domenica 8 maggio 2016

La cartella parallela e altre storie

Si parla di medicina narrativa e io sono tra gli infiltrati.

Anche il posto è fortemente narrativo. Qui nel 1990-1991, si è scritta una storia dove la malattia da debellare era rappresentata da migliaia di migranti e da un manipolo di specialisti che hanno infine risolto il conflitto. Sappiamo come.

Il primo relatore è Christian Delorenzo, un giovane ricercatore in Letteratura e Scienza all'Università di Parigi, studioso del rinascimento, “antropologo mancato” e molto altro. Non sapendo scegliere tra materie umanistiche e scientifiche si colloca, dice, negli interstizi.

Mi viene in mente una cosa che ho letto non molto tempo fa: “Negli interstizi si verificano attriti, slittamenti, frizioni, scarti. Si annidano scorie, avanzi, permanenze, indizi. Negli interstizi possono aprirsi varchi, e i varchi si possono squarciare in aperture verso nuove prospettive.” (Interstizi creativi- idee 107)

Per ore ci racconta, con metodo, competenza e passione dell’antropologia medica, del potenziale terapeutico della scrittura, delle scienze con paradigma narrativo e di come “saperi diversi (letteratura, filosofia, antropologia, …) legati attraverso la narrazione curano la complessità”; ci mostra come sia necessario comprendere la persona (Illness) per curare la malattia (Desease) come il pensiero narrativo, che costituisce la forma tipica di strutturazione dell’esperienza, riesce a unire i due poli; ci parla di Rita Charon, della “cartella parallela”, di come le malattie possono essere simili ma le persone sono tutte diverse

Tutti abbiamo paura, dice. Paura dei medici, della malattia, del dolore, dell’ignoto, della “rottura biografica”, tutti siamo influenzati dalle nostre convinzioni, dal pregiudizio, dalla vergogna, dal pudore.

E io ricordo ancora, dopo molti anni, il gesto di una madre che allontana di scatto una bimba colpevole di voler abbracciare lo zio malato di cancro, il braccino strattonato con violenza per allontanare il visetto un attimo prima che sfiorasse le pustole del viso e la cannula che sputava catarro e sangue. 

L’espressione sorpresa della bambina è ancora per me una fotografia nitida, fa parte di una raccolta che non sfoca né sbiadisce con il tempo. Sobbalzai, come quando arriva improvvisa una detonazione nel silenzio. In un quieto pomeriggio estivo, seduti su sgabelli di fortuna - uno meraviglioso, piccolo, di sughero -  sotto i noccioli di una casa di campagna compresi che può esistere un male più grande del cancro ed è la paura delle madri per l’incolumità dei propri figli. 

Aix-en-Provence


Il secondo relatore è la Dott.ssa Maria Cecilia Cercato dell’Istituto Nazionale Tumori Regina Elena. Il suo racconto e quello di altri medici testimonia la forte volontà  di cambiare un sistema in cui il paziente passa da una stazione all'altra come se percorresse un binario e si ferma, secondo un protocollo consolidato, nella stazione successiva dove un nuovo esperto effettua la “presa in carico subentranti

Il Regina Elena è un ospedale oncologico, lo conosco bene per averci trascorso parecchi mesi. Accompagnavo il fratello di mia madre nel calvario di un cancro alla gola. La notte che seguì l’operazione ero sola, avevo insistito affinché il resto della famiglia tornasse a casa. Con logica inoppugnabile li avevo convinti, dato che un solo  parente poteva rimanere, che non c’era una persona più adatta di me a restare. Non rammento come impiegai l’attesa delle quasi 12 ore di intervento ma ricordo bene l’arrivo della barella di ritorno dalla sala operatoria. Seguii con attenzione e sgomento le manovre di trasferimento nel letto, ascoltai le rassicurazioni di medici e infermieri. Poi svenni. 

Ho capito, dopo una serie di evidenze empiriche, che svengo di fronte a persone sottoposte ad anestesia:-). 

Restammo parecchio tempo al Regina Elena, da un certo punto in poi le facce divennero amiche, imparai dove portavano i lunghi corridoi e cosa si nascondeva dietro le porte chiuse. Eravamo in tanti. Per noi che facevamo le notti arrangiandoci con letti di fortuna gli infermieri lasciavano una caffettiera già pronta nella piccola cucina del reparto.

Quando la situazione migliorò un po’ io e lui prendemmo a passeggiare nei giardini terrazzati, portavamo con noi un piccolo quaderno dove diligentemente annotava, e io cercavo di interpretare, le frasi nell'italiano stentato di quinta elementare mischiate al dialetto. 

Parlavo molto, per ore, riempivo i silenzi, raccontavo storie. Poi compravamo una coca-cola al bar e ci sedevamo a berla su una panchina: infilavo una siringa pulita nella lattina, aspiravo e poi iniettavo il liquido nel sondino, con calma affinché le bollicine frizzanti potessero sentirsi nello stomaco anche se non passavano dalla bocca e dessero così l’illusione di sorseggiare la bibita, di placare la sete.

La fine delle visite era il momento più straziante. Lo lasciavo sulla scalinata esterna dell’ospedale dove insisteva per accompagnarmi. Rimaneva lì finché non sparivo dalla vista lungo Viale del Policlinico. Gettavo un ultimo sguardo indietro e lo vedevo in piedi, con il suo pigiama ormai troppo grande, con i tubi e il sondino e la cannula e le bende. Faceva un ultimo gesto di saluto mentre lacrime silenziose scendevano sul viso disfatto. Poi si voltava e lentamente tornava in reparto, nella stanza dell’attesa.

Se fossi un medico questa sarebbe una delle mie cartelle parallele, se fossi un medico potrei forse salvare delle vite. Ma sono solo un cantastorie, uno dei tanti.





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