giovedì 26 novembre 2015

Il nuovo che avanza

Mi sono svegliata stamattina con il ricordo limpido di una scossa di terremoto. 

Ero al lavoro, le pareti hanno iniziato a tremare, una frazione di secondo per rendersi conto di quello che stava succedendo e attuare la prima cosa che evidentemente farei in una situazione del genere: ripararmi nel vano di una porta. 

Ho la netta sensazione che fu la mia maestra delle elementari a dettare al mio inconscio quell'unica precauzione. La mia maestra delle elementari è anche l’unica persona a godere del credito assoluto che un suo insegnamento potrebbe, un giorno, salvarmi la vita.

L’edificio ha smesso quasi subito di tremare e la seconda cosa che ho fatto è stata affacciarmi (ero a un piano alto del palazzo) per cercare mia sorella. L’ho vista nel piazzale antistante, sana e salva. Poco dopo mi sono svegliata.

Un terremoto è uno strappo doloroso. Una perdita indicibile. Perdiamo i nostri affetti, persone e cose. Senza preavviso. E se abbiamo l’ardire di sopravvivere ad un evento simile, per tutta la vita continuiamo a cercare, sperando di ritrovarli intatti, sperando di riconoscere in mezzo alla folla raccolta in un anonimo piazzale qualcuno o qualcosa che alberga il nostro cuore e la nostra anima, altrimenti spezzata.

Ma quella di stanotte era evidentemente un’esercitazione, non portava con se né angoscia, né sollievo.

Eventi traumatici, punti di rottura, squarci. Riflettevo su questo nei giorni trascorsi. 

Ma quante volte non è un evento esterno e imprevedibile quanto piuttosto la nostra presunzione a fare tabula rasa? Quante volte progettiamo il vuoto

Possibile che non ci sia nulla da imparare da chi, prima di noi, ha fatto le stesse cose? 

Possibile che sia che si tratti del sindaco di una grande città, del responsabile marketing di una grande azienda o di un nuovo fornitore che subentra in un appalto, l’idea di partenza è: adesso vi faccio vedere io? Quante volte il nuovo che avanza è decontestualizzato e nella nostra pretesa di essere “visionari” portiamo invece un bagaglio (quello sì, non potendo fare tabula rasa anche di noi stessi) che appesantisce adattabilità e prontezza, azzera le differenze, coopta, riproduce fantomatici schemi di successo utilizzati in contesti simili? 

Possibile che chi è venuto prima è, per definizione, il peggio che poteva capitare?

Diamine, per tutta la vita ho ringraziato le ex dei miei fidanzati! Pensa ricominciare da zero;-). 

Non dovremmo tendere verso l’ars combinatoria come spiega benissimo Annamaria Testa in questo post

Non dovremmo cercare oggetti smarriti da altri, ripercorrere le stesse strade, riscoprire identiche situazioni e ricombinare tutto in modo creativo ovvero con quella capacità di unire elementi preesistenti in combinazioni nuove, che siano utili?

Il nuovo non si costruisce sul nuovo. Se così fosse, se nulla va salvato, stamattina nel mio sogno avrei guardato il piazzale antistante l’edificio e sarebbe stato miseramente vuoto.

P.S. Le foto sono del progetto di Marine Leriche, Object Trouvés, uno dei padiglioni dell’edizione 2015 Outdoor Festival – Here now. 
Roma - 2015 Outdoor Festival – Here now.

Roma - 2015 Outdoor Festival – Here now.
Roma - 2015 Outdoor Festival – Here now.

Roma - 2015 Outdoor Festival – Here now.

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mercoledì 18 novembre 2015

Chi ha paura dell’effimero?

Gli esseri umani si inventano dei modi per poter sopravvivere al tempo della guerra... 
(Walter Veltroni, Renato Nicolini – Documentario sull'estate romana e sul meraviglioso urbano).

Nel 1977 Carlo ha vent'anni, frequenta l’università e una ragazza, Annamaria.

Roma nel 1977 è terra di Babilonia, una città difficile e pericolosa, la città degli anni di piombo, della lotta armata, della contestazione studentesca, del terrorismo, dei disordini, della strategia della tensione. I mezzi di comunicazione diffondono quotidianamente bollettini di guerra: esplosioni, attentati, violenti scontri di piazza. 

E morti.

Il 1° febbraio 1977 muore Guido Bellachioma, 22 anni, studente del collettivo di Lettere durante l’occupazione della Sapienza; il 21 aprile l’università è nuovamente occupata e muore l'allievo sottufficiale Settimio Passamonti colpito a morte; il 12 maggio durante una manifestazione contro la Legge Reale del 1975 sul fermo di polizia e l'uso di armi da parte delle forze dell'ordine muore, poco meno che ventenne, Giorgiana Masi colpita all'addome da un proiettile calibro 22 durante gli scontri tra dimostranti e polizia… “e poi primavera / e qualcosa cambiò, / qualcuno moriva / e su un ponte lasciò / lasciò i suoi vent'anni / e qualcosa di più...” (Stefano Rosso, Bologna '77);  il 30 settembre un gruppo di neofascisti uccide con un colpo di pistola Walter Rossi, studente universitario e militante di Lotta continua.



Nel 1977 esce al cinema Saturday Night Fever e il primo episodio di Guerre stellari.

Da Piazza Santa Maria Ausiliatrice nel quartiere Appio -Tuscolano, dove abitava con i genitori e i due fratelli, Carlo raggiungeva gli amici al centro, incurante del clima di guerriglia urbana, per bere una birra o tirare tardi, ma non troppo, sapendo che qualcuno avrebbe vegliato finché non avesse sentito la serratura girare di nuovo nella toppa.

Nel 1977 il sindaco di Roma è un torinese, Giulio Carlo Argan, storico dell’arte e studioso di fama internazionale. 

Indimenticato assessore alla cultura è Renato Nicolini.

Nicolini aveva un animo artistico, era architetto ma era più di tutto immaginifico, vulcanico e fanciullesco anche dopo aver raggiunto l’età avanzata, non badava troppo alla forma del vestire e i capelli vagavano arruffati inseguendo a stento la direzione delle idee, la voce non riusciva a star sempre dietro ai pensieri e così spesso i concetti erano sommersi da nuove parole e il discorso seguiva una direzione sghemba, un fiume in piena ma senza arroganza, anzi gli era rimasta una dose di incredulità, quella stessa di quando era stato catapultato a fare l’assessore capitolino a soli 34 anni.” (Claudio Gamba, La scomparsa di Giuseppe Chiarante e Renato Nicolini).
Renato Nicolini

Argan è sindaco in quegli anni drammatici, è sindaco quando viene rapito e ucciso Aldo Moro e quando il suo cadavere è ritrovato in via Caetani, eppure da mano libera al giovane assessore nel convincimento che la politica è al servizio dei cittadini, che la politica e la cultura si alimentano l’una dell’altra, che la città è il luogo di incontro tra le testimonianze del passato e la militanza culturale e politica nel  presente. Del resto il concetto di politica non viene proprio dalla città, dalla polis?

Renato Nicolini raccoglie la sfida, esce dalla sindrome dell’assedio e restituisce la città ai suoi cittadini: nel momento in cui la paura rischia di vincere inventa luoghi “neutri”, zone franche, mette insieme lunghe notti di cinema, maratone, festival della poesia, in un gioco in cui convive la tipica famiglia romana, il figlio dei fiori, l’intellettuale, il frequentatore di cineclub, il poeta e il proletario. Sono in 4000 a Massenzio per il Peplum e due anni dopo arrivano in migliaia da tutta Italia per il Festival dei Poeti di Castelporziano. 

Nel 1977 i romani migrano lungo le strade di una città in guerra e oltrepassano compatti le porte spalancate da Renato Nicolini: cinema, teatro, musica, arte, sapere, comunicazione, relazioni sociali, sperimentazione. Cultura interclassista, interdisciplinare, partecipata, cultura basata su uno spirito libertario, progressista e laico. Quello stesso spirito che qualcuno tenta ancora oggi, inutilmente, di soffocare con il sangue. Qualcuno, in seguito, l’ha definita cultura dell’effimero
Roma - Basilica di Massenzio

Incontro Carlo alla Feltrinelli di via Appia, poco lontano dai luoghi della sua giovinezza.
“Parlami di Nicolini …” dico. 
“Che vuoi sapere?”
“Della cultura dell’effimero”
“Una faccenda tremendamente seria...”

Stay tuned :-)


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mercoledì 11 novembre 2015

Le increspature del Design

Per qualche anno sono passata, almeno una volta al mese, dalle parti del monte dei Cocci diretta verso la Stazione Trastevere. Uno dei Clienti che seguivo aveva la sede centrale in quella zona in un bel palazzo tranquillo alla fine di una strada senza uscita.

Attraversavo il Tevere dal Ponte Testaccio, cercavo parcheggio e mi incamminavo velocemente, la mente occupata dall'incontro imminente (le persone da incontrare, l’elenco delle cose da discutere). 

Gli ultimi metri la strada era un po’ in salita e poco prima di girare l’angolo e affacciarsi alla reception, c’era una palazzina interamente occupata al piano terra da un negozio di arredamento, uno di quelli di costoso design. L’allestimento del bagno, per capirci, conteneva vasche a idromassaggio dimensionate per accogliere famiglie di elefanti, rubinetterie che formavano piccole cascate, pavimenti rivestiti di ciottoli del mar Morto raccolti a uno a uno da manodopera locale, che aveva diligentemente scartato tutti quelli che mal si accordavano con i colori della carta igienica. 

Faceva capolino, in vetrina, un oggetto del desiderio disponibile in due versioni, da cui ero irrimediabilmente attratta ma che pur non avrei saputo che farmene, anche se aveva la stessa valenza evocativa della finestra della cucina da trasformare in bovindo per piazzarci il tavolo della colazione.

Lo guardavo indugiando sui materiali, sulla lucentezza, sulla fattura, finché una mattina mi fermo, entro in negozio, chiedo il prezzo e scopro che era inutilmente abbordabile: uno sgabello in alluminio stropicciato a mano (con struttura interna in legno massello) non poteva trovare posto nella mia casa.
Sgabello in alluminio stropicciato a mano

In verità non so quanto gli oggetti in metallo stropicciato, da qualche anno sul mercato, abbiano raggiunto fama e notorietà. Ho l’impressione che si tratti ancora di prodotti di nicchia, anche perché la lavorazione artigianale non ne fa un “design accessibile”.

Del design “stropicciato” mi piace l’idea che per ottenere increspature e pieghe sia necessario possedere un’arte antica: quella di forgiare i metalli e allo stesso tempo sforzarsi di superare il limite funzionale e volare con la fantasia. 

Un po’ come questi aeroplanini in alluminio spiegazzati. 
Blue&Joy

Li crea la coppia di artisti Blue&Joy.


Di sgabelli abbiamo parlato anche qui
Per approfondimenti:

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mercoledì 4 novembre 2015

…e non giocava a dadi neanche Hitch

di Alessandro Borgogno

Torniamo su alcuni luoghi del delitto per riprendere il discorso intrapreso sulla scuola de “gli Uccelli” e sui luoghi della Provenza dipinti da Van Gogh.

Ci torniamo per fare un passo avanti, e per farlo andiamo a visitare (noi lo abbiamo fatto qualche anno fa viaggiando per la California) le ambientazioni scelte da Hitchcock per un altro dei suoi capolavori, forse il più sentito e sofferto dei suoi lucidi incubi: “Vertigo”, conosciuto da noi come “la Donna che visse due volte”, del 1958.

Ambientato a San Francisco e dintorni, il film ne rispetta scrupolosamente i luoghi sia nella localizzazione che nei tempi di narrazione. Oltre ai più famosi e conosciuti (Il Golden Gate, Lombard Street, il palazzo della Legion d’Onore al Lincoln Park) la storia ne utilizza, non solo come ambientazioni ma anche come veri e propri fulcri narrativi della vicenda, almeno altri due di assoluta suggestione e unicità.

Uno è la Mission Dolores, missione spagnola che dà anche il nome al distretto cittadino, e che se nella storia rappresenta il luogo di sepoltura della presunta antenata in cui crede di essersi reincarnata Kim Novak, nella realtà è un vero luogo storico di San Francisco, la probabile prima missione da cui fu fondata l’intera città. 

Ed è davvero un posto di grande suggestione. 

Fra le vie e le strade tipiche della metropoli californiana, improvvisamente si fa spazio questa piccola chiesa barocca, e dietro un semplice muro si apre un piccolo cimitero che diventa una inaspettata oasi di silenzio e tranquillità. Ci si entra, si passeggia piano e si lascia andare lo squadro sulle lapidi che riportano date vecchie di più di due secoli e che risalgono alla nascita della città. E’ evidente che Hitchcock ha tenuto in gran conto non solo l’aspetto scenografico e “misterioso” del luogo, ma il suo reale significato storico.
San Francisco, Mission Dolores


San Francisco, Mission Dolores


L’altro luogo è un’altra missione, e sta ad un centinaio di miglia a sud, fra San Francisco e Los Angeles. 

È San Juan Bautista, convento spagnolo situato lungo “El Camino Real”, interminabile teoria di missioni francescane (e di campane sante) che si snoda in un percorso continuo di quasi mille chilometri da San Francisco fino al confine con il Messico. Qui Hitch fa esplodere la sua storia, il rapporto fra i protagonisti e il dramma centrale di tutto il suo cupo e magnifico film, e qui ritorna nel finale per il clamoroso e raggelante epilogo. Per farlo effettua una sola manipolazione, ricreando un campanile che non c’è più (ma del quale testimonianze storiche sembrano confermare la precedente esistenza). 

Per il resto il luogo, isolato e magico, letteralmente fuori dal tempo, si presenta oggi come era al tempo in cui sir Alfred vi piazzò la cinepresa, e probabilmente come era anche cento e poi duecento anni prima. E Hitch mantiene realismo e precisione quasi documentaristiche anche nel far viaggiare l’auto dei protagonisti sulla strada alberata che porta alla missione, e perfino nell’inquadrare l’incrocio dove si lascia la strada principale per entrare nel paesino spagnolo.
San Juan Bautista

San Juan Bautista

San Juan Bautista

Il pensiero che ci fa legare queste visite, e queste scoperte, al discorso fatto per Van Gogh è il seguente: come Van Gogh al massimo della sua espressione creativa e immaginifica rappresentò paesaggi rispettandone in modo quasi sorprendente proporzioni e prospettive, così Alfred Hitchcock al punto più alto della sua carriera, anche lui al massimo della sua espressione creativa e potendosi permettere qualunque fantasia e qualunque libertà, utilizzò luoghi reali e li raccontò rispettandone totalmente l’ubicazione, la topografia e il significato storico.

Per chi conosce a memoria il film, (ogni riferimento a chi scrive è puramente casuale) cercando e visitando quei luoghi si scopre addirittura che perfino i tempi di percorrenza e le distanze fra un posto e l’altro sono rispettati dal maestro del cinema in modo talmente rigoroso da contribuire a dare alla narrazione quel ritmo apparentemente più lento e più riflessivo che è anche uno dei tratti che distinguono quel film da molti suoi altri capolavori.

Insomma, senza azzardare spiegazioni che facilmente risulterebbero arbitrarie, ci è sembrato interessante  constatare come sia Van Gogh che Hitchcock, nel momento in cui la loro produzione artistica era più libera da costrizioni e vincoli (il pittore non aveva nessuno a contestare ciò che decideva di mettere o non mettere su tela, il regista era all’apice del suo successo e nessun produttore né sceneggiatore avrebbe mai potuto imporre, né contestare, qualunque scelta avesse deciso di fare), scelsero la disciplina e il rispetto attento e rigoroso della realtà che li circondava e che avevano deciso di raccontare.

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