L'uomo che guardava i film

di Alessandro Borgogno

Raccontava un suo amico, senza minimamente sforzarsi nel ricordo tanto era nitido e preciso, che molti anni fa mentre erano insieme in viaggio da Roma alla Liguria, avvicinandosi a Livorno si alzò dal suo posto nello scompartimento e disse “senti… io scendo qui” “come qui? Siamo ancora a Livorno” “Si lo so, è che ho visto che qui a un cinema di Livorno fanno un film che devo vedere, scendo, vedo il film, poi prendo il prossimo treno e vi raggiungo stanotte”.

E così fece.

Si era studiato preventivamente orari dei treni e dei cinema di un luogo lungo la tratta ferroviaria che avrebbero percorso. Chissà come, visto che erano tempi senza internet e senza telefonini sempre connessi. 

Eppure lo faceva, sempre. Per i film, per i festival del cinema, per qualunque cosa avesse a che fare con la proiezione di immagini in movimento.

Era Paolo, Paolo Zapelloni per l’anagrafe, Paolo per parenti e qualche amico, e per quasi tutti solo e semplicemente Zap.

Era un uomo che aveva deciso di dedicare la sua vita ad una unica e immensa passione, il cinema. O ancora meglio i film. E’ stato probabilmente uno degli uomini che ha visto più film al mondo. Andava regolarmente al cinema almeno due volte al giorno, al primo e all'ultimo spettacolo. Guardava qualunque storia raccontata per immagini che potesse capitargli davanti agli occhi. Quando non era al cinema usava la TV, le cassette, poi i DVD, i computer. Come gli ultimi giorni in ospedale, come tanti anni fa in cella. Già, televisori improponibili e messi insieme col nastro adesivo perfino in carcere, dove si trovò a stare per vicissitudini d’altri tempi dalle quali fu poi ovviamente assolto, e nel rubare corrente e segnale TV dalla cella per riuscire a vedere film anche li dentro commise, come ha detto un altro suo amico che ne condivise la reclusione, probabilmente “l’unico vero reato della sua vita”.

E non perdeva un festival, anche se non aveva i soldi per andarci. Intraprendeva trasmigrazioni epiche, solo e senza un soldo, fra treni locali e altri mezzi improbabili per raggiungere Venezia, Cannes, Berlino e qualunque altro luogo che ospitasse una concentrazione di proiezioni di pellicole sufficiente a soddisfare la sua fame insaziabile.

Ma la sua resistenza alla visione sarebbe nulla in confronto alla sua memoria e capacità di catalogare tutto ciò che vedeva. Ricordava praticamente ogni film e ogni scena. Era capace di identificare coerenze e incoerenze in qualunque film. Ha archiviato e catalogato migliaia di scene, nella sua mente e poi su carta e poi su computer, per se e per i programmi e i festival cui ha collaborato, con personali sistemi di identificazione che ne permettono la ricerca non solo attraverso la scena ritratta (amore, bacio, guerra, dialogo…) ma attraverso tutte le sue principali caratteristiche tecniche (diurno, notturno, zoomata avanti, zoomata indietro, carrellata a destra, carrellata a sinistra, dolly, panoramica in alto, panoramica in basso). Una follia che è diventata uno strumento prezioso per tutti coloro che lavorano sul repertorio, prima fra tutte la storica striscia serale di Raitre che si chiama Blob, e che continuerà ad essere una fonte di ricerca e conoscenza inestimabile nei decenni futuri continuando a farlo vivere nel mondo che amava e a cui aveva dedicato la sua intelligenza sopraffina e insaziabile.

Proprio Blob la sera del suo addio lo ha ricordato magnificamente, con la semplice scritta “CiaoZap” e  le scene del funerale del marinaio Vakulinčuk de “La corazzata Potëmkin”. Citazione ancor più sottile dato che erano le immagini della versione italiana che proprio in quella scena aveva una colonna sonora diversa rispetto all'originale sovietico, con le note di una canzone anarchica che mai i bolscevichi avrebbero messo su quella pellicola. E la notazione di questa incongruenza sonora in uno dei film più famosi della storia del cinema, che necessita una mescolanza inusuale di conoscenze politiche, cinematografiche, storiche e filologiche era ovviamente tutta sua. A nessun altro sarebbe venuto in mente di notarla e di notarne le sfumature.

Non penso sia neanche un caso che Zap suoni così simile al nomignolo con cui era chiamato anche un altro grande, Andrea Pazienza detto Paz. Sono quei casi in cui sicuramente nulla è per caso. Ricordo una vignetta, mi pare di Silver, in occasione della morte di Pertini, avvenuta poco dopo quella del grande fumettista, che ritraeva il Presidente partigiano con la valigia e la pipa in mezzo alle nuvole del paradiso che chiamava “PAZ! Dove sei PAZ?”, e ne sogno da giorni un’altra identica in cui al fumetto si aggiunge “e ZAP?”. Nel notare oggi questa assonanza mi sono anche accorto di quanto inconsciamente li abbia sempre associati. Senza sapere bene perché, e senza saperlo neanche ora. Forse fondamentalmente per il senso di libertà assoluta che trasmetteva il loro lavoro ma soprattutto la loro esistenza. Suona sempre retorico associare a qualcuno la definizione di “uomo libero”, ma non riuscirei ad associarla a nessun altro se non a Paolo Zap. L’unica persona che abbia mai conosciuto, io praticamente ultimo e lui primo di una serie sterminata di cugini, a non subire davvero alcun condizionamento da nulla. Denaro, politica, forma, estetica, posizione sociale, convenzioni, problemi pratici. Non gli fregava davvero, ma davvero, nulla di nulla. Le uniche cose di cui aveva davvero bisogno erano qualcosa da mangiare (ogni tanto), sigarette da fumare, e film da vedere.

Ma Zap non era un critico. Giudicava i film che vedeva, certo, ma senza il gusto di stroncare o parlar male. Al contrario trovava qualcosa di positivo in qualunque visione. Perché di un film sapeva guardare e sapeva capire tutto. Aveva un rispetto sacro per il lavoro che c’è dietro un film, anche un film venuto male, e sapeva cogliere anche le idee, la tecnica, lo spunto che anche in un’opera non eccelsa valeva la pena di mettere da parte e ricordare. E catalogare. 

Purtroppo, ciò che nessun archivio per quanto accurato potrà più mettere a disposizione è tutto ciò che aveva catalogato nella sua testa e il suo modo di riuscire a collegare un elemento con l’altro. Una precisione e una fantasia che nessun web e nessuna rete di link potranno mai neanche avvicinare.

Ci si vedeva almeno due volte l’anno, a Natale e  in primavera, in grandi riunioni familiari. E ogni volta gli si chiedeva di qualche film appena uscito o che stava per uscire, perché sapeva tutto. Da lui ho avuto conferma, autorevole e quindi di grande soddisfazione, di una convinzione che andavo sviluppando già da piccolo e che avrei sempre più consolidato. Lui, il maniaco esperto di cinema che conosceva a memoria tutti i film dei formalisti russi, disse “il prossimo film che esce della Disney è un capolavoro”. Capii che per lui, come era giusto che fosse, un cartone animato aveva la stessa identica dignità di qualunque altro film. Era cinema, erano storie raccontate per immagini in movimento. Nessuna distinzione e nessuno snobismo. Un capolavoro è un capolavoro, in qualunque modo lo si realizzi.

Ieri sera sono andato al cinema, ed entrando in sala istintivamente ho guardato la seconda fila. Mi sa che mi verrà di farlo spesso da ora in poi. Era la sua fila preferita. Davanti allo schermo, senza teste fastidiose a disturbare la visione ma con la possibilità di appoggiare i piedi sulla fila davanti. Il posto perfetto per chi vuole entrare nel film e far scomparire per due ore tutto il resto.  

Penso di non scoprire niente di straordinario nel constatare che Paolo ha vissuto più tempo al buio che alla luce. Fra le ore di sonno, le ore notturne e quelle trascorse nel buio delle sale cinematografiche non credo possano esserci dubbi. Praticamente un vampiro della celluloide.

Paolo Zap era un personaggio, ma non un personaggio qualsiasi. Era un personaggio reale, soprattutto vero, e al tempo stesso un personaggio letterario. Sarebbe uscito bene da un romanzo di Simenon. Come “L’uomo che guardava passare i treni”, così lui era “L’uomo che guardava i film”. Spettatore attento e scrupoloso della vita e dei suoi racconti, con la sostanziale differenza, rispetto al protagonista del romanzo, di non essere in nessun modo capace di commettere alcun crimine, evidenza alla quale anche i suoi giudici più accaniti alla fine si son dovuti arrendere.

Ma Paolo Zap era anche “L’uomo dei cinema”, così come “L’uomo della folla” del sublime racconto di Edgar Allan Poe. In quel racconto, dopo aver seguito per ore e ore uno strano personaggio senza riuscire a definirlo e incasellarlo nelle sue categorie mentali, il narratore alla fine si arrende e conclude "È l'uomo della folla, non vuole ne può star solo”. 

Così si sarebbe potuto seguire Paolo per giornate intere, senza che lui si curasse minimamente di noi, vedendolo uscire da un cinema ed entrare in un altro, trascorrere in assoluta tranquillità le lunghe attese fra uno spettacolo e un altro e quelle per attendere gli autobus che lo portassero da una sala all'altra o finalmente a notte tarda a casa, senza riuscire mai ad afferrarne davvero l’essenza, l’impalpabile consapevolezza di se stesso, l’infinito rispetto per il mondo, per gli altri e per qualunque forma di vita reale o narrata che gli si parasse incontro.

E concludere, arrendendosi, che lui poteva solo essere “l’uomo dei film, e non può ne vuole starne senza”.
Foto di Eugenia Zapelloni



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