, il film ne rispetta scrupolosamente i luoghi sia nella localizzazione che nei tempi di narrazione. Oltre ai più famosi e conosciuti (Il Golden Gate, Lombard Street, il palazzo della Legion d’Onore al Lincoln Park) la storia ne utilizza, non solo come ambientazioni ma anche come veri e propri fulcri narrativi della vicenda, almeno altri due di assoluta suggestione e unicità.

Uno è la Mission Dolores, missione spagnola che dà anche il nome al distretto cittadino, e che se nella storia rappresenta il luogo di sepoltura della presunta antenata in cui crede di essersi reincarnata Kim Novak, nella realtà è un vero luogo storico di San Francisco, la probabile prima missione da cui fu fondata l’intera città. 

Ed è davvero un posto di grande suggestione. 

Fra le vie e le strade tipiche della metropoli californiana, improvvisamente si fa spazio questa piccola chiesa barocca, e dietro un semplice muro si apre un piccolo cimitero che diventa una inaspettata oasi di silenzio e tranquillità. Ci si entra, si passeggia piano e si lascia andare lo squadro sulle lapidi che riportano date vecchie di più di due secoli e che risalgono alla nascita della città. E’ evidente che Hitchcock ha tenuto in gran conto non solo l’aspetto scenografico e “misterioso” del luogo, ma il suo reale significato storico.
San Francisco, Mission Dolores


San Francisco, Mission Dolores


L’altro luogo è un’altra missione, e sta ad un centinaio di miglia a sud, fra San Francisco e Los Angeles. 

È San Juan Bautista, convento spagnolo situato lungo “El Camino Real”, interminabile teoria di missioni francescane (e di campane sante) che si snoda in un percorso continuo di quasi mille chilometri da San Francisco fino al confine con il Messico. Qui Hitch fa esplodere la sua storia, il rapporto fra i protagonisti e il dramma centrale di tutto il suo cupo e magnifico film, e qui ritorna nel finale per il clamoroso e raggelante epilogo. Per farlo effettua una sola manipolazione, ricreando un campanile che non c’è più (ma del quale testimonianze storiche sembrano confermare la precedente esistenza). 

Per il resto il luogo, isolato e magico, letteralmente fuori dal tempo, si presenta oggi come era al tempo in cui sir Alfred vi piazzò la cinepresa, e probabilmente come era anche cento e poi duecento anni prima. E Hitch mantiene realismo e precisione quasi documentaristiche anche nel far viaggiare l’auto dei protagonisti sulla strada alberata che porta alla missione, e perfino nell’inquadrare l’incrocio dove si lascia la strada principale per entrare nel paesino spagnolo.
San Juan Bautista

San Juan Bautista

San Juan Bautista

Il pensiero che ci fa legare queste visite, e queste scoperte, al discorso fatto per Van Gogh è il seguente: come Van Gogh al massimo della sua espressione creativa e immaginifica rappresentò paesaggi rispettandone in modo quasi sorprendente proporzioni e prospettive, così Alfred Hitchcock al punto più alto della sua carriera, anche lui al massimo della sua espressione creativa e potendosi permettere qualunque fantasia e qualunque libertà, utilizzò luoghi reali e li raccontò rispettandone totalmente l’ubicazione, la topografia e il significato storico.

Per chi conosce a memoria il film, (ogni riferimento a chi scrive è puramente casuale) cercando e visitando quei luoghi si scopre addirittura che perfino i tempi di percorrenza e le distanze fra un posto e l’altro sono rispettati dal maestro del cinema in modo talmente rigoroso da contribuire a dare alla narrazione quel ritmo apparentemente più lento e più riflessivo che è anche uno dei tratti che distinguono quel film da molti suoi altri capolavori.

Insomma, senza azzardare spiegazioni che facilmente risulterebbero arbitrarie, ci è sembrato interessante  constatare come sia Van Gogh che Hitchcock, nel momento in cui la loro produzione artistica era più libera da costrizioni e vincoli (il pittore non aveva nessuno a contestare ciò che decideva di mettere o non mettere su tela, il regista era all’apice del suo successo e nessun produttore né sceneggiatore avrebbe mai potuto imporre, né contestare, qualunque scelta avesse deciso di fare), scelsero la disciplina e il rispetto attento e rigoroso della realtà che li circondava e che avevano deciso di raccontare.

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domenica 14 giugno 2015

Appendice… Se una mattina come un’altra una mail con uno strano oggetto

Ecco!
L'oggetto. Punto esclamativo compreso.

Conosco è ovvio il mittente che, occasionalmente e “on demand”, produce approfondimenti per il Blog di cui colei che ne rivendica la paternità (cioè io, oppure dovrei dire maternità? Bon, magari chiedo a Umberto Eco) si lagna: periodi troppo lunghi, frasi chilometriche che bisogna editare e “potare” ecc. Senza contare l'eventuale foto: non rende l'idea, ci vorrebbe qualcosa di più…di meno… ma com'è possibile che non abbiamo (notare il plurale maiestatis) foto recenti di un mercato della frutta galleggiante?? 

Un inferno. 

Quell’ Ecco! perentorio mi convince tuttavia ad aprire la busta velocemente.

Comincia con Van Gogh non giocava a dadi e il resto lo trovate qui.

Parafrasando la felice campagna di Ikea Temporay, because we’re curious. Are YouJ



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sabato 12 luglio 2014

Case nella pittura, da Van Gogh a Pinterest…

Inauguriamo questo blog provando a raccontare alcuni dei mille percorsi di una casa imperfetta.
Un viaggio attraverso arti, letteratura, architettura, modernità e design...
Si parte da qui. Buon viaggioJ.

 ...Passando per Monet

Il rapporto di Monet (per come ci piace immaginarlo) con la sua casa, il giardino, le ninfee merita, ça va sans dire, questo post dedicato.
Il nostro percorso visivo parte dallo studio di Monet a Giverny (immobile al tempo di Monet, come gli oggetti che vi dimorano), passa attraverso il giardino e tenta di “riprodurre” ancora una volta le inevitabili ninfee.







...e dal suo soggiorno giallo

Un mood impressionista, che sembra un quadro di Van GoghJ.


Per noi comuni mortali, con poca probabilità di accedere all’acquisto di un quadro impressionista, restano gli home decor di Etsy rigorosamente nella palette di (nuovi) colori del 1840: bianco zinco, blu ceruleo, verde cobalto, giallo cadmioJ.



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