martedì 15 settembre 2015

Storie storte e consolanti utopie


La cover precedente di questo Blog era composta da diversi scatti fatti in momenti e luoghi diversi, tra cui l’interno di una casa cubica ad Amsterdam e un hotel a Flagstaff, sulla Route 66.


La prima cover del Blog
La prima cover del Blog

La seconda immagine a sinistra, la casa cubica, voleva essere una dichiarazione di intenti: qui raccontiamo storie storte, episodi non lineari, frammenti di rottura con il passato, l’ambizione e la sofferenza di chi sperimenta e sovverte. 

L’ultima a destra era invece legata ad un episodio specifico. 

Nel 2011 durante un viaggio in America (arrivo a San Francisco, partenza da New York e in mezzo 4 o 5 Stati on the road) ho dormito pochissimo per quasi tre settimane. Una mattina, sveglia presto come al solito, esco sul ballatoio dell' hotel attratta dal silenzio delle prime luci dell’alba e vedo comparire in lontananza i vagoni di un treno merci. Afferro la telecamera e comincio a filmare. Per alcuni infiniti minuti fisso sulla pellicola vagoni e vagoni che scorrono lentamente, fermando per sempre il ricordo di un’America dall’altra parte della strada, con i suoi binari e i treni che sembrano non finire mai.


L’ultima immagine è dunque una speranza: di afferrare il treno che passa, lo spazio eterotopico, l’immaginazione, l’avventura, i corsari. 

Una speranza che riguarda ancora una volta il paesaggio: un fil rouge che parte dalle Highway di un’America sconfinata per  arrivare alle distese interminabili di vigneti della Borgogna o di lavande della Provenza ma dopo molti km in terra straniera la sensazione, dolorosa, è di un treno che questo Paese, dalle Alpi alle Isole, ha perso mille volte.

Rapisce la volontà di conservazione, il recupero capillare delle tradizioni, la continuità nella manutenzione e nella cura del territorio, una buona rete autostradale dotata di servizi efficienti, strade che corrono in mezzo ai campi allineati, casali coperti di rampicanti o circondati di cipressi, filari di viti, alberi di frutta. In lontananza, i tetti di un villaggio, un ponte su un canale, la ruota di un mulino. E nessun capannone per il bestiame. 

Per chi, come me, conserva negli occhi l’abitudine al cemento, ai recinti, alle bottiglie di vetro rotto incastonate nei muri perimetrali delle ville immerse in un silenzio squarciato solo dai cani da guardia, le travi di una casa medievale, un’aiuola di coleus multicolori o il muschio che copre la fontana al centro di una piazza, stritola lo stomaco in una morsa amara. 

Inseguo utopie, mi dico, un attimo prima di far scattare il clic della macchina fotografica.













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